di Franco Pezzini
(Continua l’esame del racconto di Arthur Conan Doyle Lo specchio d’argento: qui la prima puntata)
2. Magia degli specchi, psicometria, optografia
Comunque il nostro analista contabile (il cui nome non scopriremo mai, a svelarlo implicitamente come un’altra faccia dell’autore) va avanti col lavoro. E il 13 gennaio registra, intrigatissimo, che all’una di notte stava chiudendo i libri per buttarsi sul letto quando lo sguardo gli era caduto sullo specchio: sul cui lato sinistro la misteriosa donna adesso era visibile, chiaramente e in ogni particolare, in tutta la sua passione e la sua pena. È bellissima e piuttosto giovane, forse solo la fronte troppo alta che però suggerisce forza e autorevolezza; sul capo ha una cuffietta di trine bordata di perle. Ma sotto le palpebre pesanti, gli occhi “sono stupendi: così grandi, così scuri, così colmi di un’incontrollabile emozione, di rabbia e di orrore, in lotta con la volontà di controllarsi che la trattiene dalla disperazione! Le guance sono pallide, le labbra sbiancate dall’agonia”: è seduta, ma si protende in avanti “folle di orrore”. Una figura indistinta le è accovacciata accanto, quel che pareva un nodo di nastri bianchi è invece una mano avvinghiata al suo abito di velluto nero (badiamo a questo particolare): la mano di un uomo terrorizzato, dietro una nuvola confusa di persone in movimento. Infatti “Non è semplicemente un quadro che vedo”, ma “una scena vivente”. Anzi, “Guardavo fissamente come fossi stato a teatro”… poi però la nebbia si dirada. Inevitabile per il Nostro domandarsi quale sia “lo spaventoso fatto che ha lasciato lì la sua impronta, facendo sì che oggi, in un’altra epoca, non appena lo spirito di un uomo sia sufficientemente provato, egli possa essere consapevole della sua presenza”. È qualcosa che c’entra coi nervi, perché se fissa lo specchio in condizioni rilassate non vede niente…
Il medico insiste che sospenda il lavoro per un giorno e lui acconsente, in fondo è abbastanza avanti. Ne approfitta per studiare la misteriosa scritta sulla cornice, a guardar bene s’intravede uno stemma con quelle che sembrano tre punte di lancia. E in effetti il giorno dopo, 14 gennaio, si sente in forma. Il dottore a questo punto è curiosissimo: e lo siamo anche noi, anche se occorre che ci soffermiamo su alcuni aspetti della strana vicenda.
È ormai chiaro che Doyle sta lavorando su un tema antico quanto il mondo, quello di situazioni (che potremmo definire per semplicità) “magiche” legate agli specchi. Gli uomini hanno sempre guardato agli specchi con un atteggiamento di stranita curiosità: un oggetto in grado non solo di raddoppiarci ma di farlo in chiave di inversione, appunto di opposizione speculare, e che rimanda a un’intera costellazione di suggestioni sul doppio, i misteriosi componenti dell’identità (ciò che vediamo riflesso secondo alcuni sarebbe l’anima), la presenza eventuale di un intero mondo oltre lo specchio nel segno dell’inversione e del paradosso, eccetera. Di qui l’importanza del tema specchio nel folklore e poi in letteratura: citavo il racconto Tè verde, che Le Fanu accorperà in una raccolta tutta sul tema di doppi, raddoppiamenti e oscure rifrazioni intitolata appunto In a Glass Darkly (1872, a richiamare liberamente il riferimento di I Corinzi 13, 12 nella versione di Re Giacomo: “For now we see through a glass, darkly…”). Se la letteratura fantastica offre infinite declinazioni del motivo di stranezze e patologie dell’identità, è chiaro che lo specchio come referente almeno simbolico e metaforico costituisce una realtà abbastanza costante.
D’altra parte Doyle conosce il concetto di psicometria (nell’accezione paranormale del termine), detta anche psicoscopia o token-object reading. La parola è stata coniata nel 1849 dal medico americano Joseph Rhodes Buchanan, a proposito di quell’incisione sugli oggetti – come su un disco – dagli eventi di cui sarebbero protagonisti i possessori: un esempio può trovarsi nella cupa vicenda di un altro racconto sovrannaturale di Doyle, The Leather Funnel (L’imbuto di cuoio, 1903). Possiamo non inoltrarci in questa sede nell’interpretazione del fenomeno, su cui i parapsicologi offrono spiegazioni varie – per esempio rapportandolo a eventi traumatici che impregnerebbero un ambiente o appunto un oggetto. Ma se questo fosse uno specchio, come si “comporterebbe”? Di qui la ripresa in chiave fantastica, letteraria, dello spunto.
C’è però un terzo aspetto che merita d’essere ricordato. L’idea di uno “spaventoso fatto che ha lasciato lì la sua impronta” e che viene rilevato per una sollecitazione di nervi finisce col richiamare all’oculista Doyle un’idea abbastanza diffusa nel mondo tardo-ottocentesco. Come aveva teorizzato il fisiologo tedesco Willy Kühne, meglio conosciuto per il conio della parola enzima (1878) e per una serie di studi importanti su muscoli, nervi, digestione e sulla vista, l’ultima immagine colta prima della morte sarebbe “registrata” dall’occhio, tramite la rodopsina delle cellule a bastoncello della retina umana (optogramma); e sarebbe possibile visualizzarla/recuperarla (optografia) utilizzandola anche a fini forensi. Cosa tentata in più occasioni, il tentativo più noto – su una o due vittime – sarà quello di risalire così all’identità di Jack the Ripper, anche se a un certo punto risulta chiaro che il sistema non funziona. L’optografia compare in letteratura abbastanza presto, con il racconto Claire Lenoir di Auguste Villiers de l’Isle-Adam (1867) rimaneggiato poi nella raccolta Tribulat Bonhomet (1887), e più tardi nel racconto di Rudyard Kipling At the End of the Passage (1891): ma in entrambi i casi il tema è ricondotto a un piano metafisico, mentre per esempio Jules Verne ne richiamerà la dimensione (presuntamente) scientifica nel romanzo Les Frères Kip (1902). Qui nel racconto di Doyle – che sicuramente conosce il tema – il richiamo sarebbe solo metaforico, ma è suggestivo ipotizzare che l’autore lo prenda in considerazione: è lo specchio a fungere da occhio, impressionato (non da un’immagine fissa, ma) da un dramma consumatosi di fronte e riattivato tramite i nervi dello spettatore (sia pure non quelli ottici) in chiave optografica.
Torniamo però al Nostro, che riesce a lavorare per tre notti senza novità: il giorno di riposo sembra servito. Nel frattempo dai libri contabili ha scoperto un sacco di mascalzonate dell’amministratore infedele. Ma il giorno dopo, 18 gennaio, l’accelerazione per chiudere entro la data prefissa reca “Mal di testa, tic nervosi, annebbiamenti alla vista, le tempie scoppiano”: e insomma la visione ritorna. Peccato si interrompa sul più bello, ma stavolta è stato possibile vedere ancora di più. L’uomo accovacciato appare altrettanto dettagliato quanto la dama a cui si appiglia, è un tipo piccolo e scuro vestito di rosso, spaventatissimo, e stringe invano un minuscolo pugnale di cui non sa servirsi. Ora poi si vedono anche le figure sullo sfondo:
Volti feroci, barbuti e scuri, prendono forma nella nebbia. Vedo un essere spaventoso, uno scheletro vivente, le guance incavate e gli occhi infossati nella testa. Anche costui ha in mano un coltello. Un uomo alto, molto giovane, dai capelli biondi, dal volto torvo e duro sta in piedi sulla destra della donna. La bellissima dama alza gli occhi su di lui con sguardo supplichevole. Altrettanto fa l’uomo rannicchiato accanto a lei. Questo giovane pare essere l’arbitro del loro destino. L’uomo accovacciato si avvicina ancora di più alla donna, nascondendosi fra le sue gonne. Il giovane alto si china e tenta di strapparlo da lei. Tutto questo ho visto stanotte prima che lo specchio ridiventasse limpido. Non saprò mai come finisce questa storia? Non si tratta di semplice immaginazione, di ciò sono più che certo. Questa scena è accaduta in un luogo, in una determinata epoca e l’immagine si è riflessa nell’antico specchio. Ma dove?… Quando?…
In sostanza il narrante ci sta già offrendo una spiegazione di tipo psicometrico, e resta dubbio solo il contenuto specifico della scena in continuo ritorno. Del resto anche di certe apparizioni classiche di fantasmi si racconta che ripropongano compulsivamente la stessa scena, come registrata in qualche modo nell’ambiente.
3. Black Maria
20 gennaio: l’analista si prepara per l’ultima tirata notturna di lavoro. “Sento una tensione, un senso di costrizione intollerabile che mi dice che qualcosa deve succedere”, però deve riuscire a chiudere entro quella notte… Poi cala il silenzio.
Che continua per quasi tre settimane, fino al 7 febbraio: quando il Nostro registra che ce l’ha fatta – le carte sono in mano agli avvocati, la caccia è finita. Ma ora sta scrivendo nella clinica privata del suo medico, dopo il crollo del sistema nervoso la notte del 20 e un’amnesia completa fino a tre giorni prima, quando si è ritrovato nella casa di cura. Cosa è accaduto?
Nella notte fatale il poveretto si sentiva scoppiare la testa, eppure per ore e ore s’era sforzato di controllare le colonne di cifre senza alzare gli occhi: altrimenti, sapeva bene, sarebbe stata la fine del lavoro. Ma sapeva anche “che per tutto il tempo nello specchio stavano succedendo cose meravigliose. Me lo diceva ogni nervo del mio corpo”: e quando finalmente alza lo sguardo, con la testa in fiamme, vede.
Lo specchio nella sua cornice d’argento era una specie di palcoscenico meravigliosamente illuminato, sul quale si stava svolgendo un dramma. Non vi era più nebbia. La tensione dei miei nervi aveva provocato questa stupefacente chiarezza. Ogni espressione, ogni movimento era nitido come in una scena di vita reale. Strano come io, uno stanco contabile, l’essere più prosaico della razza umana, davanti a me i libri mastri di un astuto delinquente, debba essere stato scelto fra tutti gli uomini per contemplare una simile scena!
Cioè sempre la stessa, ma il dramma è andato avanti: il giovane alto che trattiene la donna infuriata, l’uomo rannicchiato trascinato via, gli altri che lo massacrano a pugnalate, il sangue che letteralmente zampilla, sempre di più… poi il suo ultimo scalciare, e la bocca della donna spalancata in un grido silenzioso. Tutta la stanza prende a girare attorno, il pavimento pare sprofondare. Ritrovato l’indomani dalla padrona di casa, il Nostro si sveglia appunto in clinica.
Ma badiamo alle parole che ha utilizzato. In precedenza si notavano quelle tende molto teatrali, poi il Nostro ammetteva di aver guardato fissamente la strana visione come a teatro; ora ci dice che “Lo specchio nella sua cornice d’argento era una specie di palcoscenico meravigliosamente illuminato, sul quale si stava svolgendo un dramma”. E soprattutto “che per tutto il tempo nello specchio stavano succedendo cose meravigliose”. Cose meravigliose: consideriamo che il racconto è del 1908, e a quell’epoca non c’erano solo psicometrie e optografie, ma per esempio una novità tecnologica che ci delizia ancor oggi. Quindici anni prima (1893) negli Stati Uniti Thomas Edison installava il primo studio cinematografico per girare filmati per il kinetoscopio: lo studio era detto Black Maria (pronunciato Black Mària), in quanto angusto come i furgoni di polizia chiamati Black Marias e dipinto di nero all’interno. Lo studio verrà dismesso nel 1901 e demolito nel 1903, perché nel frattempo sono cambiate le tecniche, Edison non ha depositato il brevetto del kinetoscopio e le imitazioni si sono moltiplicate. Non entriamo nel merito della genesi della settima arte, ma il cinematografo dei fratelli Lumière si innesta su questa storia, e il 28 dicembre 1895 si ha la prima proiezione cinematografica vera e propria: di lì “la scena vivente” incontrerà un successo straordinario. Sono i tempi di Georges Méliès, con le sue storie piene di magia e allegre persino nel trattare temi macabri; ma iniziano anche a vedersi brevi siparietti storici su toni drammatici. Già del 1895, con release il 28 agosto, quindi vari mesi prima dello spettacolo dei Lumière, Alfred Clark aveva girato per Edison un corto di un minuto intitolato The Execution of Mary, Queen of Scots – in sostanza sulla decapitazione di Maria Stuarda –, con il primo effetto speciale della storia del cinema nella sostituzione all’attrice di un manichino al momento giusto. Personaggi e vicende ad alta drammaticità del resto piacciono moltissimo: già il teatro ne ha fatto saccheggio per secoli, e il cinema confermerà la tendenza. Per dire, la Edison Company tornerà sul personaggio della sfortunata regina di Scozia varando nel 1913 un film Mary Stuart in tre rulli diretto da Walter Edwin sulla base della tragedia di Friedrich Schiller. Alla luce insomma del clamore d’epoca per la nuova tecnica, il tono lieve con cui la narrazione di Doyle contrappunta il dramma misterioso in scena finisce inevitabilmente col far pensare al cinema. Qualcosa di cui può fruire e godere anche “uno stanco contabile, l’essere più prosaico della razza umana”… E in qualche modo prefigura la stessa televisione che recherà sollievo la sera a un pubblico altrettanto stanco e prosaico.
9 febbraio, sono passati altri due giorni: e finalmente il Nostro può narrare tutto al medico, che finora non l’aveva permesso. Interessatissimo, ma anche sospettoso, il dottor Sinclair gli chiede se possa identificare l’episodio storico cui ha assistito, ma il paziente non è assolutamente in grado. Sinclair promette allora che porterà alcuni appunti quella sera: quando arriva finalmente con “vari volumi ammuffiti”, che il Nostro potrà consultare con comodo. E poi reca le sue deduzioni: la scena cui il contabile ha assistito non può che essere – per dettagli su dinamica e costumi dei personaggi – “l’assassinio di Rizzio da parte dei nobili scozzesi alla presenza della regina Mary […]. La descrizione da lei fatta della donna è assai precisa. La fronte alta e le palpebre pesanti accoppiate a una grande bellezza, difficilmente potrebbero riferirsi a due donne”. Davide Rizzio o Riccio, musicista piemontese, nato attorno al 1533 a Pancalieri, forse autore del brano che conosciamo come il Valzer delle candele, forse spia del papa (la Storia è piena di forse) era divenuto segretario privato – forse troppo privato – guarda caso proprio di Maria Stuarda. Ed era stato massacrato il 9 marzo 1566 da un gruppo di nobili protestanti sodali del secondo e poco amato marito di Maria, Henry Stuart, duca d’Albany, meglio noto come Lord Darnley, cioè il giovane alto della visione. Quanto all’“uomo dall’espressione feroce e dagli occhi infossati era Ruthven, appena rimesso da una lunga malattia. Ogni particolare corrisponde”. Le stesse presunte tre punte di lancia che parevano graffite sulla cornice possono riconoscersi per i gigli di Francia: Mary ne era stata regina (come moglie in prime nozze di Francesco II di Valois) e lo specchio doveva appartenere a lei. La scritta “Sanc. X. Pal.” significava Sanctae Crucis Palatium, cioè il Palazzo della Santa Croce, Holyrood (anglicizzazione dello scozzese Haly Ruid, appunto Santa Croce) a Edimburgo, già monastero e poi residenza dei sovrani di Scozia. In una delle sue stanze era stato appunto ammazzato Rizzio, e dal relativo arredamento doveva venire lo specchio. Quanto al motivo della visione, il Nostro era semplicemente “in una condizione mentale idonea a ricevere l’impressione […]. Lei ha avuto un’esperienza unica ed è riuscito a liberarsene”, conclude il medico. Mi auguro che non si metterà mai più in condizioni di doverne affrontare una analoga”. E così termina questo delizioso racconto: ma non la nostra analisi, perché lo scrittore sornione ci imbandisce su un piatto d’argento una storia persino più sostanziosa di quanto potessimo immaginare.
Colpiva per esempio il terribile ritratto tra i congiurati di “un essere spaventoso, uno scheletro vivente, le guance incavate e gli occhi infossati nella testa” a capo del gruppo degli assassini: Sinclair la sbrigherà un po’ frettolosamente, l’“uomo dall’espressione feroce e dagli occhi infossati era Ruthven, appena rimesso da una lunga malattia”, per la precisione Patrick Ruthven, terzo Lord Ruthven, a capo del gruppo di assassini che contava anche suo figlio William. Il fatto è che nell’Ottocento per chi si occupa di letteratura fantastica Ruthven è anzitutto il prototipo del vampiro, dal famoso racconto di Polidori ispirato a un tema di Byron e costruito a ricalco della maschera byronica: anche se Doyle si attiene al dato storico, sottotesto la descrizione come mostro sembra un gioco letterario. Questo Ruthven omonimo del primo grande vampiro inglese non solo assomiglia allo scheletrico vampiro Varney del celeberrimo penny dreadful – cioè il secondo grande vampiro inglese – ma si specchia come l’epigono Dracula non sarà in grado di fare, sia pure nell’ambito della stessa costellazione simbolica sugli specchi.
Un altro dato riguarda la provocazione offerta dal narrante “Non è semplicemente un quadro che vedo”. Qui infatti si parla di figure in movimento: ma è possibile che Doyle stia lavorando su immagini figurative, incisioni o dipinti. I particolari della situazione descritta – Mary a sinistra, vestita almeno parzialmente di scuro, trattenuta da Lord Darnley e agitata da sconvolgimento e rabbia – potrebbero rimandare, tra le tante illustrazioni, a un celebre dipinto di Sir William Allan (1833, National Galleries of Scotland). In effetti la morte di Rizzio è un tema che ha colpito un consistente numero di artisti più o meno noti, e il narrante potrebbe ben conoscere la scena senza rendersene conto: teniamo oltretutto presenti le animosità suscitate dal personaggio di Maria Stuarda nel Regno Unito fino a epoche abbastanza recenti. Il fatto che Sinclair accetti un po’ troppo semplicisticamente il dato di un’ignoranza dei fatti da parte del paziente (laddove invece Doyle cercava di essere scrupoloso sui dettagli degli esperimenti medianici, temendo la frode) lascia alla vicenda quel sapore d’esitazione e d’imbarazzo, di dubbio e di indecidibilità che è proprio del fantastico.
D’altra parte, solo in qualcuna delle raffigurazioni del delitto Maria Stuarda appare vestita di nero, e in genere solo parzialmente. Nelle visioni si sottolinea invece la presenza di un abito di velluto nero: e considerando la già acquisita fama cinematografica del personaggio di Maria presso la Edison Company, sembra almeno intrigante il fatto che lo studio usato fosse detto Black Maria, “Maria la Nera”. Ciò che Doyle sta offrendo è, sottotesto, una metafora del cinema?
Cerchiamo di tirare le fila. Scritto in un momento in cui Doyle è già famoso, in cui si occupa da lungo tempo di paranormale ma non è ancora diventato un missionario dello spiritismo, Lo specchio d’argento pare il punto di osservazione ideale per quella parte della sua opera che non si consuma nella fiction a saghe (Holmes, il brigadiere Gerard, il professor Challenger) ma neppure nel materiale spiritista tout court. A differenza di quest’ultimo, un po’ viziato dal candore con cui Doyle vive la sua svolta di fede (accettando talora per poteri sovrannaturali ciò che si rivela – o si presenta fin dall’inizio – come puro trucco), i racconti di cui parlo grondano di tutta la problematicità, l’incertezza, l’imbarazzo con cui per Todorov si connoterebbe il fantastico. Racconti neppure tutti sovrannaturalistici, perché vi troviamo il poliziesco e l’avventura ma spesso con connotati orridi o bizzarri: dove mistero e divertimento, gioco e paradosso, ironia e disvelamento di realtà altre, apertura della mente e coscienza dei possibili scarti d’illusione s’incalzano di continuo, si provocano, si combinano in una sfida a interpretare la realtà. Racconti che verranno accorpati dall’autore stesso in una serie di antologie, a partire da Mysteries and Adventures (1889) e che in Italia sono apparsi sminuzzati in raccolte improntate all’arbitrio del curatore. Ma alcune sono splendide, come l’ormai storico volume I racconti del terrore e del mistero edito da Mondadori (a partire da un originale The Conan Doyle Stories non meglio identificato in colophon, ma che pare identificarsi nell’omonimo omnibus di 76 storie per i tipi John Murray, 1929) prima nella collana “Opere di Sir Arthur Conan Doyle” nel 1965 e poi in “Oscar” nel 1972. In compagnia di altri otto racconti – quattro “del terrore” e quattro “del mistero” – vi figura a parte, come conclusivo, anche Lo specchio d’argento, cui Karel Thole dedica la straordinaria copertina.
Ma il testo finisce col recare una provocazione più ampia. In generale, dall’Ottocento in avanti – in corrispondenza con l’affermarsi di una lettura romantica della realtà e dunque anche della Storia – si moltiplicano narrazioni, ora di fiction e ora invece con pretese di autenticità, su esperienze di visione diretta del passato: vuoi attraverso tecniche di vario genere (da quelle tradizionali magiche al presunto cronovisore di padre Pellegrino Ernetti), vuoi in forma di fenomeni involontari (sogni, esperienze di reincarnazione eccetera) o anche attraverso la combinazione dei due fronti (per esempio l’emersione di un caso di reincarnazione rivelato attraverso un rituale altrui). Chi parla non entra nel merito della plausibilità di simili storie, del resto troppo variegate per una sintesi come la nostra; tanto più che la reincarnazione può essere a sua volta un dato di fede. Ma al di là delle convinzioni, possiamo limitarci a una considerazione fenomenologica: come il mio specchio vede una rifrazione anzitutto di me che gli sto davanti, così i resoconti di affreschi del passato percepiti in varia forma riflettono – almeno a qualche livello – teatri interiori di chi assiste. Ne evocano la grammatica simbolica, la mitologia e in generale le costruzioni mentali, come nei sogni; ne rivelano dimensioni interiori anche importanti, drammatizzazioni di conflitti, fantasie costruttive e angosce, o persino idee pericolose e nocive. In quest’ottica, lo specchio d’argento può dire parecchio di ciò che il povero analista contabile ha tra le pieghe della sua interiorità, come quei fatali occhi di donna o quella violenza ben nascosta, repressa, che trascolora in fondo nella caccia al lestofante. A emergere in prima battuta è insomma un passato non oggettivo, ma soggettivo, legato all’identità di chi in qualche modo vi si rispecchia e lo “legge”. Ora in un momento come il nostro, in cui la Storia – quella vera, studiata con tutta la fatica e a volte il grigiore dello scavo tra fatti e documenti, a volte trovandoci di fronte a enigmi che possiamo avvicinare solo in forma probabilistica, e sostenuta dalla memoria – viene spesso ignorata, dimenticata o sostituita da uno storytelling un po’ facile che gioca sulle paure e sull’egoismo, riflettere sulla “visione” della Storia e sui rischi di leggerla in chiave puramente soggettiva pare una provocazione utile. E il dubbio stesso che il finale de Lo specchio d’argento ci lascia – l’autore lo volesse o meno, perché un’opera letteraria può spingersi oltre i progetti del proprio autore – è anche un invito a cercarla, quella Storia: per vedere di trarne qualcosa di utile al futuro, con tutta l’umiltà della ricerca.