Per gli abitanti di Marghera e della terraferma veneziana, il 28 novembre è una data che evoca i peggiori incubi. Quella sera di vent’anni fa, infatti, le sirene dell’allarme chimico ci fecero saltare dalle sedie su cui eravamo seduti e, ancora increduli, correre a chiudere le finestre e a mettere stracci bagnati ovunque potesse entrare un qualsiasi spiffero d’aria. Le notizie giunsero poco a poco aumentando ogni volta di gravità e solo qualche ora dopo ci rendemmo pienamente conto del gravissimo pericolo scampato per un soffio. Un incendio si era sviluppato nell’impianto TDI che produceva il fosgene, un pericolosissimo gas tossico. Un incendio che arrivò a pochi metri dal serbatoio del gas stesso rischiando di provocare una catastrofe delle dimensioni di Bhopal.
Sono quindi passati vent’anni da quel gravissimo incidente, l’impianto è stato chiuso e la Dow Chemical, il colosso chimico padrone dell’impianto, ha lasciato il polo industriale di Porto Marghera delocalizzando la sua produzione. Ma il problema ambientale aleggia ancora nella terraferma veneziana, dalle bonifiche e dalla riconversione mai partite, ai preoccupanti progetti di “sviluppo” in continuità con il passato che amministrazione comunale e imprese del settore rifiuti e multiservizi hanno per l’area, come Ecoprogetto Veritas per la costruzione di un nuovo inceneritore. Con Roberto Trevisan, storico attivista cittadino dei movimenti ambientalisti e portavoce dell’Assemblea Permanente Contro il Rischio Chimico, ripercorriamo in una lunga e intensa intervista questi ultimi vent’anni di lotte ambientali.
Sono passati vent’anni dal grave incidente all’impianto del fosgene all’interno del Petrolchimico di Porto Marghera. Cosa successe quel giorno?
«Verso le 21 del 28 novembre 2002 scoppiò un incendio nell’impianto del TDI, cuore del ciclo del cloro utilizzato per produrre PVC. L’impianto era di proprietà della Dow Chemical, conosciuta per il ruolo avuto nel disastro di Bophal costato la morte di 22000 persone; ruolo e responsabilità che la Dow non volle riconoscere, opponendosi a risarcire e a bonificare il territorio. TDI che era al primo posto nella lista degli impianti ad alto rischio ambientale per la presenza al suo interno di un serbatoio contenente il famigerato fosgene, gas mortale per inalazione di piccolissime parti per milione, utilizzato nella prima guerra mondiale per gasare le trincee nemiche. La fuoriuscita del fosgene da quel serbatoio avrebbe comportato la morte in tempi brevissimi di migliaia di persone in un arco di 5 km dall’impianto. In questa situazione estrema si attivarono i protocolli di allerta alla popolazione. Mestre e Marghera vissero per un paio d’ore in uno scenario da incubo: ospedali tutti in codice rosso, treni e bus bloccati, avvisi tramite media e pattuglie quartiere per quartiere che invitavano a barricarsi in casa. Dove non arrivarono pompieri e squadre di pronto intervento, impotenti di fronte a un evento simile, arrivò la fortuna. Il primo incendio, nel suo propagarsi attivò un’esplosione che con lo spostamento d’aria spense quello nel serbatoio di fosgene impedendone la distruzione e la tragedia conseguente».
Da quel grave incidente, nacque un importante percorso di lotta, l’Assemblea Permanente Contro il rischio Chimico. Come nacque l’assemblea e quale fu il suo percorso?
«Il 28 novembre segnò il punto di rottura nella falsa compatibilità tra industria chimica e territorio, costruita artificialmente dalle multinazionali della chimica con il sostegno di buona parte del sindacato, Fulc in testa. Due giorni dopo l’incendio un’assemblea autoconvocata di 1000 persone riempì il cinema di Marghera per dire “adesso basta”. L’assemblea indicò precisamente le responsabilità di un sistema produttivo sbagliato, assassino, che negli ultimi decenni aveva provocato danni ambientali enormi e un carico di vittime dentro e fuori la fabbrica, che il processo Casson contro i vertici Montedison aveva messo nero su bianco. Un sistema che sfruttava al massimo gli impianti vetusti e tagliava gli investimenti in manutenzione e sicurezza; inoltre, l’assemblea riconobbe anche la responsabilità della Regione Veneto per il sostegno politico all’industria. Quell’assemblea produsse la costituzione dell’Assemblea Permanente Contro il Rischio Chimico che per 20 anni, rifiutando deleghe e organizzandosi in prima persona tra cittadine/i, indicò attraverso lotte e vertenze spesso vincenti la possibilità di costruire un sistema produttivo e sociale al cui centro ci fossero i diritti all’ambiente, alla salute e al reddito e che trasversalmente coinvolgesse tutti i settori sociali.
La mobilitazione fin da subito ebbe come obiettivo la chiusura di tutti i cicli pericolosi di Porto Marghera così da poter avviare le bonifiche e garantire l’introduzione di attività ecocompatibili che garantissero lavori collettivamente utili, in particolare sul settore disinquinamento/bonifiche. Un cambiamento perciò radicale che aprisse una discussione su cosa, come, per chi produrre, che attraversasse sia i lavoratori sia il territorio. Un affondo contro quel sistema politico affaristico corrotto che partiva da lontano, dalle multinazionali della chimica fino agli interessi tossici della politica che il governatore Galan ha ben incarnato in quegli anni. Un ruolo centrale lo ebbe il sindacato Fulc che fin da subito tentò di sminuire il rischio chimico e di difendere gli impianti rifiutando qualsiasi confronto, agitando il ricatto tra salute e lavoro e diventando voce del padronato.
Dal 2002 al 2006 si susseguirono quasi settimanalmente assemblee, dibattiti, mobilitazioni di piazza che coinvolsero settori ampi della popolazione, medici, avvocati, lavoratori del settore. E con un ruolo centrale dei centri sociali. La lista delle iniziative sarebbe lunghissima. Tra tutte spicca l’invasione e l’occupazione dell’impianto del fosgene da parte di 500 attivisti in bicicletta che sfondarono i cordoni della polizia costringendo i vertici dell’azienda a confrontarsi con i manifestanti. Nella storia di Porto Marghera non si era mai data una protesta tale, che dalla città entrasse dentro l’area industriale. Da ricordare anche l’evento di informazione costruito in piazza Marghera con la partecipazione di Marco Paolini a cui parteciparono diecimila persone. A coronare l’opera, l’imposizione alla giunta comunale nel 2006 dell’indizione della consultazione popolare sul ciclo del cloro che portò a votare ottantamila persone, di cui l’80% schierate per la sua chiusura.Un anno dopo la Dow Chemical annunciò la chiusura dell’impianto a cui seguì a ruota la chiusura del ciclo del cloro e del famigerato CVM, il cloruro di vinile monomero».
Oggi del pericolo chimico ci siamo quasi dimenticati. Ci sono ancora produzioni pericolose? Quali sono le problematicità legate all’ex area industriale?
«L’uscita dal ciclo del cloro, cuore pulsante della chimica di base, aprì la strada alla progressiva deindustrializzazione dell’industria manifatturiera che a Porto Marghera, come nel resto della nazione, negli anni ottanta era gestita attraverso le partecipazioni statali, negli anni novanta e duemila dalle multinazionali estere, e da quel momento in poi diventò terra di nessuno. Progressivamente chiusero per delocalizzare le produzioni nell’est Europa le aziende più importanti come Montefibre, Sirma, Alumex.I livelli occupazionali scesero drasticamente: dai quaranta due mila addetti degli anni settanta, si arriva ai dieci mila attuali. La chimica si è ristretta a poche micro aziende con produzioni di nicchia. Anche la raffinazione dei derivati del petrolio non se la passa bene con la chiusura a breve della raffineria di ENI. Attualmente perciò, la struttura produttiva della petrolchimica è quasi azzerata.
Se dal punto di vista delle emissioni derivanti da queste produzioni i livelli si abbassano notevolmente, gli impatti ambientali e sanitari rimangono preoccupanti comunque per la presenza di aggregati energetici e logistici, oltre che per la mancata bonifica dei due mila ettari di area industriale. La Porto Marghera attuale è dunque completamente diversa da quella del 2002. È cambiata la composizione sociale e produttiva non solo nelle quantità ma anche nelle condizioni lavorative sempre più precarie e sottoposte a sfruttamento legate al ricorso intensivo agli appalti, e la Fincantieri ne è l’esempio più attuale. Il lavoro è sempre più dequalificato frutto dell’innovazione tecnologica che lascia a gestire un impianto a pochi tecnici specializzati mentre alle ditte di sub appalto viene lasciato il lavoro sporco, pericoloso, sottopagato.
Se volessimo fare una fotografia oggi all’area industriale si vedrebbe chiaramente lo stato di abbandono, in cui non emergono progetti di vera riconversione ed è proprio in questa terra di nessuno che gli interessi più devastanti possono trovare compimento. Quelli dell’industria del turismo fortemente sostenuta da Zaia e Brugnaro: occupare le banchine portuali con le grandi navi come falsa soluzione al problema del passaggio in bacino di San Marco, possibilmente scavando nuovi canali. Quelli della logistica, con il monopolio sempre sulle banchine, con volumi di affari da capogiro grazie allo sfruttamento dei lavoratori. Quelli del terminal intermodale di Venezia è il più grande scalo container in Italia. E infine quelli del distretto dell’energia che vede a Porto Marghera la seconda concentrazione di centrali elettriche in Italia: cinque centrali in funzione che producono il doppio del fabbisogno locale.
La vendita di energia è il vero business. La centrale Palladio attualmente a carbone come deciso dall’economia di guerra le altre a metano largamente sbandierato come un avanzamento ambientale; niente di più falso dal momento che sempre di gas climalterante parliamo: un milione e mezzo di tonnellate di CO2 emesse in un anno, alla faccia della transizione ecologica. Ma non c’è solo Enel, che è portavoce del greenwashing: abbiamo anche Eni che gira impunemente per il pianeta terra per depredarlo e asservire le popolazioni, salvo poi venire a Marghera a propagandare la sua finta economia green attraverso il progetto della bioraffineria, che di bio non ha assolutamente niente, utilizzando come materia prima olio di colza e affini ottenuti dalla deforestazione dell’Amazzonia. Se dei duemila ettari il 20% è in mano a questi interessi, il restante è abbandonato, non ci sono progetti di rigenerazione, non ci sono investimenti da parte dello Stato. I due progetti che potevano essere capofila per aprire una nuova stagione sono all’angolo. I “marginamenti” per isolare e mettere in sicurezza la laguna dagli sversamenti inquinanti sono incompiuti. Il vallone Moranzani, uno dei progetti più importanti di riqualificazione territoriale di spessore europeo, è stato difatti accantonato sottraendone le risorse per riparare ai buchi di bilancio di investimenti fatti da Galan.
Non ultimo il tentativo di trasformare Marghera nella pattumiera d’Italia attraverso la costruzione di nuovi inceneritori o strutture industriali di trattamento rifiuti industriali tossico nocivi. In questo contesto l’azione permanente delle forma di autorganizzazione sociale è stata fondamentale per denunciare e impedire che i progetti più devastanti passassero. Legare la giustizia sociale con quella climatica, costruire una vera transizione di sistema, contro il greenwashing, contro ogni sfruttamento, sono stati i punti di riferimento delle mobilitazioni degli ultimi anni che hanno impedito che, ad esempio, diventassero operativi il progetto di riapertura del vecchio inceneritore SG31 per bruciare rifiuti industriali provenienti da tutta Italia, o il progetto della società Alles per un grande hub per rifiuti speciali».
L’Assemblea Permanente ha avuto il grande merito di riportare in tutto il nostro territorio metropolitano, dalla laguna alla riviera del Brenta, il dibattito sulla salvaguardia dell’ambiente che tutt’ora è tema importante per tanti cittadini. Tra queste la battaglia contro l’inceneritore che è al centro di un conflitto tra amministrazione e Veritas da una parte e movimenti ecologisti dall’altra. Dove nasce questo ennesimo progetto impattante per un territorio già provato da anni di politiche devastanti e quali iniziative sono state prese e prenderanno i comitati per difendere il territorio?
«Il settore del trattamento e smaltimento dei rifiuti sia industriali sia urbani da tempo è uno dei business che non risentono della crisi. La torta che si dividono le maggiori 120 aziende italiane nei rifiuti è pari a 11 miliardi, senza contare quelli legati ai traffici illeciti. In questo contesto trova spiegazione la presentazione del progetto del nuovo inceneritore a Fusina presentato da Veritas, società per azioni con maggioranza pubblica, che opera nel settore multiservizi, in particolar modo quelli ambientali nel ciclo completo dei rifiuti, e da una sua consociata, la Ecoprogetto srl.
Il progetto è stato presentato nel 2019 e consiste nella ristrutturazione profonda dell’impianto attuale che passerebbe dall’attuale linea che brucia solo legna a 3 linee di incenerimento che brucerebbero enormi quantità di rifiuti, provenienti da tutta la Regione, con varie tipologie compresi fanghi e percolati da discarica contaminati dai famigerati PFAS. Bruciare i rifiuti è un atto criminale. Ormai da anni è ampiamente riconosciuto che gli impianti di termodistruzione emettono a camino quantità rilevanti di decine di sostanze pericolosissime per la salute: nox, pm10, ipa, diossine, furani, per citare quelli più conosciuti. Sono “energivori”, hanno una matrice acqua di consumo altissima, producono ceneri e scorie che devono andare in discarica.
L’opposizione a questa scelta è stata netta tanto che si è costituito un coordinamento “no inceneritore Fusina” che mette in rete varie realtà sociali dell’area metropolitana. Una lotta a 360 gradi che pone, non solo il problema sanitario e ambientale legato al progetto, ma individua gli inceneritori in genere come un anello cardine di un modello di sviluppo sbagliato che si determina attorno ad una società dei consumi, dell’usa e getta, del consumo illimitato delle risorse, della plastica, di un’economia lineare che punta a produrre la merce rifiuto che produce profitto e speculazione fino all’ultimo stadio di eliminazione.
La mobilitazione oltre a dire no indica perciò delle alternative legate all’economia circolare di recupero e valorizzazione di materia dai rifiuti, di lotta ai cambiamenti climatici. Riciclo, riuso, riduzione sono le linee guida per un ciclo dei rifiuti slegato dal business. Innumerevoli le manifestazioni di centinaia di persone, assemblee di piazza con 600 persone a Marghera, l’occupazione dell’impianto per una giornata, hanno prodotto che a distanza di 3 anni dalla sua presentazione due linee di incenerimento non sono state costruite e la prima oltre al legno bruci solo combustibile solido secondario. Per la primavera Veritas parla di iniziare la costruzione della seconda linea. Come risposta nelle settimane scorse una assemblea con centinaia di persone ha ribadito a gran voce che se mai arriveranno i camion delle ditte costruttrici a Fusina troveranno un muro di attiviste e attivisti pronti a bloccarli».
Oggi che il petrolchimico non esiste più, il pericolo per il territorio di Porto Marghera e della terraferma veneziana viene dunque dai nuovi progetti “ecosostenibili”, progetti che si spacciano per verdi ma che continuano nel solco tracciato dall’industria petrolchimica. Da una parte, ancora una volta, gli interessi e i profitti della classe imprenditoriale e politica, dall’altre le conseguenze nefaste sull’ambiente e sulla salute della popolazione. Fortunatamente, la storia disgraziata di questo territorio, le tante vittime di queste politiche criminali, hanno insegnato agli abitanti a restare vigili, a non cadere nella facile trappola del greenwashing, a resistere a queste dinamiche di morte. E a costruire, giorno dopo giorno, il sogno di una Porto Marghera libera dagli incubi del passato e del presente.