Punto Nemo, Stazione Spaziale Internazionale e digitalizzazione – Psicologia di un inquinatore

Un contributo di Francesco Verrigni, MDF Cagliari

Da sempre nell’immaginario dei viaggiatori di tutte le epoche, i poli dell’inaccessibilità sono punti sulla superficie della Terra che presentano caratteristiche molto peculiari. Sono chiamati così per la loro difficoltà ad essere raggiunti, indicano infatti i punti della superficie terrestre più distanti dalle terre emerse continentali, per quelli oceanici e polari, e dai mari, per i punti continentali. Situato nella parte meridionale dell’Oceano Pacifico, a 2688 km dalle terre più vicine, il punto Nemo, il punto oceanico dell’inaccessibilità, è forse il più affascinante in assoluto. Chiamato così in onore del protagonista dei romanzi di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari” e “L’isola misteriosa”, le coordinate esatte sono state scoperte solo negli inizi anni 90 del secolo scorso, ma già dagli anni 70, la zona era stata eletta come “cimitero spaziale” per i velivoli rientranti dallo spazio. Quando un velivolo spaziale giunge alla fine della sua vita, e non si ritiene più conveniente dirottarlo verso il Sole, viene programmato per il rientro in un punto preciso del nostro pianeta, il Punto Nemo, e i resti che non bruciano in atmosfera finiscono nelle profondità dell’Oceano.(https://www.ilmoderatore.it/punto-nemo-il-cimitero-spaziale-nelloceano-pacifico/). Si stima che più di 260 velivoli spaziali trovino lì il loro riposo, e sembra il destino più probabile che attende la Stazione Spaziale Internazionale tra pochi anni (https://it.rbth.com/scienza-e-tech/85471-che-fine-far%C3%A0-la-stazione).

Il Punto Nemo è forse l’esempio più emblematico, ma quanti sono i punti invisibili, inaccessibili, pieni di rifiuti di cui non ci curiamo perché non ne siamo a conoscenza? Tutti noi siamo consapevoli dei rifiuti che produciamo nella nostra dimora, che fanno bella mostra di sé negli appositi bidoncini tenuti in un angolo non troppo visibile del giardino o del balcone. Rifiuti di cui, si spera, cerchiamo di ridurre la consistenza il più possibile. Quanti sono, invece, quelli che produciamo senza accorgercene? Quali che, per essere distanti dalla nostra vista, e spesso dalla nostra consapevolezza, non ci curiamo di ridurre? Quanti sono questi “Punti Nemo” invisibili?

Pensiamo per un attimo all’impatto della digitalizzazione sulle nostre vite; ormai siamo abituati a mandare email, messaggi e utilizzare i social come parte integrante della nostra quotidianità, ma ogni volta che guardiamo un video o facciamo una ricerca sul web siamo consapevoli dell’impatto ambientale del nostro agire? E’ difficile calcolare l’impatto di tutto il settore dell’IT (Information Technology) sul consumo di energia globale, sul web si leggono percentuali differenti (dall’1 al 10%); tutti sono d’accordo, comunque, nel ritenere che queste cifre sono destinate ad aumentare nei prossimi anni (https://greenxtech.altervista.org/quanto-inquina-il-web/).

Siamo portati a pensare che scaricare un ebook sia più salutare per l’ambiente che sfogliare un libro cartaceo, che la digitalizzazione della pubblica amministrazione risparmi i gas di scarico delle nostre auto del tragitto casa/uffici, ma ci sono diversi fattori da considerare. In primis, l’energia elettrica dei nostri dispositivi, che vanno ricaricati quasi quotidianamente, viene prodotta in alta percentuale dallo sfruttamento di fonti fossili. Altro fattore importante è l’estrazione dei minerali che compongono i nostri smartphone e pc, alcuni dei quali provengono dall’altra parte del mondo e coinvolgono il lavoro minorile, che aiuta le aziende a tenere bassi i costi (https://news.sky.com/story/meet-dorsen-8-who-mines-cobalt-to-make-your-smartphone-work). Aziende che fanno anche largo uso dell’obsolescenza programmata per costringere i consumatori ad un ricambio continuo dei dispositivi. Ma l’aspetto forse più sopravvalutato è l’impatto dei giganteschi data server, vere e proprie sanguisughe di energia, che ha portato alcuni giganti dell’IT all’acquisizione di centrali idroelettriche per soddisfare i propri bisogni (https://www.corriere.it/economia/aziende/20_novembre_16/aruba-acquisisce-4-nuovi-impianti-idroelettrici). Secondo questo articolo de La Repubblica (https://www.repubblica/ecco_quanto_consuma_la_quarta_nazione_al_mondo) “Il Web, fra gadget hi-tech, server e algoritmi, entra a pieno titolo nella classifica dei Paesi più importanti in fatto di CO2. Ne produrrebbe circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno. Significa 400 grammi per ogni utente di Internet. Volendolo inserire nella graduatoria elaborata dal Global Carbon Project, il Paese del digitale si piazzerebbe al quarto posto dopo Cina, Stati Uniti e appunto India stando alle stime. Insomma, l’uso o l’abuso di social network, videochiamate, chat e videogame online ha una sua impronta di carbonio non marginale, un mondo che assorbe un’enorme quantità di energia. Solo lo streaming video arriverebbe a circa 300 milioni di tonnellate, più di quanto faccia la Spagna.”

E’ evidente che l’invisibilità di questo inquinamento ai nostri occhi potrebbe portare alcuni di noi ad utilizzare con troppa leggerezza i servizi del web, fino ad eccessi come il messaggio whatsapp inviato da una stanza all’altra della casa. Per ovviare a queste criticità, vi invitiamo a un approccio basato sulla moderazione e sulla sobrietà digitale.

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