Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), approvato in tutta fretta da un Parlamento silente e i successivi decreti in via di approvazione – decreto ristori bis e decreto semplificazione e governance – mantengono l’impianto saldamente neoliberista dominante nell’attuale sistema politico e economico nazionale (scarica il dossier completo).
La scelta fortemente perseguita dai gruppi di potere dominanti, trasversali al sistema dei partiti, di mettere al governo del Paese un paladino della dottrina neoliberista come Mario Draghi per amministrare i fondi del Recovery fund risponde proprio a questo obiettivo: stilare un Piano che consenta al sistema di uscire dalla crisi pandemica applicando rigidamente ai settori lavorativi e alle classi medio-basse, precarizzate e impoverite, una ricetta lacrime e sangue; un Piano che consolidi con opportuni strumenti normativi e attraverso finanziamenti mirati gli ampi margini di profitto che una parte dei settori produttivi e commerciali hanno continuato a conseguire durante il lockdown e una ripartenza su basi di comando più solide anche per quei settori che, invece, la crisi pandemica l’hanno subita.
Il senso dell’ultimo capitolo del Pnrr, dedicato alla valutazione dell’impatto macroeconomico delle misure previste, è esplicito: le riforme strutturali previste dovranno attrezzare lo Stato per una più efficente e funzionale capacità di favorire la competitività dei mercati, solo e vero motore in grado di far uscire il Paese dalla crisi. Il rilancio della competitività del sistema è il grande obiettivo del Pnrr. A giustificazione di tale assunto gli estensori del Piano si affidano all’indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Pmr), sviluppato dall’Ocse per misurare il rapporto che intercorre tra livelli di regolamentazione dei mercati e performance dell’economia. Secondo questa lettura a elevati livelli di regolamentazione dei mercati e di presenza dello Stato in economia, corrisponde una bassa competitività del sistema e, quindi, debolezza di crescita, ricchezza e occupazione. In fondo la valutazione che già l’Ocse faceva per l’Italia nel 2018, ritenendo la bassa competitività del nostro sistema economico dovuta alla eccessiva presenza dello Stato in economia. Da qui il rilancio nel Piano delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni e della eliminazione di vincoli e tutele come strumenti indispensabili per dare maggiore competitività al sistema, attraverso, aggiungiamo noi perchè sottinteso e evidenziato dai primi decreti applicativi, da un più pervasivo comando sulla forza-lavoro e sulla società che amplierà, più che ridurle, disuguaglianze, precarizzazioni e povertà.
Non importa che questa regola aurea della dottrina neoliberista basata sull’aumento della ricchezza per i già ricchi come possibilità di miglioramento di tutta la società si sia rivelata fallace e che i suoi effetti siano sotto gli occhi di tutti, anzi proprio questi effetti vanno stabilizzati e ampliati per consentire al sistema di riprendere competitività e, in altre parole, per estrarre profitto per pochi dallo sfruttamento di molti.
L’applicazione del Piano ha bisogno di un clima di normalizzazione che in parte è già stato avviato con la creazione di quella sorta di grosse koalition all’italiana che è l’attuale Governo piegato ai dettati del Presidente del Consiglio e attraverso un consenso alimentato costantemente dalla narrazione delle capacità demiurgiche del premier da parte dei media mainstream nazionali. Inoltre la normalizzazione si poggia anche su una intensificazione del controllo sociale di cui si cominciano a vedere gli effetti nei confronti dei dissensi o dei conflitti locali come nel caso della ripresa di inchieste contro attivisti delle Ong che operano nel Mediterraneo per soccorrere i profughi, di sentenze avverse alle ragioni di associazioni e comitati ambientalisti, di cariche, arresti e fogli di via per sindacalisti e lavoratori in lotta in singole vertenze (il caso Fedex-TNT su tutte).
Nel Pnrr la parte del leone la fanno le imprese che raccolgono la torta più ricca dei fondi a disposizione dopo aver avuto il 74% del flusso di denaro pubblico elargito nell’anno pandemico appena finito. Agli interessi e al punto di vista della Confindustria si allinea anche il Decreto sostegni bis con lo sblocco dei licenziamenti, accompagnato da ulteriori facilitazioni come la possibilità, di fatto, di operare esuberi attraverso la cassa integrazione ordinaria senza oneri per le imprese. Nonostante le stime dell’ISTAT sulla competitività dei settori produttivi segnali nel resoconto di gennaio 2021 una situazione di aumento del 2,5% con performance importanti sul mercato estero e che i dati ISTAT e della Banca d’Italia dicano che durante il blocco dei licenziamenti si sono avuti centinaia di esuberi e una vera e propria moria di posti di lavoro a tempo determinato, Confindustria ha sferrato un attacco molto duro in questi giorni a dimostrazione della volontà di non specare l’occasione fornitagli dalla crisi pandemica per imporre un salto in avanti del comando sulla forza-lavoro, liberando l’organizzazione del lavoro da ulteriori vincoli, già fortemente allentati dall’applicazione del Job Act. I prossimi mesi vedranno un aumento dei licenziamenti e l’approfondirsi di quel processo di precarizzazione del mercato del lavoro in atto da tempo. Aumenteranno povertà, sia in termini assoluti (lo segnala già l’ISTAT) sia in termini relativi, con molte famiglie il cui reddito da lavoro si avvicinerà sempre più alla soglia di povertà; si allargherà la base occupazione precarizzata, dequalificata e in alcuni settori anche soggetta a forme di lavoro semi-servile (pensiamo al settore della raccolta agricola) a fianco di vere e proprie sacche di aristocrazia operaia, altamente qualificata e sufficientemente remunerata, amentando in tal mondo la tendenza a una forte differenziazione salariale e stipendiale in corso da tempo.
Dove è finita la discussione sul salario minimo e sul cuneo fiscale? Accantonate assieme alla riforma del fisco. Invece qualsiasi timido tentativo di apportare qualche tassazione ai redditi più ricchi viene immediatamente sommersa da una tempesta di critiche e di accuse di voler aumentare il gettito fiscale per gli italiani.
Nel Pnrr non c’è nulla di significativo a favore del welfare, scarso il finanziamento alla sanità, insufficiente per potenziare le risorse umane e le strutture ospedaliere, assolutamente insufficiente per creare una vera medicina di territorio e, soprattutto, per garantire il diritto alla salute uguale per tutti dopo aver visto come il processo di privatizzazione della sanità, la sua subordinazione alla logica produttivistica e lo spettezzamento del sistema nazionale in tanti sistemi regionali abbiano giocato un ruolo importante in negativo nella crisi pandemica.
La transizione digitale così come quella ecologica rimangono nel Piano puri buoni propositi che trovano nelle applicazioni dei decreti un segno diametralmente opposto. In particolare la transizione ecologica ha visto sinora il Ministro competente rilanciare l’idrogeno blu basato sulle fonti fossili al fianco del nucleare e delle autorizzazioni alle trivellazioni in Adriatico. A farla da padroni sono i grandi gruppi energetici che puntano ancora sulle fonti fossili come ENI, ENEL ecc. per i quali la transizione ecologica sarà per lungo tempo affidata ancora all’estrazione di questo tipo di risorse. Il Decreto semplificazioni liberalizza l’uso del CSS, introduce furbescamente gli impianti di incenerimento tra quelli strategici del Piano rilanciando gli interessi delle lobbie dell’incenerimento, dei cementieri e di tutto il mercato del rifiuto mentre, dall’altro, con la creazione della cabina unica di regia in capo al Primo Ministro Draghi e la liberalizzazione di molti vincoli e tutele, non ultima la revisione del Codice degli appalti, si pongono le premesse per un saccheggio del territorio in maniera più sistematica di come fece Berlusconi con la Legge Obiettivo.
L’accesso ai finanziamenti del Recovery fund per il complesso militare industriale, la velocizzazione degli iter autorizzativi per le opere inserite nel Pnrr, un piano di opere che non contempla la messa in sicurezza del nostro territorio, bonifiche e disinquinamenti fanno da corrollario a un Piano pericolo e pessimo per chi pensava che dopo la pandemia le cose sarebbero cambiate in meglio.
Cambieranno in meglio solo per i soliti noti se non comincerà ad emergere nei territori una opposizione critica alla sua applicazione concreta.
Questa sintesi evidenzia per punti essenziali quanto espresso più sistematicamente nel documento allegato di analisi critica del Pnrr e dei suoi primi decreti applicativi a cui si rimanda per una lettura più approfondita dei provvedimenti del Governo.