di Pino Cosentino, Attac Genova
La pandemia ha dimostrato che le funzioni dello Stato non debbono essere privatizzate, che vi sono produzioni che debbono restare in Italia, che i processi reali sono più importanti della loro rappresentazione finanziaria. L’irresponsabilità del ceto politico non si corregge con le politiche neoliberali, ma con la partecipazione regolamentata del popolo ai processi decisionali pubblici.
Davanti al progressivo aggravarsi dell’epidemia il governo italiano,, passo dopo passo si è adeguato, seppure il più delle volte in ritardo, alle sollecitazioni provenienti dai territori, adottando i provvedimenti necessari per salvaguardare le vite delle persone e tutelare i più deboli[1]. Anche questa battaglia, come tutte quelle che mettono in gioco valori fondamentali, può essere combattuta solo con la partecipazione attiva di una parte consistente della popolazione. Il peso e il rischio maggiore ricadono sulle spalle di un numero ristretto di persone, gli operatori sanitari di ogni livello, dai medici fino ai portantini. E tuttavia senza un ampio consenso, apprezzamento e comportamenti conseguenti della popolazione, in primo luogo di tutti coloro che hanno continuato a lavorare, i generosi sforzi di chi si trova in prima linea non basterebbero.
Una grave mutilazione ha colpito la società, per le vite spezzate delle vittime del virus, ma anche con la sospensione della vita normale, della socialità e della democrazia, e con pesanti danni inferti a un’economia già traballante, sotto i colpi congiunti della crisi ambientale, sociale, finanziaria e geopolitica che sta travagliando tutto l’Occidente.
L’ Occidente si trova in un ritardo culturale impressionante. L’ideologia neoliberale ha spinto il mondo (ma il focolaio dell’infezione si trova nel Nord America, nella UE, in Giappone e Oceania) su un binario morto, dove deperisce l’economia e muore la democrazia.
Lo sciagurato motto thatcheriano TINA (There is No Alternative: non ci sono alternative) era già vecchio e stra-superato quando fu enunciato. Proprio mentre la rivoluzione digitale, già negli anni Ottanta de XX secolo, stava ridando elasticità e ampiezza di scelte disponibili ai processi produttivi reali, sganciandoli dalla rigidità della fabbrica fordista, si affermava un pensiero apparentemente economico, in realtà pienamente politico, che sacralizzando un’idea astratta di mercato concorrenziale, mai esistito nella realtà, assoggettava l’economia reale ai rentier. L’imprenditore si presenta ora sotto la veste dell’azionista, il quale indirizza il suo investimento calcolando guadagni e rischi sulla base di analisi dette “tecniche”, ma che in realtà utilizzano metodi predittivi che potrebbero essere usati per la roulette. Il profitto, che giunge all’azionista come dividendo,, si presenta dunque sotto forma di rendita, come già aveva scritto un certo Karl Marx nel capitolo XXVII del III libro, uscito postumo, della sua grande opera, Il Capitale.
Von Hayek, il padre del neoliberismo (ma trattandosi di una dottrina essenzialmente politica sarebbe più corretto “neoliberalismo”), intendeva soprattutto fondare saldamente la libertà individuale. La sua era un’utopia (o una distopia, secondo i punti di vista), funzionale alla lotta contro le idee collettiviste basate sulla pianificazione.
L’idea neoliberale privilegia il momento dello scambio e della circolazione monetaria rispetto ai processi lavorativi. Ciò rispecchia la finanziarizzazione avvenuta nel frattempo nelle società opulente dell’Occidente, dove si sono accumulate enormi ricchezze, che, come tali, sono concentrazioni di lavoro passato, morto. Chi voglia salire nella ricchezza partendo dall’estrema miseria ha solo due risorse: o materie prime (petrolio, metalli, gas, foreste, acqua…), o lavoro (vivo).
Le più grandi borse del mondo, in termini di capitalizzazione delle società quotate, sono New York, Londra, Tokyo. I più grandi porti commerciali del mondo, per quantità di merci lavorate, sono Shangai (Cina), Singapore (Repubblica di Singapore), Shenzhen (Cina). Dei primi 10 porti commerciali del mondo 7 sono cinesi. Sono dati molto eloquenti. La Cina non segue la ricetta della signora Thatcher, eppure ha conosciuto uno sviluppo economico prodigioso. Anche Singapore ha un’economia di mercato, ma non pensa affatto di lasciare al mercato la gestione dell’economia e della società.
Appare evidente che esistono molti tipi di capitalismo. Di più: che non è l’economa, intesa come una tecnica oggettiva e invariante, a determinare la società, ma sono la società civile e il sistema politico, con l’insieme delle abitudini, delle norme morali, degli schemi comportamentali profondamente interiorizzati che influenzano pesantemente anche l’organizzazione economica di ogni paese e addirittura di ogni territorio all’interno dei singoli paesi. Possono dunque esistere società con sistemi produttivi liberati dalla logica del profitto, ma efficienti quanto e più di quelli basati sulla promessa dell’arricchimento o almeno di un sufficiente benessere.
Il neoliberalismo sta uccidendo la democrazia, perché il predominio della ricchezza finanziaria, sulla produzione e il lavoro, come tutta la storia umana insegna, è incompatibile con la democrazia. Esso ha un retroterra mortifero: l’idea dell’invincibile, insopprimibile disordine morale e caratteriale della grande maggioranza (ma in un certo senso di tutti) gli esseri umani. C’è bisogno di una protesi esterna che li obblighi, come l’ingessatura di un arto fratturato, o l’esercito che presidia parchi e giardini pubblici, ad un comportamento razionale, ordinato a uno scopo. Il mercato concorrenziale fornisce motivazione (il successo economico e la prosperità) e un ambiente che risponde a criteri oggettivi, accessibili all’analisi razionale.
Il mercato (non come realtà, ma come sistema di valori e di comportamenti compatibili con il predominio della finanza speculativa) rende inutile la politica, e quindi la stessa democrazia.
Il neoliberalismo è un’ideologia profondamente antiumanistica, regressiva e riduzionistica, al di là delle probabili buone intenzioni di alcuni suoi teorici. E’ peggio del corona virus.
Oggi polizia e forze armate nelle strade sono un presidio della democrazia in quanto attuano un ordine del governo legittimo, democraticamente eletto, a sua volta interprete della volontà del popolo italiano di vincere questa battaglia. Domani, con il procedere dell’opera corrosiva del neoliberalismo nei confronti della democrazia, potrebbe avere un altro significato.
In questi giorni è stato diffuso il report 2020 pubblicato da V-Dem Istitute, prodotto dall’Università di Goteborg (Svezia). Esso si ispira alla pluralità delle forme che la vita democratica può assumere – V-Dem significa Variety of Democracy. Ma quest’anno per la prima volta risuonano parole di pesante pessimismo: “[i dati] mostrano un declino globale delle istituzioni liberaldemocratiche. Per la prima volta dal 2001 ci sono più autocrazie che democrazie nel mondo…” E cita come esempi di regressione dalla democrazia all’autocrazia Ungheria, India e Stati Uniti. Però ci sono nel quadro anche le luci: c’è “una crescente domanda popolare di democrazia” e cita Armenia, Tunisia e Sudan. Dovunque i progressi sono opera della pressione popolare.
Oggi nella situazione di emergenza planetaria assistiamo al prepotente ritorno sulla scena degli Stati, come supremi regolatori della vita sociale e delle attività economiche, dotati del potere necessario e sufficiente per vincere ogni resistenza. Si apre una fase nuova, in cui si deciderà se il potere concentrato negli Stati sarà lo strumento delle oligarchie per riaffermare e consolidare le gerarchie esistenti, oppure se l’occasione sarà colta dai popoli per progredire verso forme di democrazia compiuta e di giustizia sociale e ambientale.
E’ motivo di speranza il fatto evidente che il desiderio degli esseri umani di partecipare si dimostri insopprimibile. Oggi si partecipa standosene in casa, domani questo stesso sentimento può spingere a un esito opposto, e vedremo i cittadini in strada e le forze dell’ordine nelle caserme, per battere un nemico peggiore del virus.
[1]All’inizio il governo ha anticipato l’opinione pubblica, con provvedimenti che sembrarono eccessivi, sproporzionati rispetto alla minaccia. Con il progredire dell’epidemia (che curiosamente sembra confermare la netta frattura tra le due Italie) le parti hanno finito per invertirsi, soprattutto per la spinta delle regioni più colpite e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.