di Giovanni Iozzoli
È da poco uscito per Monitor Edizioni Le fragili alleanze (pagg. 214, euro 20), un libro di Luca Russomando che cerca di gettare nuova luce su dinamiche sociali e domande politiche irrisolte della nostra storia recente. Oggetto della riflessione di Russomando è il rapporto tra ceti popolari e “avanguardie politiche” (nel senso più largo del termine), indagato nel corso del suo sviluppo, dentro al contesto napoletano, tra la metà degli anni 60 e il decennio successivo.
Napoli e la Campania rappresentano un punto di osservazione privilegiato, per uno studio di questo tipo, proprio perché il calderone ribollente della “malamodernizzazione” del nostro sud, squaderna all’osservatore attento tutte le questioni fondamentali in modo quasi didascalico: la figura sociale del sottoproletariato, il ruolo storico della classe operaia, le elite intellettuali progressiste, il rapporto tra società e fabbrica, tra centro e periferia, tra modernità metropolitana e arcaismi plebei. Per aggirarsi dentro questo intrigo di contraddizioni, Russomando predilige il metodo dell’intervista orale: molti protagonisti, attraverso il racconto delle proprie storie di vita – intelaiate in un’adeguata contestualizzazione storico-politica -, disegnano traiettorie biografiche che definiscono la cartografia dei conflitti di un decennio formidabile.
Dai gruppi di giovani che frequentano le baracche negli anni 60 fino alle lotte per la casa nelle nuove periferie; dai comitati di quartiere alle scuole popolari, passando per i primi contatti tra studenti e operai nel ’68 e alle battaglie per la salute in fabbrica e nei rioni popolari che coinvolgono medici e altre figure professionali nei primi anni settanta: è un cammino tortuoso, accidentato, eppure capace di incrinare le barriere sociali ancora solide nella Napoli di quel periodo, confutando con la pratica e l’esempio la vulgata “separatista” diffusa negli ambienti della sinistra istituzionale: da una parte la “fabbrica”con i suoi quadri produttivi, affidabili e disciplinati, dall’altra il “vicolo” con il suo marasma incontrollabile di pulsioni e desideri. Più di uno, tra gli intervistati per questa ricerca, l’ha definita “la meglio gioventù napoletana”, con lo sguardo soprattutto rivolto al 1968. In realtà, se l’attivismo degli anni Sessanta riguarda cerchie ristrette, contraddistinte dall’agiatezza economica e dal retaggio culturale delle famiglie d’origine, la mobilitazione giovanile cresce di numero e di ambizione già alla vigilia di quell’anno cruciale, per poi espandersi verso ambiti anagrafici, sociali, territoriali sempre più ampi, sebbene caratterizzata da una forte frammentazione e, di conseguenza, da una costante difficoltà a influire sulle scelte che riguardano le trasformazioni della città. (pag.15)
Questi frammenti di vita sono divisi per sezioni – baraccati, operai, studenti, bambini, disoccupati -, e rappresentano altrettanti capitoli dedicati alle aree di crisi e rivoluzionamento sociale che il libro racconta. In particolare, la memoria degli studenti napoletani pre-68, poco indagata e raccontata, evoca importanti suggestioni storiche. Nel cruciale decennio 60, folti gruppi di studenti universitari di origine borghese – provenienti dal volontariato cattolico ancora “preconciliare”, o dal mondo del radicalismo laico – convergono verso le aree di più grave sofferenza sociale della metropoli. Napoli in quegli anni è ancora una città di baracche e sacche da terzo mondo: l’intervento di queste “avanguardie borghesi” – molto centrato sul ruolo educativo, la cura dell’infanzia, la costruzione di vertenze amministrative sul tema casa/servizi – prova a sanare un trauma storico, quello della rivoluzione del 1799: quando i destini dell’intellighenzia illuminata e i bisogni delle masse plebee si separarono drammaticamente. Quasi a voler ricomporre quella ferita storica e colmare la voragine esistente tra i ceti popolari e la borghesia progressista, questi giovani costruiscono relazioni e progetti dentro mondi a loro lontanissimi. Alla fine del decennio, i cattolici troveranno posto dentro la Chiesa Conciliare, mentre i settori culturalmente di sinistra, nuoteranno nel mare magnum del 68/69 universitario.
Il destino sociale di queste nobili avanguardie borghesi non viene taciuto – a proposito di “fragili alleanze”: quelle di quei giovani sono spesso biografie di successo, studi prestigiosi, carriere accademiche importanti, cooptazione nella pubblica amministrazione; irrimediabilmente, tali destini separeranno quei ragazzi dalle masse “plebee” verso le quali, confusamente, avevano lanciato ponti di conoscenza nel decennio precedente. Saranno le avanguardie che più propriamente si collocheranno sul terreno del marxismo, a continuare l’opera di educazione politica e sociale del sottoproletario: arrivando finalmente a mettere in discussione anche la vigenza stessa di tale categoria storica, figlia delle diffidenze ataviche del movimento operaio verso “plebi, popolino e classi pericolose”
Nel libro si ritrovano le storie rimosse dei ragazzi di Don Vesuvio – missionario sociale in mezzo agli scugnizzi del dopoguerra; l’istituzione della Mensa Bambini Proletari e le prime esperienze di mutualismo sanitario di quartiere, calate dentro l’emergenza epidemica del colera. E ancora, le vicende più propriamente politiche del Centro Coordinamento Campano, della Sinistra Universitaria, del Gruppo Gramsci; e l’epopea tragica dei Nap, la costruzione del polo industriale di Pomigliano e l’onda lunga dei movimenti dei disoccupati organizzati. Sono storie che si sovrappongono, cicli che si aprono e si chiudono repentinamente: il racconto di un impegno crescente, fondato sulla prassi, sull’esperimento sociale, sull’attraversamento di territori inesplorati che erano stati abbandonati, fino ad allora, all’egemonia del laurismo prima e del clientelismo gavianeo poi.
Leggere la densità delle storie politiche di tanti/e attivisti e/o militanti, fa impressione e suscita interrogativi: di tutto quel patrimonio, cosa si è effettivamente sedimentato nella memoria civile della città? Che impatto ha avuto questo impegno sulle istituzioni, sulla governance, sulla democrazia reale? Lungo quali tornanti si sono disperse le ingenti forze soggettive di cui racconta il libro, che già nella prima metà degli anni 80 parevano scomparse? E dove, invece, hanno depositato semi che sono leggibili nel nostro presente – pensiamo alle esperienze di mutualismo e autogestione della Napoli contemporanea?
Resta aperta la domanda di fondo, suggerita dal titolo che Russomando ha scelto: perché le “alleanze” si rivelarono così fragili? È una questione di inadeguatezza politica delle soggettività, incapaci di elaborare un modello alternativo all’“assimilazionismo” istituzionale del PCI? O di una condizione (irreversibile) della modernità, a cui bisogna rassegnarsi, quella di legami sociali fragili, di coalizioni provvisorie, di movimentazioni repentine e fugaci, che ci costringono ad una microfisica del conflitto, ormai privato dell’orizzonte dell’utopia socialista? L’autore non dà risposte, ovviamente, ma con un libro di così alto profilo storiografico e politico, offre senza dubbio un contributo ricco e importante: soprattutto a beneficio delle giovani generazioni che continuano una pratica sociale e politica popolare e antagonista, dentro una città sempre in bilico tra lo spettro del disastro e il mito della rinascita.