di Franco Pezzini
Marilù Oliva, Biancaneve nel Novecento, pp. 351, € 19,00, Solferino, Milano 2021.
Nel corso di questi anni, la produzione di Marilù Oliva ha mirato sempre più alto. Dai deliziosi romanzi della Guerrera, che non si esaurivano in un puro genere né quanto a contenuti (abbracciando visionarie panoramiche tra mitologie del fuoco e storia sociale delle danze sudamericane) né per forma, con la loro policroma eleganza narrativa, è passata così a una seconda fase in cui la visionarietà – le anziane sultane, i freak, gli scrutatori del cielo stellato – spalanca discorsi enormi in chiave mainstream. Poi, spinto il genere un po’ a lato con un paio di godibili polizieschi – colti, ricchi di provocazioni –, una terza fase conduce ancora più in alto, alla recente rilettura al femminile dell’Odissea e a questo compatto, drammatico, vivido Biancaneve nel Novecento. Dove, di nuovo, non mancano chiavi affabulatorie (non gli dei del fuoco o le macchine del tempo, ma la fiaba di Biancaneve incalzata nella sua evoluzione filologica come uno specchio che trasfigura e – di volta in volta – rischia di deformare la realtà, polarizzando i volti in maschere), anche per una solida tecnica narrativa, ma dove il dito è puntato sulle piaghe del Secolo breve.
Le vite parallele di nonna e nipote si dipanano così a mappare gli eventi, i dolori e le tragedie – fino a fatti di cronaca che possiamo ricordare sui giornali – ma dal grembo concreto della storia, quella grande delle nazioni e quella piccola familiare e individuale. Non stride dunque il passaggio dalle scene a Buchenwald dove Lili (la nonna) è prigioniera nel bordello del lager a quelle dei locali pubblici da movida dove Bianca (la nipote) recupera le danze care alla Guerrera, in un richiamo dell’autrice agli inizi della sua scrittura, e che ne salda idealmente le fasi. Del resto l’incomprensibile senso del rifiuto materno e l’inadeguatezza patiti da Bianca si specchiano nell’altrettanto incomprensibile realtà vissuta da Lili nei rapporti con la piccola e grande Storia – nell’una e nell’altra situazione con il senso di una mancanza di giustizia al mondo che lascia feriti, umilia e consuma. Ma tutto il romanzo è fitto di questi giochi a incastro, frutti di un’estrema consapevolezza letteraria: certo ricca di dati documentali (l’autrice offre alla fine anche una bibliografia storica “minima”, di grosso interesse) e comunque di una profondità umana ben avvertibile, ma che mai cede sul fronte della narrazione. Se Biancaneve è principessa, lo è Mafalda di Savoia alla cui morte nel lager Lili assiste impotente; e in compenso il ragazzo che Bianca vede come principe si rivela un antipatico, mediocre cercatore di asfittiche normalità. Così, paradossalmente, funziona la vita.
Occorre non equivocare sulla natura di romanzo: la nipote narrante – sia chiaro – non è l’autrice più di quanto possa esserlo qualunque personaggio di narrazione, quasi a stabilire un gioco parallelo di rifrazioni parziali, in parte calzanti e in parte svianti tra Marilù e Bianca, come tra Bianca e Lili e tra Bianca e Biancaneve. Dove ciò che svia e distingue, però, produce domande ed è anche lì che troviamo a interpellarci l’autrice.
Ogni scrittore riporta se stesso e altri – familiari, amici, protagonisti di storie reali avvicinate in modo diverso e a volte accidentale – nei dettagli e nelle emozioni dei suoi personaggi: si tratti degli eroi della vicenda, o invece di figure defilate ma non meno sue, e persino in quelle antipatiche o ripugnanti. Tutto ciò in grazia di un’empatia che nella vita fatichiamo a trovare con chi ci passi accanto: e il personaggio forse più tragico di questo romanzo, la vera mattatrice delle pagine si consuma nell’interstizio tra le vicende parallele, quella Candi che è madre di Bianca e figlia di Lili, all’inizio cattiva matrigna di Bianca(neve) e alla fine – compresa ormai nelle sue ragioni umane – mamma rimpianta. La chiave di tutto – e di più non si dice, per non smontare un meccanismo narrativo – sembra stare nella chioma di Candi, bella donna resa aggressiva dall’alcool e dalla ribellione a una Storia che non risparmia nessuno. Come scrive Maria Rosa Cutrufelli presentando Biancaneve nel Novecento all’edizione 2021 del Premio Strega:
I due racconti si alternano fin quasi alla fine, fino al momento in cui i ricordi di Lili e la vita di Bianca trovano il punto di sutura. E allora le voci si placano e, in un certo senso, si fondono in un nuovo equilibrio.
Un romanzo tenero e feroce, che entra nella Storia per farci capire come il male generi altro male, inevitabilmente. Come il nostro “passato” non passi mai, se non lo mettiamo a fuoco, con tutti i suoi errori e orrori. E, soprattutto, se non esercitiamo la nostra capacità di empatia e di compassione, cercando di sanare le ferite degli altri, che sono anche le nostre.
È in questo senso più ampio, di percezioni acquisite al di là di ogni maschera di personaggio, che il libro protesta dimensioni concretamente autobiografiche: solo facendo esperienza, in contesti anche distanti, di questa realtà fondamentale – un’esperienza psicologica che diventa però fisica nei nostri carne e sangue – possiamo approdare a una pacificazione interiore, sempre parziale e dialettica, con la sincerità di queste pagine. Dove la speranza – quella di spezzare taluni meccanismi che perpetuano il male moltiplicandolo a cascata lungo il flusso delle generazioni – non arriva quale dolciastro lieto fine appiccicato col nastro adesivo, quale “Mondo belo” da buonisti idioti, ma come frutto di una faticosa, onesta arte quotidiana a capire senza sconti la realtà e a ricordarla. Il fitto calendario di eventi-chiave di un secolo ha anche questa funzione, di memoria necessaria per capire. E allora butteremo via le pacificazioni-fuffa – quelle che parificano persecutori e perseguitati, quelle che obbligano vedove a stringersi la mano in contesti dove dovrebbe essere lo stato a chiedere scusa, quelle che tentano di trasformare feste dal contenuto valoriale pregnante in mischioni memoriali buoni a ogni retorica – e potremo avvicinare in modo più onesto e sano sofferenze da poveri diavoli, storie di bambini poco amati, drammi d’innocenti macinati dalla società o dalla Storia.
Nelle fiabe il Male c’è: in questo senso il richiamo alla fiaba di Biancaneve non si consuma nella semplice contrapposizione tra la giovane buona perseguitata e la matrigna cattiva, ma in una più sottile presa d’atto che il Male debba essere preso sul serio, e che l’unico uso sensato dello specchio incantato stia nel porre domande. Qualcosa che, fuor di metafora, conduce a una necessità di porre domande e capire attraverso i mezzi a nostra disposizione: fonti, documenti, voci… Che potranno allora rivelarci moltissimo su chi sono coloro che ci fanno del male, sulla loro storia, e – in parallelo – su chi realmente siamo noi. Senza cadere nelle trappole delle geremiadi pilotate, dei documenti farlocchi quanto i Savi di Sion, delle informazioni incontrollate e brandite come clave – inevitabile pensare allo storytelling tossico che uno storico serio come Eric Gobetti ha decostruito a suon di dati oggettivi (E allora le foibe?, Laterza, 2021, nell’ambito di una bella collana tesa proprio a smontare retoriche falsanti) ricevendo raffiche di minacce e di sgangherati attacchi anche giornalistici.
Però le cifre con cui accostare Biancaneve nel Novecento sono varie: una doppia storia di formazione compresa di fasi decreative – gli shock nel lager, la droga… – e di laceranti fallimenti; una storia sull’amore e su quegli amori che possono salvare, a volte, solo fino a un certo punto; una storia appunto sull’identità e le identità, di continuo perdute e reinventate imperfette (Biancaneve per Bianca), ricostruite, trasformate anche grazie alla chiave della sorellanza. Che è anche dunque una storia della donna e delle donne nel Secolo breve, ed è impensabile non pensare alle iniziative condotte dall’autrice in questi anni – contro il femminicidio e la violenza alle donne, per un’accresciuta presa di coscienza critica su un certo lascito patriarcale nell’Italietta familista, eccetera. Nei suoi aspetti da romanzo drammatico popolare (formula in nessun modo svilente, che guarda alla capacità di scrivere per un grande pubblico e non solo per i salotti), Biancaneve nel Novecento è un libro importante, che permette di riflettere su scelte e pratiche di una lotta per la sopravvivenza che è anche una forma di lotta per la dignità. E può passare persino attraverso il letto del postribolo di un lager, se continuiamo a sognare rabbiosamente una realtà diversa. Pur tra cadute da cui nessuno potrà dirsi indenne.