di Cesare Battisti
«Gli dei quando ci erano propizi, erano fatti di argilla. Ecco, questa proprio non l’ho capita.»
Federico richiude il libro e ci appoggia su la fronte.
La psicologa sorride. La postura del ragazzo le fa immaginare Lucilium che invoca disperatamente lo spirito di Seneca affinché gli illumini la mente. «Cos’è che ti turba tanto in questa citazione?», fa lei dando alla voce la giusta intonazione.
Lo sguardo che si alza su di lei sembra provenire dagli esordi della civiltà latina. È scomparso dal volto del ragazzo il piglio intransigente contro il quale lei si è fin qui scontrata. Al suo posto, si è aperta una domanda grande come una voragine e lei si sente risucchiata. Nonostante la solida esperienza professionale, la psicologa punta istintivamente i piedi.
Anni di analisi con giovani reclusi le hanno insegnato che non esistono due profili uguali, ed è proprio quando si crede di conoscere abbastanza il soggetto che ci si ritrova a vagare nel buio. Per marcare la distanza, la psicologa corregge la sua postura sulla sedia.
Federico ci sta pensando su. Non è una frase che lui ha colto aprendo il libro a caso. Ci è arrivato gradualmente, riga dopo riga, una pagina dietro l’altra facendo sforzi immani per dare un senso a ogni parola. Fino a immaginare sé stesso all’ombra di un salice piangente, proprio come sembra fosse solito farlo il discepolo del filosofo romano. Ci pensa su, il giovane Federico, e sorride amaro.
Chi l’avrebbe detto, doveva farsi pizzicare e poi sbattere in un carcere minorile per mettere per la prima volta piede in una biblioteca, e scoprire che scegliersi un libro da leggere è un’emozione. Non che non ne avesse mai avuto prima uno tra le mani, ma quelli della scuola non contano, non li ha voluti lui e poi non erano libri da leggere ma da studiare.
Seneca, lui l’aveva già sentito nominare. Probabilmente alla televisione, passando da un canale all’altro è inciampato su un programma culturale. Quando poi ha visto quel nome scritto sul dorso di un volume rilegato, lo ha tirato fuori dallo scaffale e, guardingo come se stesse commettendo un’infrazione, ha cominciato a sfogliarlo. Al sentirsi osservato, si è comportato come se fosse proprio quello il libro che era venuto a cercare. Ricompensato dallo stupore sulla faccia del bibliotecario, ha firmato il registro e se n’è andato trotterellando con il suoSeneca sotto il braccio. Non pensava che l’avrebbe davvero letto, tanto qui nessuno sarebbe venuto a chiedergli che diceva. Chissà poi cosa gli ha preso, dopo averlo scorso un po’ a caso, ha avuto l’impressione che quel tale della Roma antica stesse parlando proprio a lui. Allora è andato a sdraiarsi e ha ricominciato d’accapo.
Ma Seneca non si lasci leggere impunemente, dopo di lui perfino i colloqui con la psicologa non sono più gli stessi: lei non fa più domande inutili e lui non deve più cercare le risposte che lei vuole.
«Insomma, ci si sente n po’ confusi di fronte a una cosa simile», risponde infine Federico. «Voglio dire, di che materia sarebbero fatti allora i nostri dei? Perché a me non sembra che ci siano di grande aiuto.»
La psicologa inclina leggermente il busto per osservarlo meglio. Si sta chiedendo se i tratti sul volto del ragazzo, quell’espressione che fin qui lei aveva convenzionalmente associato a un temperamento bellicoso, non fossero invece segnali di una ponderata quanto sorprendente fermezza. Non è la prima volta che si deve ricredere su un giudizio frettoloso, e poi cambiare radicalmente tattica di approccio. Ma raramente questo accade dopo i primi colloqui e, comunque, mai a causa di una lettura miracolosa. La psicologa è combattuta tra la diffidenza e l’ammirazione; sono così rari i giovani pazienti che si interessano alle questioni culturali, figuriamoci in un classico dello stoicismo. Federico è intraprendente ma, come spesso è il caso tra i giovani reclusi, è anche tendenzialmente manipolatore.
«Di certo c’è che non ti sei scelto un libro d’intrattenimento. Credo che Seneca si riferisse al rapporto tra Spirito e libertà interiore, a sua volta dato dall’equilibrio che si stabilisce tra la spinta della natura e la vigilanza della ragione. Ma tu, come credi che potrebbero esserti di aiuto i tuoi “dei”?»
“Togliermi da questo inferno” è la prima risposta che gli viene in mente, l’istante prima di chiedere permesso alla ragione. Con il libro che gli scotta tra le mani, Federico cerca parole più sensate. Vuole il senso della formula, o almeno un aggettivo dotto per addolcire un desiderio di libertà troppo grezzo, vergognosamente naturale. Ma per quanto si sforzi di pensare ad altro, la parola libertà è scolpita a caratteri di fuoco sulla sua fronte.
Non era esattamente questo che voleva dire. È cola della psicologa che invece di spiegargli pare che ce la metta tutta a complicare ancor più le cose. E adesso si mette a guardarlo in quel modo, con quella punta di sospetto che gli punge l’anima e ogni volta lo fa balzare in piedi, pronto a sbattere la porta. Liberarsi delle passioni, se lo ripete mentalmente, dovrebbe anche voler dire vincere la paura. Federico questa volta non si scollerà dalla sedia. Vuole sapere se non ci ha mai capito niente, ed è questa la causa di suoi guai, o se non c’è proprio niente da capire, tanto è della stessa divina argilla che sono fatte tutte le prigioni. Al formulare questo pensiero, Federico entra in uno stato di esaltazione, è sicuro di essere sul punto di scoprire qualcosa che gli cambierà la vita ma, nel timore di confondersi, di fare la solita misera figura, si limita a sbuffare:
«Ma che c’entra, non l’ha detto lei che era solo un modo di dire? Comunque questo qui – fa puntando il dito sul volume – ha scritto queste cose quasi all’epoca di Cristo. Vuol dire che è già da un pezzo che ce la passiamo male».
La smani ardente negli occhi del ragazzo rischia di dare al colloquio una piega sconvenevole. La psicologa non si aspettava un’osservazione simile, ma non un tremito tradisce la sua sorpresa. Avrebbe dovuto intuirlo che stava intervenendo un fattore nuovo, l’elemento destabilizzante, e introdurre sin da subito un argomento che fungesse da filtro. Perfino in quel suo rimanere inerte si sente qualcosa in movimento, come se quanto da lui appena detto non fosse che l’apice di un pericolo sommerso.
Se male interpretato, Seneca parrebbe offrire agli incauti comodi argomenti assolutori, ed è perciò che lei ha creduto di sapere ciò che poteva attrarlo in quel libro. Ma ora non è più sicura. Pur percependo in lui il solito velo di asprezza, nei suoi occhi è però affiorato un mondo ombroso. Come se, stanco di rivolta, Federico stesse parlando per la prima volta alle sue paure vere. Ha fatto il balzo e adesso, in bilico sul bordo dell’abisso, sta scoprendo il fondo di sé stesso. La psicologa trattiene il fiato, non ha mai visto il ragazzo così esposto, tanto che basterebbe un soffio a farlo precipitare.
Federico oscilla ma non cade, si è aggrappato al ricordo di un bambino che corre libero su un prato. Nel cuore ha un giardino di speranza; più lontano nella mente, l’eco del richiamo di sua madre. È lui, l’anima sapiente che corre dietro a un fiore che sboccia solo un giorno prima di morire. Quanto basta per prendere coscienza di essere una creatura libera, e ragionevole. Ci voleva un gran libro su cui inciampare, per scoprire che la felicità è modellata anch’essa con la stessa argilla degli antichi dei.
Federico solleva lo sguardo dai suoi fondali per posarlo sulla dottoressa attonita. È la prima volta che ha per lei uno sguardo di gratitudine. Vorrebbe dirle con parole sue che questo sarà il colloquio che gli resterà in mente per sempre. Sarà anzi l’unico colloquio che avranno mai avuto. Un pensiero che lui riassume in un sorriso, lasciando alla sua voce appena le parole:
«Ho riflettuto un po’, come trattenendo qualcosa ma non so che dire. Un grand’uomo Seneca, mi dispiace per lui.»
La psicologa ha aperto la bocca per ribattere, la richiude subito.
«C’è da dire che neanche a lui è andata bene, si è suicidato. Ci sono persone che devono correre troppo davanti a tutti e, quando si voltano indietro, non c’è più nessuno che le segue, o almeno così lo credono. Ma grazie ai silenzi che lei mi ha concesso, io spero di fermarmi prima, per non perdere il ricordo di chi ero e né la speranza di chi posso diventare.»
La psicologa torna a respirare, trattenendo un sorriso triste che raccoglie in sé tutte le promesse che non potrà più mantenere.
(Illustrazione di Nico Maccentelli)