Con il consenso dell’autore e della casa editrice pubblichiamo un estratto dell’introduzione al libro di Andrea Ghelfi, La condizione ecologica (Edifir, Firenze 2022) uscito nella collana 2050 abitare nelle rovine della metropoli. Il libro ruota attorno all’emergere di un nuovo materialismo ecologico che emerge dalle pratiche dei movimenti. Movimenti contadini, pratiche agroecologiche e beni comuni emergenti costituiscono assi privilegiati per esplorare possibilità e limiti della riparazione ecologica.
Siamo già al di là del possibile.
Quando facciamo i conti con il cambiamento climatico e con i mille piani implicati in questo processo fatichiamo a guardare con ragione al nostro futuro, e spesso anche al nostro presente. Non passa giorno nel quale non siamo catapultati, con il corpo o con la mente, attraverso piccole esperienze quotidiane, la lettura di un report scientifico o del giornale, dentro le crisi ecologiche. Quest’anno ho dato l’acqua a mano, con la canna di gomma, alla nostra piccola vigna a fine marzo. Di solito lo faccio a partire da luglio. Siamo ai primi di agosto e a casa nostra le olive sugli alberi si stanno seccando, non hanno ricevuto sufficiente pioggia né in primavera né all’inizio dell’estate. L’elenco potrebbe continuare a lungo, le scale moltiplicarsi, il racconto prendere una piega tanto realistica quanto disperata. Eppure, non è di questo che parla questo libro. O meglio, il realismo della condizione ecologica è un punto di partenza per questo scritto. Qualcosa che rimane sullo sfondo e al contempo popola le pagine che lo compongono. La scomoda verità della condizione ecologica è parte del nostro tempo, le tracce della crisi ecologica globale sono ovunque, anche nel pensiero. E domandano nuove chiavi di lettura. Questo testo raduna alcune di queste tracce teoriche e le affianca al racconto di alcune pratiche trasformative dei movimenti.
La condizione ecologica è prima di tutto un invito a sperimentare, con le parole e con le azioni, nuovi modi di abitare un territorio. Félix Guattari, Bruno Latour, Donna Haraway, Isabelle Stengers e altre compagne di pensiero ci accompagnano, a partire dal primo capitolo, nel tentativo di tracciare una prospettiva più che umana alle tematiche dell’ecologia politica. Forme di vita contadine, pratiche agroecologiche, movimenti per la transizione ecologica e beni comuni emergenti costituiscono alcuni assi privilegiati per esplorare possibilità e limiti della riparazione ecologica a partire da una prospettiva situata, quale il lavoro della terra. Connettere e intrecciare l’emersione di un nuovo materialismo ecologico con i movimenti della materia delle transizioni ecologiche, questo mi pare, il primo tentativo di questo libro.
Pensiero ecologico e pratiche ecologiste: dentro a questo intreccio si compongono concetti che ci aiutano a cogliere i tratti distintivi di alcuni movimenti contemporanei, qualificati come movimenti più che sociali. I movimenti più che sociali si compongono attorno a delle pratiche: pratiche incarnate, materiali, spesso impercettibili, che complicano il moderno binarismo dell’umano e del non umano, e che mirano a riconfigurare la vita sociale e politica attraverso la trasformazione delle relazioni materiali ordinarie. I movimenti più che sociali, analizzati nel secondo capitolo, ci offrono la possibilità di pensare un rapporto tra movimenti della materia e materialismo, di esplorare il rapporto tra pratiche quotidiane e forme di vita, tra sperimentazione tecnoscientifica e nuove immaginazioni infrastrutturali. Dai movimenti per la sovranità alimentare alle pratiche di solidarietà per il diritto alla salute, dalla permacultura alle fabbriche occupate, dai movimenti femministi e queer alle resistenze indigene, dalle campagne per la giustizia ambientale ai movimenti mutualistici, un punto centrale dell’ecologia politica contemporanea sta, a mio giudizio, nella sperimentazione di altri modi di relazionarsi tra esseri umani, animali e piante, oggetti e tecnologie. Se il materialismo storico si è caratterizzato per una straordinaria capacità di tenere insieme materialismo e attivismo attorno al nodo della lotta di classe, il materialismo che emerge dalle pratiche dei movimenti più che sociali riprende e riarticola questa relazione tra materialismo e attivismo. Solo che invece di collocare la politica all’interno della sfera sociale della produzione, la politica viene collocata nel cosmo, nella foresta, nel laboratorio scientifico, nella clinica, nella comune, nel campo e nella fattoria, nell’hackerspace e nei molti altri luoghi in cui stiamo imparando a decolonizzare il nostro rapporto con la materialità della vita.
La condizione ecologica si fa visibile quando la soglia di sostenibilità materiale della modernizzazione è stata superata. Nella condizione ecologica la pratica trasformativa è innanzitutto pratica riparativa. La riparazione socio-ecologica nasce dalla riscoperta della fitta rete di interdipendenze che ci permettono di vivere, dalla fine di ogni divisione essenzialista tra natura e cultura, dalla capacità di creare infrastrutture in grado di sostenere, rifare e difendere forme di collettività alternative. Non esiste riparazione senza l’invenzione di un ethos ecologista, senza sperimentare altri modi di abitare un territorio, di rapportarci al cosmos.
La convivenza commensale come forma di relazionalità ecologica è esplorata nel terzo capitolo, dedicato alla permacultura. La permacultura è una tecnica di progettazione territoriale che ci insegna che l’agency ecologica è sempre un’agency collettiva e multispecie: l’impresa collettiva di creare mondi agendo con e non contro le interdipendenze materiali ed ecologiche che abitano un territorio. In permacultura la giustizia riparativa coinvolge mondi più che umani: non passa attraverso un buon Anthropos, ma attraverso il suo decentramento nelle multiformi interdipendenze di comunità più-che-umane. La permacultura è qui esplorata come un’ontologia della convivenza. Per favorire la coesistenza, gli attori devono ridurre la loro presenza, le loro soggettività e lasciare spazio all’esistenza di altri attori. Mentre la logica dello scambio presuppone un sé forte che negozia le transazioni, la commensalità presuppone un ritiro attento del sé: deindividualizzazione, interdipendenza, contingenza e coinvolgimento.
Permacultura, agricoltura organica e rigenerativa, biodinamico, biologico. Il ritorno alla terra porta con sé l’adozione e la sperimentazione di tecniche agroecologiche. La rinascita contadina, esplorata nel quarto capitolo, è una transizione verso una forma di vita in cui autosussistenza e cura ecologica sono inestricabilmente intrecciate, a partire dalla reinvenzione di pratiche quotidiane di rigenerazione dei mezzi di sussistenza e di riparazione socio-ecologica. Il desiderio di un rapporto incarnato, diretto, materiale con la terra caratterizza questa rinascita contadina. Più che un lavoro, la parola «contadino» evoca qui una forma di vita alternativa, una secessione dalla monocultura del produttivismo economico, materiale e culturale. A partire da queste pratiche agroecologiche, le comunità del cibo contadino reinventano la cooperazione tra campagna e città, creando infrastrutture autonome capaci di riarticolare la rete alimentare dentro e fuori la fattoria. Attraverso l’organizzazione di mercati contadini autogestiti, la sperimentazione di monete complementari, la creazione di empori comunitari auto-organizzati, lo sviluppo di progetti di agricoltura collettiva e l’adozione di pratiche partecipative di garanzia e decisione collettiva, nuove alleanze trasversali tra produttori e consumatori danno vita a comunità alimentari e collettivi agroecologici. Le comunità del cibo raggiungono la loro autonomia politica, la loro capacità di agire e riparare economie, ecologie e relazioni sociali, attraverso la realizzazione di infrastrutture alternative che riarticolano il rapporto tra spazi urbani e spazi rurali. Le infrastrutture delle comunità del cibo rendono l’agroecologia durevole, generano incontri generosi, dislocano la politica della transizione ecologica dentro a una rivoluzione elementare, come quella del cibo.
La transizione ecologica è un appello all’azione trasformativa diretta, alla ricombinazione materiale, alla giustizia pratica, ordinaria e riparativa. Al contempo, e questa è la tesi che prende campo nel quinto capitolo, le pratiche trasformative dei movimenti rischiano di essere messe all’angolo dentro a contesti economici e istituzionali loro avversi. Tanto il nazionalismo regressivo quanto il mondialismo neoliberale rifiutano di interrogare il rapporto tra crescita economica e limite ecologico. Se il nazionalismo regressivo sostiene che viviamo nel migliore dei mondi possibili, o di fatto l’unico possibile, quello dei combustibili fossili, il mondialismo verde non riesce a leggere il problema ambientale se non attraverso un approccio universalista alla crescita economica verde e una concezione determinista dello sviluppo tecnologico. In conflitto con questi due campi politici, il tema della giustizia climatica sta condensando intorno alla questione del cambiamento climatico una moltitudine di rivendicazioni ecologiste e sociali che collegano i nuovi movimenti per il clima con precedenti ondate di lotte per la giustizia ambientale e riparativa, con le resistenze indigene, con l’ecologismo della vita quotidiana e con le innovazioni diffuse delle tecnoscienze comunitarie. Questo nuovo cosmopolitismo ecologico sarà in grado di attivare, su diverse scale, una nuova immaginazione istituzionale? Questa è la domanda che chiude il libro, e nei miei auspici, apre a molte discussioni collettive sul potere costituente della democrazia nella condizione ecologica.
Immagine di copertina: Steve Rhodes, N30: climate justice blockade of Bank of America in San Francisco (da Flickr.com, licenza Creative Commons).