Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /4

di Fabio Ciabatti

Avevamo concluso la precedente puntata con Pantera che per la prima volta aveva assemblato un Nganga con parti di un corpo femminile, quelle di Molly. Come anticipato si tratta di una piccola svolta. E questo ci dà il destro per accennare al rapporto di Pantera con il mondo femminile, tema che emerge ripetutamente anche se sottotraccia (sicuramente in modo meno centrale rispetto a quello che accade per Eymerich). Evangelisti evoca il cliché dell’eroe che salva la fanciulla indifesa e poi convola a giuste copule. Ma si guarda bene dal cascarci dentro. Pantera non ha mai una storia d’amore. Solo rapporti sessuali occasionali, sempre con prostitute nei confronti delle quali, comunque, nutre un sostanziale rispetto, sempre nei limiti consentiti dalla sua connaturata asocialità. Finisce per avere atteggiamenti protettivi, soprattutto nei confronti delle giovanissime Cindy e Kate, dopo aver sperimentato un profondo turbamento per le loro rispettive sorti. Più scostante il suo comportamento nei confronti di Molly alla quale, però, è profondamente legato. Le tre principali figure femminili, nonostante appaiono inizialmente fragili e indifese, dimostrano alla resa dei conti un’insospettabile forza. E i rapporti stretti con loro non passano senza lasciare tracce significative. Potremmo dire che la cruda visione del mondo di Pantera viene un po’ ingentilita o, per meglio dire, resa più empatica.
Questo è particolarmente evidente quando il
palero assembla il suo Nganga con i resti mortali di Molly. È la piccola svolta cui abbiamo accennato. L’universo spirituale di Pantera, che fino a questo momento ci è stato presentato come abitato da divinità potenti fino al limite della brutalità, si arricchisce di una nuova sensibilità. Il Santo, o meglio la Santa, comunica a Pantera nuove sensazioni: meno cattiva dei precedenti Nganga, è capace di sorridere con divertimento, di trasmettere affetto con qualche sfumatura dispettosa, di ispirare pensieri gentili, ma può anche arrabbiarsi al momento giusto sciorinando visioni di antiche cerimonie sacrificali.
Allo spirito di Molly Pantera finisce per attribuire disposizioni d’animo per lui inconsuete e di primo acchito assai fastidiose. Dopo aver assistito a un ultimo eccidio, per esempio, continua a provare un acuto senso di nausea sebbene nella sua vita abbia già assistito molte volte a scene di efferata violenza. Cercando una spiegazione razionale chiama in causa l’insopportabile ipocrisia degli americani che

Avevano una capacità diabolica nel ricondurre prepotenze e delitti da loro perpetrati a motivazioni di particolare nobiltà, anche quando il movente vero era l’istinto di sopraffazione o un interesse di infimo contenuto etico.1

Si tratta di una spiegazione plausibile? Pantera ne dubita:

forse – e questa era la spiegazione irrazionale: dunque, probabilmente, la sola autentica – Pantera era condizionato dal fatto di avere Molly nel Nganga, e dunque di subirne la sensibilità. Se ciò fosse risultato certo, se ne sarebbe sbarazzato in fretta. Per il momento, l’unico dato sicuro era la nausea persistente.2

Ma non è tutto. Pantera dà la colpa allo spirito di Molly di essere “capitato in mezzo a congreghe di utopisti”, un genere di persone che aveva sempre tollerato a stento. Insomma, dopo mille esitazioni, il messicano si affilia alla società operaia Le cinque stelle. Quando gli viene l’idea di chiedere l’adesione, Pantera la considera “così balzana che fu sul punto di attribuirla all’influenza del Nganga”.3

E’ interessante notare che l’atteggiamento nei confronti della società operaia non è differente da quello che Pantera aveva verso il mesmerismo di Rosenthal o la magia dell’indiano Vecchia Pipa: dubita della sua efficacia, ma alla fine la accetta perché apprezza le buone intenzioni dei suoi membri. 

Quelli delle Cinque Stelle (chiamarli col loro vero nome, Knights of Labor, era assolutamente proibito) gli piacevano. Avevano pochissimo in comune con i Molly Maguires. Non badavano alla nazionalità, né al sesso, né alla razza. Erano alieni al concetto di vendetta, o di esecuzione individuale. Molti tra essi (non tutti) sognavano una rivoluzione da attuarsi tramite uno sciopero a oltranza, che avrebbe costretto il padronato a consegnare ai lavoratori i mezzi di produzione. Agli occhi di Pantera si trattava di una fantasia, ma almeno un fine c’era, e non era idiota come una supposta liberazione degli irlandesi dal dominio inglese trasferita in contesto americano.4

Soprattutto, Pantera, da uomo d’azione, rimane indifferente alle discussioni dottrinali.

Lui credeva poco o niente all’ineluttabilità delle leggi storiche, al destino che consegnava alla classe operaia la fiaccola che era stata della borghesia, alla natura buona dell’uomo su cui, un giorno, si sarebbe modellata la società perfetta. La sua visione del mondo, se così si poteva chiamare, era fatta di caos e di scontri, intessuti di una barbarie resa ineluttabile dal far parte della realtà biologica dell’essere umano. Ciò che non rientrava in quella sua filosofia primaria lo interessava pochissimo.5

Tutto sommato, la sua concezione primordiale si mostrerà più adeguata della sedicente scienza della storia professata dai leader dei lavoratori, almeno nel momento in cui la guerra di classe si manifesterà in tutta la sua intrinseca violenza.

Siamo così arrivati alle battute finali di Antracite quando Pantera, dopo aver liberato Kate dal penitenziario di Saint Louis, si imbatte nell’esercito e nella guardia nazionale che stanno per assaltare gli ignari lavoratori della Comune di Saint Louis. Si precipita nella Schuler’s Hall, dove si riunisce il comitato esecutivo dei rivoltosi per avvertirlo dell’imminente e mortale minaccia. A questo punto Evangelisti ci sorprende con un piccolo colpo di scena stilistico. Non si limita a un abbassamento della tensione prima del climax finale, come sarebbe tutto sommato normale aspettarsi. Ci catapulta improvvisamente in un intermezzo dall’indubbio effetto comico dove troviamo i leader dei lavoratori riuniti dalla sera prima a discutere e scrivere proclami, come racconta a Pantera un operaio con uno sguardo a dir poco ironico. Di fronte al messicano che irrompe improvvisamente avvisandoli dell’urgenza di agire, non sanno fare altro che litigare tra di loro accusandosi di “economicismo” e di “posizioni lasalliane” (Evangelisti si è probabilmente divertito a prendere spunto dagli innumerevoli scazzi tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta). Ridicolmente fiduciosi nella volontà di trattativa delle autorità cittadine, i leader operai negano recisamente l’opportunità di utilizzare le armi nell’attuale fase storica. 

Pantera ne aveva abbastanza. Estrasse la Smith & Wesson e ne sollevò il cane. Quindi disse: “Le fasi storiche le decide il tamburo del mio revolver.”6

Se fossimo al cinema a questo punto scatterebbero urla e applausi liberatori. Ma siamo qui a scrivere un saggio e, godendoci la scena silenziosamente, ci chiediamo il senso di questa irruzione del comico, un registro per nulla estraneo alla narrativa di Evangelisti, come ci ricorda Sebastiani.7 Solo che questa volta non serve a smutandare il re di turno, ma prende di mira un certo tipo di immaginario alternativo o che si vorrebbe tale. A questo proposito vale la pena fare un passo indietro, citando uno scambio di battute tra Bellegarrigue e Pantera in Black flag.  

Per sapere la verità non occorre scomodare magia, religione e altre concezioni superstiziose che fanno a pugni con il progresso. Il vero rivoluzionario non ha altra fede che la scienza. Dico bene messicano?
Pantera sogghignò – Cinque anni fa, quando ero ancora ragazzo ho partecipato a due rivoluzioni: la guerra del sale di Santa Fé e la rivolta di Juan Nepomuceno Cortina. Eppure penso che se la scienza diventa fede, non è più scienza. Ma forse sbaglio.8

La scienza che diventa fede si trasforma in una gabbia disciplinatoria se è uno strumento del potere (è il caso di Eymerich), in una gabbia di matti se professata dai rivoluzionari (almeno fino a quando a loro volta non salgono al potere). Una tragedia nel primo caso, una farsa nel secondo. Se qualche materialista oltremodo scientifico si adombrasse di fronte a queste affermazioni, vale la pena ricordare quanto scrive lo stesso Marx, a commento di un’altra più famosa Comune, quella parigina:

Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna.9

Un atto rivoluzionario, o anche di semplice di resistenza, richiede una decisione sempre priva di sufficienti garanzie quanto alla sua adeguatezza e al suo esito. Può essere dettata da una sorta di rabbiosa speranza che può emergere anche nelle situazioni più sconfortanti, come nell’epilogo della storia cornice di Black flag.

– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.10

Quello di Sheryl è un atto che nasce certamente da una decisione personale ma che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente, ma è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti! C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. La rabbia di Sheryl sta lì a ricordarcelo.

Ma ci può essere anche una differente tonalità emotiva in questi momenti decisivi e tragici, stando almeno alla scena finale di Antracite. Torniamo allora a raccontare la storia di Pantera, ricominciando da dove l’avevamo lasciata poco fa. Il messicano, di fronte all’atteggiamento imbelle dei leader operai, sostiene che l’unica possibilità di salvezza per i manifestanti è rappresentata da un’azione diversiva portata avanti da un “pazzo isolato”. A un membro del comitato che gli chiede “che cosa hai in mente compagno?” risponde solamente “Non so se sono un tuo compagno. E non sono tenuto a dirti nulla. Faccio quello che mi va di fare”.11 Fino alla fine Pantera combatte con la sua natura di lupo di branco, ma i suoi dubbi non gli impediscono di prendere una decisione e, addirittura, di sacrificarsi per il branco stesso. Il messicano, infatti, sale a cavallo. Sta per lanciarsi contro le file nemiche per ritardarne l’attacco e permettere ai rivoltosi di trovare riparo. Ma Kate monta in sella dietro di lui. Pantera cerca di convincerla a smontare perché, le dice, la battaglia è già perduta e lui sta per andare incontro alla morte. “Se la causa è giusta, le battaglie perdute sono le più belle”12 gli risponde la giovane irlandese. Kate sa che non c’è alcuna salvezza per lei nel tornare a casa, nel suo vecchio mondo che troverebbe ridotto in rovina. Per lei rimarrebbe soltanto la prigione o la miniera. Pantera, inizialmente esasperato dall’insistenza dell’adolescente, finisce per arrendersi alla situazione.  

Ciò che avvertiva era solo una pressione morbida contro il dorso. Certo i piccoli seni di Kate. La ragazzina li strusciava anche un poco. Pantera si trovò a sorridere.
Il cavallo accelerò l’andatura, tutto piegato in avanti. I soldati guardarono attoniti i folli che si gettavano contro di loro. Parevano non sapere che fare.
In quel momento Kate gridò, con la sua voce limpida: “Viva i Mollies! Viva l’Irlanda!”
Il sorriso di Pantera si allargò. Sollevò la pistola e sparò un colpo verso le mitragliatrici. Poi un altro. Poi vuotò l’intero caricatore.13

Di fronte alla sciagura che incombe, Evangelisti non ci abbandona a passioni tristi: a prevalere sono bagliori di una delicata sensualità, di una impercettibile gioia, di un limpido orgoglio. Nessuna esaltazione della bella morte, nessuna necrofila fascistoide. Al contrario, un inno alla vita che dischiude il possibile, sebbene si tratti di una possibile che per farsi reale dovrà passare per una sanguinosa lotta.
Anche senza ricorrere al genere fantastico, Evangelisti ci porta a fare l’esperienza dei limiti del nostro mondo, conducendoci insieme a Pantera fino al punto in cui gli oppressi si rivoltano collettivamente contro i loro oppressori. Certamente si tratta di una rivolta destinata alla sconfitta. L’esito tragico, però, non appare come la pietra tombale sui desideri di liberazione del nascente movimento operaio americano e, indirettamente, su quelli dei nostri tempi funestati dalle ripetute disfatte subite da oppressi e sfruttati. I vinti della storia possono avere un loro primo riscatto attraverso il ricordo delle loro gesta, trasfigurate narrativamente  nell’atto eroico e disperato di Pantera. Un gesto difficilmente concepibile senza la possibilità del nostro eroe di attingere all’energia che sgorga dalle profondità di un immaginario alternativo a quello del potere che sta forgiando la nuova America.

Pantera consegna il testimone di questo immaginario ancora incerto, una  miscela instabile di luce e tenebre, passato e futuro, unità e frammentazione, ai protagonisti del successivo romanzo della trilogia americana e, soprattutto, a noi lettori. Come nota Luca Cangianti “la narrazione delle avventure intraprese […] è capace di produrre una mitologia e un immaginario che possono risorgere nelle lotte future”.14 Questa speranza affiora timidamente tra le righe. Non è però affidata a un impossibile happy end che risulterebbe oltraggiosamente consolatorio per i vinti della storia. E neanche ad un esplicito incitamento a proseguire la lotta che apparirebbe vuotamente retorico. Una fragile speranza emerge solo dalla tonalità emotiva con cui è affrontata la sconfitta. Non c’è rassegnazione, ma la rabbia di Sheryl o il  sorriso di Pantera.  
Sembra assurdo, ma è la prima volta che vediamo affiorare un sentimento di gioia sul viso del messicano. Per arrivare a questo punto ha dovuto fare un lungo viaggio, percorrendo le strade di un’America che sta procedendo speditamente verso un futuro disumano in cui lo sterile metallo trionferà su ideali e sentimenti. Il tempo (del romanzo) storico, però, non lascia più spazio per immaginare una rivoluzione della magia, una rivoluzione fatta con l’aiuto di forze sovrannaturali, come quella di Black flag. Certamente anche in Antracite udiamo il ferro gridare: “Lo senti? E’ il metallo che urla. Celebra in anticipo il suo trionfo”15 dice Jesse James, il famoso bandito, a Pantera. Ma il grido disumano non è più quello del ferro e dell’oro che producono bestiali macchine da guerra o corpi semisintetici. Il racconto allegorico è diventato narrazione storica. Il metallo che urla è il fischio acuto di una sirena che viene da una agglomerato di fabbriche industriali lungo la sponda del fiume Schuylkill a Filadelfia.
In un contesto narrativo che si è congedato dal racconto fantastico, Pantera deve fare affidamento su tutta la sua razionalità per comprendere le condizioni oggettive degli avvenimenti in cui è immerso e per capire le forze politiche, economiche e sociali che sono in gioco. Ma il suo schierarsi e il suo agire non sono frutto soltanto di questa comprensione profana. Il suo viaggio non è un percorso a senso unico verso il disincanto. Altrimenti come spiegarsi il suo ultimo ed estremo atto di generosa follia? Il suo odio per l’ingiustizia rimane indissolubilmente legato al suo primordiale diritto alla vendetta, profondamente radicato in una visione del mondo popolata da spiriti portatori di caos e di scontri. Il realismo del romanzo storico conserva la forza narrativa e politica che prorompe dall’incanto del racconto fantastico.

La scena finale di Antracite è colorata da un delicato tocco poetico, nonostante l’oscurità che incombe. È pervasa da una debole forza magica, verrebbe da dire. È l’ultima emozionante tappa di un viaggio straordinario che ha condotto il nostro eroe, lo stregone Pantera, dalla rivoluzione della magia alla magia della rivoluzione.

Fine. Precedenti puntate qui, qui e qui


  1. V. Evangelisti, Antracite, Mondadori, Milano 2003, p. 320. 

  2. Ibidem. 

  3. Ivi, p. 323. 

  4. Ibidem. 

  5. Ivi, p. 328. 

  6. Ivi, p. 360. 

  7. Cfr. A. Sebastiani, Ride bene chi ride ultimo. Forme e retorica del comico in Valerio evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  8. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 202, p.104. 

  9. K. Marx – F. Engels, Opere, Vol. XLIV, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 202. 

  10. V. Evangelisti, Black flag, cit. p. 2017. 

  11. V. Evangelisti, Antracite, cit. p. 361. 

  12. Ivi, p. 363. 

  13. Ibidem. 

  14. Luca Cangianti, L’operaismo narrativo di Valerio Evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, cit., p. 15. 

  15. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 245. 

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento