Oggi, 20 novembre, iniziano i mondiali di calcio 2022, ospitati in Qatar, paese della penisola arabica completamente desertico e con un’estensione inferiore a quello della regione Veneto. Ciò che abbiamo potuto osservare negli ultimi anni è stato un climax continuo di denunce e proteste, fino al picco degli ultimi giorni: la compagna Boycott Qatar ’22 è ormai fra le più grandi e trasversali della storia recente dello sport.
Facciamo un passo indietro: nel 2010 l’allora presidente della FIFA Sepp Blatter annunciò l’assegnazione del mondiale 2022 al Qatar, generando un misto di incredulità e indignazione da parte degli stessi addetti ai lavori. La famiglia reale qatariota, attraverso fondi privati, stava ormai da qualche anno investendo nel mondo del calcio per disegnare al Paese una faccia accomodante e nascondere le nefandezze di un potere assoluto ed ereditario con interessi in tutto il mondo (l’anno dopo – 2011 – verrà acquistato il Paris Saint Germain). Fu la goccia che fece traboccare il vaso (non fossero bastati i mondiali in Brasile del 2014 e in Russia del 2018): esplose il più grande caso di corruzione del mondo del calcio e Blatter stesso venne fatto fuori. Ma il mondiale in Qatar rimaneva.
L’influenza (e il potere) della famiglia reale qatariota ottenne risultati anche senza Blatter: per la prima volta le date furono cambiate, organizzando il torneo in inverno date le condizioni climatiche del deserto. Nonostante questo, i nuovissimi stadi costruiti per l’occasione (mai come ora la locuzione “cattedrali nel deserto” potrebbe essere più azzeccata) sono dotati di condizionamento d’aria per abbassare la temperatura in campo. L’indignazione inizia così ad arrivare anche al tifoso comune meno informato.
Da qualunque lato lo si guardi, il mondiale qatariota è espressione del peggior capitalismo estrattivista che sta portando sull’orlo dell’abisso il pianeta. Dal punto di vista ambientale, la bella inchiesta di IrpiMedia e Placemarks pubblicata anche su Globalproject, mette a nudo come questo evento avrà un impatto ambientale devastante: dal consumo di suolo, al consumo di acqua, alla produzione di gas serra, quello qatariota rischia di diventare il mondiale con il più alto impatto ambientale.
L’asticella si alza poi con le denunce di Amnesty International, sul trattamento dei lavoratori impiegati nella costruzione delle infrastrutture necessarie. Le stime sono di oltre 15.000 morti sul lavoro, una cifra immane e spaventosa. Per l’organizzazione del mondiale di Italia ’90, le morti sul lavoro per la costruzione o l’ammodernamento degli stadi furono 24, e già allora ci pareva un numero insostenibile. A ciò si aggiungono le perplessità verso un regime assoluto ed ereditario che ignora qualsiasi basilare diritto umano, vieta l’ingresso agli stadi alle donne non accompagnate, definisce l’omosessualità una malattia mentale punibile per legge e mette a punto un regolamento degli stadi contrario a qualsiasi funzione aggregativa fondamentale dello sport.
Il quadro che ne consegue è una completa irricevibilità di un mondiale in Qatar, arrivando dunque alla situazione attuale: la campagna Boycott Qatar ’22 ha raggiunto queste dimensioni proprio perché in fase di riflessione collettiva – che siano gruppi ultras o club di tifosi, collettivi politici o associazioni per i diritti, polisportive o palestre popolari – è impossibile non trovare almeno un aspetto della questione che non gridi allo scandalo. Se questo processo abbia raggiunto anche le individualità lo capiremo solo analizzando i dati degli share televisivi delle partite trasmesse, provando a fare una media fra i vari Stati e confrontando i dati con le edizioni precedenti.
Le curve di tutta Europa stanno manifestando il loro dissenso. Capofila, come spesso accade per queste campagne, la Germania: striscioni per il boicottaggio sono stati esposti in moltissime curve, dal Bayern Monaco al Borussia Dortmund, passando per Herta Berlino, Friburgo e Kaiserslautern. Non solo curve storicamente sensibili a questi temi si sono espresse per il boicottaggio: è qui in Germania che la campagna inizia a mostrarsi come trasversale, per poi dilagare in Francia, Spagna e negli altri campionati. In Italia, dopo un inizio cauto, la campagna è esplosa negli ultimi due mesi. Le polisportive e le squadre di calcio popolari hanno emesso un comunicato congiunto dal titolo “Un calcio (popolare) alla FIFA” firmato da 39 realtà di sport popolare e relative tifoserie. Salendo di categoria, quindi anche di visibilità, sono sempre più le tifoserie di squadre di serie A e B che si stanno esponendo sul tema, e continueranno per tutta la durata del torneo. Negli ultimi giorni, sono stati esposti striscioni per il boicottaggio da gruppi ultras del Napoli, della Roma, del Bologna, del Lecce, del Brescia, del Cosenza e del Pisa.
Ancora una volta, come è quasi sempre accaduto almeno negli ultimi trent’anni, uno dei pochi pensieri critici viene dal tifo organizzato, quello che con disprezzo viene considerato un mondo di ignoranti e delinquenti. Oggi siamo di fronte a un evento diventato strumento al servizio dell’accumulazione per espropriazione: non si tratta solo di accumulazione di denaro nelle mani di pochi affaristi e miliardari senza scrupoli ma, attraverso questo, cosa forse anche più seria e importante, dell’espropriazione delle emozioni di milioni di persone. Il calcio, da sempre uno sport popolare capace di produrre aggregazione, amicizie, cultura, emozioni oggi si è trasformato in un freddo prodotto commerciale che produce soldi per i padroni del gioco. Per questo il boicottaggio, oltre ad essere eticamente corretto, è l’unica opzione che può riaccendere la passione e riappropriarsi del gioco più bello del mondo.