di Paolo Cacciari*
*pubblicato su Comune-info
Con i dati Ispra sul consumo di suolo in Italia, indignarsi per la deforestazione delle aree pluviali amazzoniche è pura ipocrisia: Bolsonaro è tra noi. L’unica strategia utile è riservare il 50 per cento del suolo all’evoluzione naturale degli ecosistemi. Nel frattempo, a scopo precauzionale, basterebbe una leggina di una riga…
L’uso che viene fatto del suolo naturale è il più evidente, diretto e immediato indicatore del tipo di civilizzazione. Il sottile strato di superficie che ricopre la faccia della Terra è la fonte primaria della riproduzione di ogni forma di vita. In un pugno di terra vivono miliardi di microorganismi in simbiosi con la vegetazione. Le piante regolano i cicli idrogeologici, mitigano le temperature, “catturano” e fissano il carbonio e le altre sostanze che rendono la terra fertile e abitabile. Vengono chiamati “servizi ecosistemici” che la natura dona gentilmente e gratuitamente all’umanità. La varietà e la numerosità delle specie (biodiversità) dipendono dalle condizioni del suolo. Da qui l’importanza dei dati annualmente pubblicati dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra, Rapporto sul consumo di suolo 2020), definito da Luca Mercalli un “appuntamento doloroso”.
Secondo gli studi della Intergovernment Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Service (IPBS) nel suo ultimo Global Assessment Report il 75 per cento degli ecosistemi terrestri e il 65 per cento di quelli marini sono stati modificati in modo significativo. L’Italia è tra i paesi peggiori in Europa. Nonostante la costante diminuzione degli abitanti, solo nell’ultimo anno sono andati perduti – “consumati” – quasi cinquantotto chilometri quadrati di terreno naturale, agricolo o semiagricolo; sbancati, edificati, permanentemente impermeabilizzati. Le più colpite sono le zone costiere, le aree urbane e periurbane – con la scomparsa delle poche aree verdi interne alle città – soprattutto nella Pianura padana. Le classifiche del “consumo” del suolo vedono i primati di Veneto e Lombardia, tra le Regioni, e di Roma, Cagliari e Catania tra i comuni.
Dal 2012 ad oggi in un terzo del Paese è aumentato il degrado del territorio. Una autentica follia anche solo considerando i danni economici indiretti, i “costi nascosti” conseguenti all’erosione del “capitale naturale” causata dall’abbandono di ogni politica di pianificazione urbanistica che espone il territorio a rischi idrogeologici, distrugge risorse agricole e paesaggistiche. La mancanza di aree verdi e alberate nelle città crea “bolle di calore”. La scomparsa delle aree umide e la interruzione dei “corridoi ecologici” (dovuti alle barriere create dalle grandi opere infrastrutturali) distrugge gli habitat naturali e compromette la biodiversità. Se ci aggiungiamo le pratiche agricole industrializzate e chimicizzate otteniamo la perdita di fertilità e delle basi produttive agricole in un paese che è già importatore netto di beni alimentari. Le aree a destinazione agricola si sono dimezzate nell’arco di cinquant’anni. Ma, prima di tutto, andrebbero calcolati i costi sanitari. Alcuni ricercatori nel corso dell’epidemia di Covid19 si sono chiesti come mai l’Italia sia stata la prima e la più colpita (Why Italy First? Health, Geographical and Planning Aspects of the COVID-19 Outbreak, B.Murgante, G.Borruso, G.Balletto, P.Castiglia, M.Dettori). Tra le possibili cause della diffusione e letalità del virus hanno riscontrato: l’uso del suolo, l’inquinamento atmosferico, il clima e condizioni meteorologiche.
Con questi dati di casa nostra, indignarsi per la deforestazione delle aree pluviali amazzoniche è pura ipocrisia. Bolsonaro è tra noi! Fumo negli occhi sono anche i solenni impegni sottoscritti con l’Agenda 2030 dell’Onu sullo Sviluppo sostenibile da raggiungere anche con l’azzeramento del consumo netto di suolo tramite demolizioni e rinaturalizzazioni, i cui obiettivi, calcola Ispra – “sulla base delle attuali previsioni demografiche, imporrebbero un saldo negativo del consumo di suolo. Ciò significa che, a partire dal 2030, la ‘sostenibilità’ dello sviluppo richiederebbe un aumento netto delle aree naturali di 316 km2 o addirittura di 971 km2”.
Se vogliamo mettere al riparo la biodiversità dalla “Sesta estinzione di massa” (la quinta fu quella dei dinosauri, sessantacinque milioni di anni fa, provocata da una meteorite) l’unica strategia utile è quella indicata dall’etnologo conservazionista Edward Osborne Wilson con la strategia Half Earth: riservare il 50 per cento del suolo all’evoluzione naturale degli ecosistemi. Nel frattempo, a scopo precauzionale, basterebbe una leggina di una riga: “Sono vietati i cambi di destinazione d’uso delle aree inedificate. Pertanto i diritti edificatori decadono”. Non c’è Green Deal se non parte da qui.