Post-Repubblica. Pt. 3 Oltre la dissoluzione, per una nuova resistenza

«La classe operaia ha conquistato, indirizzandole nuovamente a fini di progresso, tutte le bandiere che avevano un tempo guidato la grandiosa marcia della rivoluzione borghese; ha strappato alla reazione la bandiera della democrazia, ha strappato alla reazione la bandiera della libertà dei popoli.

“Tutto il potere ai CLN!” esprime la consapevolezza che la classe operaia ha della sua egemonia, esprime la volontà di attuare contro tutte le revivescenze fasciste la democrazia popolare e, quindi, progressiva. […]

La democrazia progressiva è la formulazione politica del processo sociale della rivoluzione permanente. La democrazia progressiva non è una condizione di equilibrio delle forze sociali: l’esistenza di una democrazia progressiva è condizionata al continuo progresso sociale, alla sempre più decisa partecipazione popolare al governo, alla sempre più matura egemonia della classe operaia».

Eugenio Curiel. Due tappe di storia del proletariato, primavera 1944.

Dal quadro che ho cercato di presentare nelle due scorse puntate di questo scritto emerge come la crisi che ha portato alla dissoluzione della Repubblica italiana sia strutturale.

L’antifascismo puramente negativo («non sappiamo quel che vogliamo, ma quelli là son brutti e cattivi») della “sinistra” istituzionale pare una ripresa versione farsa della politica aventiniana del 1924-1925 (quella fatta dalle opposizioni dopo l’omicidio Matteotti), che sappiamo come andò a finire.

Per di più oggi il PD anziché cercare di unire le opposizioni parlamentari continua a sottolineare la propria distanza dai 5 Stelle (e dal sentimento comune di buona parte della propria base) ribadendo continuamente la propria assoluta fedeltà alla NATO. Una scelta tanto più sciocca se si considera che il gioco “a chi è più atlantista” tra PD e Fratelli d’Italia può farsi molto pericoloso per tutti e tutte. Crosetto ha già avvisato che «Mosca soffia sul malessere sociale». La premessa per poter trattare da “nemico interno” qualunque opposizione o protesta sociale.

Non sarebbe più logico per una forza riformista come il PD avere una postura più simile a quella dei governi «progressisti» francese e tedesco, che appaiono invece (timidamente) intenzionati a cercare una qualche indipendenza dagli USA? Invece il “il principale partito d’opposizione” italiano continua a cercare il consenso dell’ambasciata USA (e nei ritagli di tempo di quella Israeliana) anziché quello del proprio elettorato.

Ma sarebbe assurdo e contraddittorio esigere una qualche riflessione strategica dai riformisti senza prima svolgerla e trasformarla in azione a livello di organizzazioni rivoluzionarie.

Siamo o non siamo avanguardia? E cosa vuol dire essere avanguardia, essere rivoluzionari e rivoluzionarie? C’è chi pensa che sia la rincorsa dell’eterno “+1”, dello spararla più grossa degli altri, dell’avere la pratica (o solitamente l’evocazione della pratica) più “ruvida” degli altri, oppure del rifugiarsi nell’ambito (o nello stile di vita) che fa sentire “più puri degli altri”.

Invece essere rivoluzionari e rivoluzionarie significa farsi carico dei problemi complessivi di un’epoca storica, farsi carico della trasformazione complessiva di una società, farsi carico dell’elaborazione di un progetto politico complessivo che sappia unire le soggettività oppresse e creare un blocco sociale progressivo con tutte le forze sociali su cui esse possono proiettare la propria egemonia e stringere alleanze.

Abbiamo visto come la crisi che ha portato alla dissoluzione della repubblica italiana sia strutturale e come sia fortemente connessa alla mancata realizzazione di una vera unità europea. Le urgenze del presente, dalla presenza dei fascisti al governo alla guerra, dalla crisi climatica a quella sociale, ci pongono quindi su un piano in cui sia il riformismo che il massimalismo sono impotenti. Entrambe partono infatti nella loro analisi e azione dando per determinata a priori la forma di stato in cui operare.

Invece in tempi di crisi strutturale le soluzioni sono rivoluzionarie o non sono. E soluzioni rivoluzionarie sono quelle soluzioni che implicano un cambiamento nella forma politica, della forma di stato, entro cui è organizzata la società. Non semplice conflitto sociale, non semplice sommatoria di lotte. Ma progetto politico strategico volto alla costruzione di una nuova forma di stato. Questa è la rivoluzione.

La crisi economica, la crisi climatica, la pandemia e la guerra ci hanno abbondantemente mostrato che i singoli stati-nazione europei non hanno più alcuna ragione storica di esistere, non hanno più alcun compito progressivo da svolgere. Essi permangono solo come incubatori del fascismo. L’idea di una sorta di unità mistica tra territorio, popolo e stato, il culto feticistico di un apparato e di un’ideologia statale e dei suoi confini, sono già quella sacralizzazione della sovrastruttura politica e delle sue narrazioni che è un tratto distintivo del totalitarismo.

L’unione continentale europea avrebbe dovuto svolgersi già da molti decenni sul piano istituzionale, sul piano della democrazia rappresentativa. Avrebbe dovuto essere il compito storico delle forze socialdemocratiche, cristiano-democratiche e liberali. Ma esse si sono mostrate subalterne rispetto al liberismo e all’ideologia dello stato-nazione. Pertanto questo processo storico avrà si bisogno anche dell’apporto dei riformisti per realizzarsi, per darsi una struttura istituzionale rappresentativa. Non credo sia possibile infatti saltare in toto la fase liberal-democratica nella costruzione dell’Europa unita.

Ma propulsori e catalizzatori del processo storico, della lotta effettiva per l’effettiva unità del continente potranno essere solo le forze rivoluzionarie. Innanzitutto perché una forma statuale nuova non nasce per via rappresentativa ma per forzatura rivoluzionaria. Non si vota per fare uno stato, semmai prima si fa uno stato e poi si vota. Il leale confronto tra “avversari politici” può svolgersi solo tra chi concorda solo sulla forma di stato nella quale deve svolgersi il confronto stesso. Se si mette in discussione quella si diventa “nemici”.

Ma al di là dell’aspetto di metodo (che è interclassista, tant’è che la borghesia lo usò splendidamente quando era classe rivoluzionaria, tra XVIII e XIX secolo), le forze sociali più interessate alla reale unità europea sono le classe lavoratrici. A causa ad esempio del caro energia che solo a livello europeo può essere affrontato l’imprenditore può avere dei problemi, il professionista può dover ridiscutere il proprio stile di vita, ma il lavoratore dipendente, precario o autonomo deve scegliere se pagare l’affitto e le bollette o la spesa.

Questo è ancor più vero per le categorie più oppresse all’interno delle classi lavoratrici: soggettività LGBTQ, donne, migranti. Per un migrante un’effettiva unità europea che consenta di spostarsi e risiedere da un paese all’altro dell’unione è un bisogno immediato (per non parlare della lotta per poter entrare in Europa senza rischiare la pelle, anch’essa legata alla lotta contro i nazionalismi); per una donna che intende abortire, per una persona omosessuale o transessuale che risiede in Polonia o in qualunque altro staterello fascista dell’Europa centro-orientale l’unità europea è questione dirimente, è l’unico modo per cambiare la realtà in cui vive. Quanto alla lotta ambientale solo con una pianificazione economica continentale si potrà parlare sul serio di contribuire a risolvere la crisi climatica.

E questo ci ricorda la vecchia lezione di Gramsci: le classi e le soggettività oppresse possono perseguire il proprio interesse solo divenendo egemoni, prima all’interno della composita galassia «progressista» e poi sull’intera società. Come? Costruendo la propria forma di stato, come un tempo la borghesia costruì la propria creando gli stati-nazione.

Per mezzo delle proprie organizzazioni d’avanguardia le classi lavoratrici devono divenire classe dirigente, classe che determina con le proprie lotte e la propria strategia il dispiegarsi di un processo storico globale.

Il XXI secolo è il secolo degli stati continentali. Il permanere della divisione dell’Europa in stati-nazione, lo vediamo già con la guerra che gli imperialismi statunitense e russo combattono sul nostro continente, sarà la rovina di tutti i popoli che la abitano. Solo agendo all’interno di questa necessità storica le classi oppresse possono diventare egemoni. Solo determinando il destino politico del continente le possono stringere da una posizione di forza quel compromesso al rialzo tra una pluralità di interessi e ideologie che è il momento centrale della costruzione dell’egemonia. Altrimenti saranno sempre e solo carne da cannone e massa di manovra per le varie fazioni oligarchiche.

Le classi lavoratrici europee possono liberarsi solo realizzando la vera unità europea, solo conquistando un’Europa realmente democratica, fatta di autonomie locali confederate, un’Europa socialista, ecologista e transfemminista.

Il punto è: come? Siamo molto lontani dall’avere un’organizzazione rivoluzionaria continentale in grado di assumersi questo compito e non credo si possa realizzare con un semplice atto di volontà. Occorre un’azione catalizzatrice che dimostri a tutte le realtà di movimento europee che «si può fare». E qui entra in gioco il ruolo strategico che i movimenti italiani possono avere.

A prima vista la situazione italiana sembra senza speranza: un paese socialmente ingiusto, demograficamente vecchio, governato da fascisti e trafficoni, con un’opposizione riformista penosa, privo della coscienza democratica tedesca o della conflittualità sociale francese. Ma noi dobbiamo ricordare quanto diceva Gramsci, credere nel «pessimismo della realtà e nell’ottimismo della volontà». Dobbiamo scuoterci dall’abitudine riformista a pensare che «l’Europa ci salverà», è un discorso sostanzialmente colonialista e fallimentare. È vero semmai il contrario, noi, alla testa degli ultimi e delle ultime di questa negletta geografia chiamata Italia, dobbiamo salvare l’Europa perché siamo gli unici e le uniche che possono farlo.

Troppo grande per essere lasciata semplicemente fallire, troppo fragile per essere continuamente minacciata o sostenuta dall’esterno, l’Italia sarà il propulsore dell’unità europea o la sua tomba. Le sue dimensioni e la sua posizione la rendono strategica. La sua crisi, non risolvibile sul piano dello stato-nazione e della democrazia rappresentativa, l’inconsistenza delle sue classi dirigenti, il suo vuoto etico, il dissolversi della Repubblica rendono necessaria una trasformazione rivoluzionaria. E ad essa non ci sono alternative riformiste.

Ad oggi i movimenti sono l’unica forza davvero capace di immaginare un futuro in Italia, davvero capace di un approccio sistemico e complessivo, l’unico vero presidio sociale, l’unica vera alternativa al familismo amorale. I passi in avanti compiuti negli ultimi anni in situazioni difficilissime sono stati impressionanti: Friday For Foture, il movimento degli studenti medi, il radicamento dei tanti spazi sociali, le lotte della logistica, il collettivo di fabbrica GKN. Sono le uniche realtà italiane che davvero facciano politica e non tifo da stadio o chiacchiere fine a sé stesse o loschi interessi di bottega, che cerchino di avere un’elaborazione sui problemi concreti. Il movimento reale c’è. Quella che manca è piuttosto una discussione che non si limiti a prendere atto di ciò che già c’è ma provi a dare delle prospettive strategiche.

E soprattutto è un’urgenza riempire dal basso il vuoto lasciato dalla dissoluzione della Repubblica. Esso significa la perdita di senso delle forme esteriori e transitorie dell’antifascismo, la sua trasformazione in antifascismo puramente negativo, che può essere facilmente sussunto nel «noi non siamo fascisti» che Meloni ha espresso nel suo discorso d’insediamento.

Al contrario l’antifascismo positivo, la proposta per una società nuova che durante la resistenza sorse dalla lotta tra diversi e diverse, rimane vivo e operante nell’identità e nelle prassi di una pluralità di soggettività che vanno dalle organizzazioni rivoluzionarie alla parte democratica del mondo cattolico. Occorre riattivarlo, ridargli respiro, autonomia e possibilità d’azione effettiva. Dissolta la Repubblica come sostanza ideologica delle istituzioni statuali, rimane la Repubblica come Res Pubblica, come bene comune del popolo antifascista.  Come luogo politico dell’incontro tra diversi e diverse, egualmente intenzionati e intenzionate a vivere in una società realmente democratica. Essa può combaciare oggi con la Comune come la intendeva Marx: «forma politica finalmente scoperta entro cui può svolgersi l’emancipazione della classe lavoratrice». Ovvero come piano di democrazia effettiva in cui un blocco sociale progressivo si salda sotto l’egemonia delle soggettività rivoluzionarie, ma trovando un compromesso al rialzo tra una pluralità di interessi e ideologie.

E qui deve stare la nostra capacità politica, la capacità di proiettare l’autonomia dei movimenti ben al di fuori dell’area identificata come «estrema sinistra», di saperla proporre come terreno d’azione e d’incontro per tutto il popolo antifascista, ora privo di effettiva rappresentanza e margini d’azione sul terreno istituzionale. Di fatto già avviene in molte nostre lotte locali. Occorre sistematizzare queste prassi, farne elaborazione generale, produrre stabili organismi di democrazia effettiva che sappiano tracciare un progetto generale per il paese e catalizzare l’attenzione di tutto il continente.

Gli anni Settanta hanno alla fine chiuso il ciclo aperto con la resistenza, noi oggi dobbiamo aprirne un altro. Dobbiamo riaffermare l’antifascismo non come negazione di qualcosa (il fascismo non è un “qualcosa”, ma è esso stesso negazione), ma come affermazione di un progetto e prassi comune per una società realmente democratica.

Dobbiamo essere capaci di dare una prospettiva di metodo capace di riunire tutti e tutte coloro che realmente intendono adunarsi e lottare

«per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo».

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