Processi di ibridazione. La realtà (è) nella mente

di Gioacchino Toni

Dopo aver affrontato nello scritto Il demone (è) sotto la pelle alcuni percorsi tra le opere cronenberghiane proposti dal recente volume di Diego Altobelli, Human Fly. David Cronenberg e i luoghi della mutazione (Bakemono Lab edizioni, 2020), riprendiamo qua con il terzo itinerario presentato dallo studioso – Dalle Starliner Towers alla pelle tatuata de La promessa dell’assassino – che prende il via dal complesso residenziale in cui è ambientato Shivers – Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), luogo che metaforicamente mostra come dietro alla bellezza e alla pulizia delle geometrie funzionaliste si nasconda l’orrore che si palesa sotto la forma di efferati omicidi.

Il regista ricorre allo spazio architettonico residenziale come a una metafora del corpo umano: «il residence dove è ambientato il film è in tutto e per tutto un corpo visto dall’interno, con le sue aperture (bocca, naso, orecchie), i corridoi (i vasi sanguigni), i sotterranei e il garage (le viscere)»1, ed è all’interno di queste pareti/epidermide umana che prolificano quei vermi che conducono alla mutazione. In questo caso l’agente di contagio determina la riattivazione di appetiti sessuali eliminando ogni freno inibitorio; è dunque un desiderio sfrenato a dilagare nelle viscere di quelle Starliner Towers che si volevano totalmente assoggettate alla razionalità architettonica, dunque dei corpi umani che, allo stesso modo, si volevano totalmente sottoposti al controllo della ragione.

Attraverso il verme che entra e penetra nelle tubature e nelle intercapedini, il palazzo sembra animarsi diventando il vero antagonista del film: dopo essere stato infetto, il residence “prende vita” condizionando gli abitanti che vivono al suo interno. Così che l’eleganza stilistica della scena, con ambienti puliti, sgombri, arredati con fare moderno, si sporca del germe che muta quegli appartamenti; a un tratto, come spettatori capiamo che non è tanto il parassita a rappresentare il pericolo del contagio, ma il fatto stesso di trovarsi all’interno di quelle mura. Siamo all’interno di un corpo malato, corrotto e irrecuperabile.2

Una volta contagiato anche l’ultimo degli abitanti, questi abbandonano l’edificio per propagarsi all’interno delle arterie della città: l’orda selvaggia – che non manca di rinviare all’immaginario zombie romeriano – potenzialmente può estendere il contagio all’intera città e con essa al mondo intero. Ed è proprio nell’ambientazione metropolitana che nel film successivo, Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977), si diffonde l’orrore. Se in Shivers il parassita permette ancora agli esseri umani un’esteriorità “normale”, con Rabid, sostiene Altobelli, la mutazione pare compiere un passo ulteriore intaccando anche l’aspetto esterno.

Anche in questo caso non mancano anaologie con gli zombie romeriani ma, scrive Gianni Canova nella sua monogrfia dedicata al canadese (Editrice Il Castoro, 20073) che se in un film come La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di Geroge Romero «si ha una struttura centripeta che conduce tutte le creature risorte dalla tomba a concentrarsi attorno alla casa isolata che diventa il simbolo dell’ultima resistenza degli umani, Rabid sete di sangue presenta invece una struttura centrifuga che porta i personaggi ad allontanarsi dalla clinica Keloid, lungo un percorso narrativo che si sfrangia e si ramifica nel territorio urbano, seguendo i rigangoli capillari del propagarsi della malattia»4.

Anche in Rabid le ambientazioni assumono un valore simbolico: «la Keloid Clinic è il ventre che partorisce il mostro, dopo averlo tenuto in incubazione, esattamente come le Starliner Towers del film precedente; i viali della città di Montreal diventano flussi sanguigni dove si consuma la follia»5. L’esperimento scientifico – il trapianto di pelle necessario alla protagonista – diviene elemento mutante che, incontrollato e incontrollabile, dilaga in una città presentata come estensione del corpo della donna, ulteriore passo verso l’infezione dell’intero pianeta.

A ben guardare, sostiene Altobelli, Shivers e Rabid, nonostante l’apparenza, non sono poi così distanti da La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007 ), ultima tappa di questo terzo itinerario. Si tratta, in questo caso, di un film costruito sulla pelle, un’epidermide solcata da tatuaggi, cicatrici e ferite che si fa testimone della storia dei personaggi attraverso un linguaggio che però, al pari delle diverse lingue che si intersecano e dei codici comportamentali delle diverse parti in lotta, risulta pressoché incomprensibile. Ancora una volta, in fin dei conti, sostiene lo studioso, si tratta di un film sulla convivenza di diverse identità all’interno di un unico corpo e di nuovo, suggerisce Cronenberg, la convivenza di più entità appare impossibile. Nel film ogni corpo è in qualche modo connesso a un altro e il regista racconta il legame tra i personaggi e tra gli spazi. «L’identità passa per forza di cose dal corpo, dice Cronenberg, ma passa anche […] dalle ferite che su quella pelle sono inferte. Sono loro – i segni, i tagli, i tatuaggi – a svelare l’identità. Ma cos’è diventato l’uomo, quando alla fine del percorso si è rivelato?»6.

Il quarto itinerario proposto dal volume – Alla Civic Tv per la proiezione di A Dangerous Method – parte da Videodrome (Id., 1983), un viaggio allucinatorio in cui la percezione dello spettatore si fonde con quella del protagonista, a sua volta ormai inestricabile dalla televisione in un intrecciarsi di piani che confonde il grado di mediazione dell’immagine. Chi guarda cosa? Attraverso quale mediazione? Quando per il protagonista, e per gli spettatori, la video-allucinazione ha iniziato a intrecciarsi, sovrapporsi, sostituirsi alla realtà? Se, riprendendo Marshall McLuhan, si pensa al monitor televisivo come a un’estensione del sistema nervoso umano, la distinzione tra i piani sembra allora farsi davvero impossibile.

In una celebre sequenza del film viene mostrato un talk show televisivo in cui O’Blivion «parla attraverso la televisione. Anzi, è lui stesso la televisione. Lo show televisivo, infatti, invita un televisore (!) che proietta l’immagine del professore che interagisce con gli ospiti come se fosse presente con loro»7. Lo spettatore, al pari dei personaggi, subisce un vero e proprio martellamento visivo fatto di schermi e richiami al concetto stesso di vedere e alla sua ambiguità. La realtà, suggerisce il film, è la nostra percezione della stessa e «per concepirla l’unico elemento sono le immagini. Se lo sguardo convince il nostro cervello che ciò che vediamo è vero, il corpo si adeguerà di conseguenza»8.

Il rapporto tra realtà e percezione del reale viene ripreso in eXistenZ (Id., 1999), che per certi versi rappresenta un aggiornamento di Videodrome, una fase successiva del processo di mutazione in atto in cui Cronenberg elimina ogni punto di riferimento per lo spettatore costretto ad accontentarsi di perdere atto di ciò che vede «alla ricerca di una via di uscita da quel corpo in cui, non si sa bene quando, come o perché, ci si è ritrovati»9.

Rispetto a Videodrome, secondo Altobelli, eXistenZ pare persino più inquietante in quanto ogni situazione mostrata viene percepita dallo spettatore come del tutto reale nel momento in cui si sta svolgendo e ciò perché, una volta che si accetta di entrare insieme ai protagonisti nel gioco, tutto può essere accettato. Forse, si potrebbe aggiungere, nel frattempo è cambiato, e parecchio, anche lo spettatore rispetto ai primi anni Ottanta… qualche “decennio televisivo” in più e massicce dosi di schermi sempre più indissociabili dal corpo hanno mutato drasticamente l’individuo e il livello di ciò che è disposto ad accettare nella fruizione10.

In eXistenZ Cronenberg, oltre alla percezione del reale, azzera persino lo spazio e il tempo (la protagonista a un certo punto si mette persino “in pausa”), «eXistenZ non inizia e non finisce, i suoi confini sono sfumati al punto da essere impercettibili: l’inizio di eXistenZ può tranquillamente essere considerata la sua fine, in un circolo infinito della percezione»11. Al termine della proiezione il dubbio di aver assistito a una mera allucinazione senza capo né coda può far capolino ed ecco allora che l’itinerario proposto da Altobelli ci conduce al film A Dangerous Method (Id., 2011) ove ci si trova a chiedersi cosa la protagonista femminile realmente veda e cosa no. Altobelli definisce l’opera un elegante «dramma della perversione» che narra del triangolo relazionale vissuto per qualche anno da Freud, Jung e la giovane Sabina Spielrein. «Pericolosi (dangerous) echi (method) della coscienza che, al netto dell’uso che ne vogliamo fare, porteranno comunque all’annientamento. I sogni, appunto, le visioni. Come quelle che avevano invaso la realtà in Videodrome e eXistenZ. Epiloghi concettuali iniziati in uno studio di psicanalisi»12.

Il quinto itinerario – In macchina. Cosmopolis e la fusione possibile – proposto da Altobelli prende il via da Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), un film spesso considerato un corpo estraneo all’interno della produzione cronenberghiana ma che a suo modo, secondo lo studioso, risulta comunque utile per comprendere la poetica del regista canadese in quanto, pur essendo ancora ben lontani da quelle «intuizioni apocalittico/emotive» che si ritroveranno in Crash (Id., 1996), già in questo film si intravedono i germi di alcune tematiche ricorrenti nel cinema del canadese. «Il film è un’appendice che già mostra, dietro il rassicurante racconto della rivalsa di un corridore contro un sistema corrotto, tutti quei dispositivi tossici che andranno a insinuarsi nella poetica di Cronenberg e che porteranno all’ossessione morbosa (corporale e mentale) descritta in Crash»13. In quest’ultimo film Altobelli vede un’opera sull’incomunicabilità,

un’allarmante e lucida riflessione sulla natura umana e sul suo bisogno di esprimersi a un livello primordiale, usando il corpo e il sesso. È un film sussurrato dove i protagonisti subiscono i fatti che si susseguono con un atteggiamento passivo e remissivo; la loro unica reazione è dettata dal desiderio carnale dell’accoppiamento. Dall’illusione che il breve momento di estasi derivato da questo impulso possa far loro dimenticare le rispettive inquietudini, i malesseri, la sottintesa depressione che, in effetti, sembra caratterizzare tutti i personaggi.14

James Ballard, a proposito della sua prova letteraria, ne parla come del primo romanzo pornografico basato sulla tecnologia. D’altra parte anche il film che ne ha tratto Cronenberg tratta del rapporto perverso uomo/macchina, natura/tecnologia. «Ecco quindi un’altra contrapposizione impossibile: la natura (l’uomo, il sesso, il corpo) e la tecnologia (le macchine, che rappresentano anche il cosiddetto progresso) sono due entità inconciliabili»15. Tale fusione, sottolinea Altobelli, al pari di altre trattate dal canadese, vedono la ricerca della convivenza infrangersi sul desiderio del singolo individuo. Se in altre opere la razionalità capitolava sotto l’illusione di un orizzonte comune, «in Crash è l’istinto a prevalere e a far capitolare già per questo ogni possibilità di buon esito dell’incontro»16.

Pur chiamato a essere testimone delle perversioni dei personaggi, lo spettatore sembra restare, per quanto stupito, abbastanza indifferente di fronte alla sessualità esibita in Crash: «l’assenza di una vera struttura narrativa coinvolge anche noi come spettatori che vaghiamo, come fa Ballard, attraverso una serie di ambienti urbani e industriali»17. Nastri d’asfalto, garage ospedali… come nei primissimi film di Cronenberg – Stereo (1969) e Crimes of the Future (1970) – i protagonisti, e con essi gli spettatori, si spostano da un ambiente a un altro senza una logica particolare. In Crash al regista, sostiene lo studioso, sembra interessare cosa c’è “dietro” l’atto sessuale, più che quest’ultimo e qui abbiamo soprattutto disperazione e solitudine.

La città è l’altro corpo che viene stuprato, scorticato, scoperto totalmente. Cronenberg mostra le corsie stradali come mostrerebbe le arterie che scorrono sotto pelle. In quelle strade i personaggi diventano globuli rossi, sono cellule, piastrine pronte a defluire e a emergere quando qualcosa (la lamiera, il ferro) taglia quel corpo, quella pelle (la strada, la città). Come a dire: facevamo già parte di un tutto e non lo sapevamo. L’esito di una separazione è necessariamente la morte. Senza appello. E nel confronto tra vita e morte, non ci resta che la tragica fine di un’esistenza vissuta senza scopo.18

È in Cosmopolis (Id., 2012) – atto d’accusa senza appello nei confronti di un sistema che non riesce, non può, fare a meno di rende tutto moneta di scambio – che secondo Altobelli si assiste alla fusione desiderata in Crash: «il corpo è già all’interno della macchina, è già fuso in essa. […] è un corpo (visivamente) immateriale all’interno di un guscio (l’automobile) che lo irrobustisce fino a dargli quella forma che nella sua natura manca [in quanto] morto prima del tempo»19. Qua la carne diviene inconsistente; siamo di fronte a un fantasma alla ricerca di «una sua identità fisica lontana dall’involucro ipertecnologico della limousine in cui è costretto a vivere in una simbiosi che rimanda naturalmente a film come Crash o Veloci di mestiere, ma certamente anche alle mutazioni di La mosca, o alle coesistenze metafisiche di Videodrome»20.

L’ultimo tragitto tra le opere cronenberghiane proposto da Altobelli – A Hollywood, per Maps to the Stars – prende il via con M. Butterfly (Id., 1993), film in cui «il sesso è una liberazione, un atto naturale e anche, per la prima volta nel cinema di Cronenberg, sentimentale. Eppure il dramma è dietro l’angolo»21, forse perché, ancora una volta nulla è come pare. In questo film a mutare non è il singolo ma la coppia stessa. «La coppia di amanti dall’equivoca identità, sfocerà nella mutazione quando l’uomo diverrà la donna di cui (non) si è innamorato. È come se Cronenberg tentasse di rivelare cosa si nasconde sotto la (nuova?) carne. La pelle è un coperchio fatto per essere divelto dal furore passionale del sentimento»22.

In Brood – La covata malefica (The Brood, 1979), il regista mette in scena l’impossibilità di una famiglia di concretizzarsi come entità e lo fa attraverso un percorso a tappe allegorico disseminato di sottotesti. Nel film si è posti di fronte a immagini mentali che prendono vita e si danno a vedere, allucinazioni visive o percettive che attraversano la mente anche dei personaggi di Maps to The Stars (Id., 2014), punto d’approdo di questo ultimo percorso proposto da Altobelli. Questo ultimo film mette lo spettatore di fronte a un’umanità distorta quanto il sistema a cui appartiene e da cui è stata plasmata. Maps to the Stars insiste sulla necessità dell’essere umano di mostrarsi, sulla dipendenza dall’immagine che lo rappresenta e lo Star System hollywoodiano mostra qua di contenere al suo interno il germe dell’autodistruzione innescata dal desiderio di essere altro, dramma che, sostiene Altobelli, può facilmente essere esteso all’universo televisivo o dei social network.


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