di Serena Penni
Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita la mia collezione di animali di cristallo. Mi guardo intorno e non credo a questo vuoto. Persino tu, ormai, non mi sembri altro che un fantasma. Mi chiedo dove abbiamo sbagliato. Le mie mani sono le stesse di quelle che da bambina costruivano insieme a te castelli di sabbia sempre troppo alti per stare in piedi, e che finivano per crollare prima di essere conclusi.
Ora tu vuoi farmi un sacco di domande. Te le leggo tutte in quei tuoi occhi azzurri, confusi e atterriti. Vorresti chiedermi cosa sapevo di Stefano. Vorresti chiedermi se mi ricordo cosa è successo veramente quella notte. Vorresti chiedermi quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Sono le stesse domande che mi hanno fatto durante gli interrogatori. Me le hanno fatte più e più volte, di continuo, dopo molte ore che non dormivo e alla mattina presto – immaginando forse che avessi potuto riposare. Le mie risposte non sono cambiate. Ho ripetuto come un pappagallo la verità che avevo imparato a raccontarmi, ma a te darò un’altra versione. Perché a te non ha senso mentire. Sono settimane che scambio il giorno con la notte, che mangio senza regole, che mi muovo come una bambola caricata per il mio appartamento. Ho abbandonato i sonniferi. Non ho mai sonno, passo le notti a guardare le vette che ci circondano e le poche macchine che percorrono i tornanti. Ogni tanto, però, mi assale una stanchezza devastante, un torpore improvviso che mi taglia le gambe e mi fa accasciare in un angolo, sul divano, sul letto oppure anche per terra, sul tappeto o sul pavimento di legno. Stasera sei venuta a trovarmi senza preavviso. Non sono stata io a invitarti, e per essere qui non hai disdetto nessun appuntamento. Appena hai varcato la porta di casa, ti sei guardata intorno con aria schifata e sei andata a spalancare la finestra. Ma non credo che tu ti sia illusa che il puzzo se ne sarebbe andato. Questo è il mio odore, è l’odore tuo, di Stefano, del bambino; è l’odore della nostra storia, imprigionata per sempre in questo appartamento, attaccata alle pareti, ai mobili, alla tappezzeria. Perché sei venuta? Per chi hai indossato quel tailleur bordeaux? Sei mia sorella, e allora? Volevi vedere come stavo? E ora che lo hai visto, cambia qualcosa? Fanno forse la differenza le mie unghie rovinate, i capelli in disordine, gli occhi gonfi? Inizierò dall’ultima delle domande che, per paura della risposta, non mi hai fatto. Quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Potrei dirti che l’ho scoperto un giorno in cui eravamo ai giardini pubblici e lui si è messo a urlare come un ossesso, ma non sarebbe la verità. Certo, quel pomeriggio d’autunno, in un parco con l’altalena gialla e lo scivolo di metallo che rifletteva il grigio del cielo, non lo scorderò mai. In un attimo mi si è spezzato il cuore. Se mi concentro, sento ancora la musica jazz, malinconica e amara, che proveniva dal locale di dubbio gusto, con le poltroncine foderate di velluto rosso già mezzo consumate, di fronte all’entrata principale del giardino. Ma in realtà, ho sempre saputo che il bambino nascondeva un segreto. Da quando l’ho attaccato al seno la prima volta e mi ha fatto troppo male per essere così piccolo, così indifeso. Il dolore che ho sentito me l’ha reso estraneo, ma subito dopo ho provato per lui compassione perché appunto aveva sul piccolo viso, sui minuscoli occhi, nelle microscopiche orecchie, il marchio di uno sbaglio. Il suo destino era segnato perché persino io, sua madre, non riuscivo ad amarlo.
Vorresti chiedermi quando mi sono resa conto che anche in Stefano qualcosa si era rotto. È successo un po’ alla volta, e tutto è culminato in quella notte maledetta. Mi ricordo che un pomeriggio stavo parlando al telefono quando mi è caduto l’occhio sulle bottiglie di superalcolici che tengo in soggiorno. Quelle che ti ho appena offerto, esatto. Mi sono accorta che erano tutte vuote. La mia mente ha registrato il dato senza darci importanza. Me ne sono ricordata solo alcune settimane dopo, quando ho visto Stefano piangere la mattina presto seduto in cucina, davanti a un caffè che continuava a portarsi alle labbra ma che non riusciva a bere. Singhiozzava in silenzio e con la mano sinistra si teneva la fronte. Lo ho osservato per qualche istante poi sono tornata a letto.
Stefano è diventato di giorno in giorno più stanco, più scostante, più assente. Una sera sono tornata tardi dal lavoro perché una paziente aveva avuto una reazione allergica al botox; lui, appena ho varcato la porta di casa, mi ha detto: “dove cazzo eri finita? Tuo figlio ha fame”. Non sono state tanto le sue parole a stupirmi, ma il suono stesso della sua voce, che era del tutto diverso da quello che conoscevo. Era acuto, quasi femminile. Gli ho spiegato cosa era capitato. Lui è rimasto in silenzio per un po’, poi ha iniziato con la storia che avrei dovuto lasciare l’ambulatorio, perché così non si poteva andare avanti. Ma io amavo troppo il mio lavoro per poterci rinunciare. Eppure, ora non mi sembra che una delle tante cose che ho perso, e neppure la più importante.
Nel giro di qualche mese, la situazione con Stefano è precipitata, ma non voglio annoiarti. Arriviamo a quella notte. Tu eri venuta a trovarmi per parlarmi di una delle tue stupidaggini, che adesso non ricordo più. Stefano è tornato a casa tardi. Aveva bevuto molto vino, si sentiva dal suo alito. Io gli sono andata incontro e lui mi ha spinto dicendomi: “Spostati troia”. Il bambino, allora ha cominciato a ridere e a ripetere troia senza sapere cosa stava dicendo. Stefano è andato a chiudersi nel suo studio, tu sei andata sul balcone a fumare: non volevi immischiarti in disagi che non ti appartenevano. Sei sempre stata così, ed è proprio per questo, solo per farti un dispetto, che stasera ti racconto finalmente la verità.
Ero nella mia cucina moderna e perfettamente ordinata, con un figlio che non riconoscevo, che rideva e che mi chiamava troia perché lo aveva sentito dal padre. Per lui tutto ciò che il padre diceva o faceva era meraviglioso. A un tratto, io e il bambino abbiamo alzato lo sguardo e sono stata certa che tutti e due nello stesso momento abbiamo visto le montagne fissarci con occhi enormi, gialli e cattivi. Abbiamo anche sentito la loro voce – profonda, baritonale – che si faceva strada tra le rocce. Era un richiamo verso la morte, verso la fine di tutte le cose. Il bambino si è girato nella mia direzione. Continuava a ridere e a ripetere troia ma il suo sguardo ora era terrorizzato. Una forza oscura ci aveva trascinato altrove. Dopo pochi istanti, eravamo già in un inferno freddo e buio. Ho supplicato ancora una volta quel mio figlio sbagliato di stare zitto. Non mi ha ascoltato. I suoi occhi, la sua voce si confondevano con quelli della montagna. Non so perché si sia seduto sulla finestra, ma posso dirti che sono stata io a farlo precipitare nel vuoto. Quando ha raggiunto il terreno, alle mie orecchie è arrivato il rumore di un vaso che si rompe in mille pezzi. Ho pensato che fosse anche lui di vetro come i miei soprammobili. Poi ho sentito il mio urlo. Tu, senza lasciare la sigaretta che ancora tenevi in mano, hai chiamato i soccorsi. Tutti hanno creduto che si fosse trattato di un incidente; sono riuscita a mentire ai giudici perché prima di tutto ho mentito a me stessa. Ci hanno creduto tutti tranne Stefano, che al funerale stava in disparte e che, da quella notte, non mi ha più parlato. Quando è sparito, non ero stupita né preoccupata, ma solo arrabbiata. Se ne è andato senza dirmi addio, senza nemmeno salutarmi. È stata una vigliaccata, dopo tanti anni passati insieme, dopo tante parole buttate al vento. La vigilia di Natale ho ricevuto una telefonata anonima che mi ha rivelato che era entrato in un brutto giro di scommesse e di gioco d’azzardo. Ma anche questo in fondo non mi ha sorpreso.
Ora sono sola. Non ho più un figlio, né un marito, né amici, né un lavoro. A farmi compagnia ci sono abiti maschili che nessuno più indossa, giocattoli che nessuno più guarda. Ci sei tu, con i tuoi ritagli di tempo, le tue sigarette e i tuoi abiti troppo eleganti per il paesino sperduto in cui viviamo. Ci sono le montagne che, chissà, forse un giorno mi parleranno di nuovo. Se ripenso alla mia vita, capisco che sono stata felice, a tratti, forse, ma in fondo non ho mai creduto del tutto alla felicità.