Durante lo Sherbooks Winter Festival abbiamo avuto modo di conoscere Franco Palazzi, dottorando in Filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019). Collaboratore di Jacobin Italia e Il Tascabile, ha scritto per numerose riviste italiane e straniere. Con nottetempo ha pubblicato La politica della rabbia. Per una balistica filosofica (2021).
Franco Palazzi, sabato 29 gennaio, è stato sul palco del CSO Pedro per il talk Intersezioni e rabbia con Ilaria Leccardi, fondatrice della casa editrice Capovolte, che al tema della “blackness” e alla questione decoloniale dedica gran parte del proprio catalogo.
Innanzitutto, benvenuto Franco tra le pagine di Global Project.
Ad oggi, il tema dei risvolti politici della rabbia risulta essere molto attuale. Accade spesso che il dibattito sulla legittimazione di certi movimenti vada a cadere proprio non tanto sulle pretese di questi ultimi quanto sull’uso o meno della rabbia, che sia programmata o spontanea, all’interno del modus operandi dell’organizzazione che la utilizza. Del resto, una delle argomentazioni più comuni che venivano e che vengono tutt’ora utilizzate per screditare il movimento BLM è proprio quella dell’uso, per taluni eccessivo, della rabbia come strumento per avanzare le proprie rivendicazioni. In virtù di ciò, lei propone quella che definisce balistica della rabbia, una metodologia che risulta esser molto pragmatica e che, tra le altre cose, mira a chiedersi se una rabbia politicamente radicale abbia delle chance di far fronte a possibili vene reazionarie. D’altro canto, come sottolinea lei, la rabbia è “pur sempre un sentimento che contiene una parte ineliminabile di spontaneità”, essenziale per esprimere il disagio ma che comunque potrebbe, in base al contesto, risultare inefficaci. Secondo lei, come si dovrebbe configurare l’uso politico della rabbia all’interno dei movimenti? La rabbia va sempre espressa e non trattenuta in quanto meccanismo evolutivo e funzionale oppure si ha bisogno di una visione più “cauta” e pragmatica, che possa ponderare -mi verrebbe da dire come proietto d’artiglieria- il suo utilizzo in base al contesto e all’obiettivo?
Tra le due alternative che poni quella che mi interessa di più è la seconda, quindi non formulare un invito ad arrabbiarsi purché sia, ma a farlo con una certa intelligenza tattico-strategica che poi, come sostengo nel libro, appartiene ai movimenti e alla prassi prima che alla teoria. Quindi parlare di balistica significa non avere un modello teorico del “buon militante” da applicare nella prassi, ma al contrario partire dalle situazioni concrete in cui la rabbia viene usata con successo per opporsi a determinate forme di oppressione per chiedersi poi quali considerazioni di carattere più generale, anche teorico, se ne possono trarre. Credo sia abbastanza pericoloso assumere la rabbia in una maniera naturalistica, come qualche cosa che debba necessariamente portare a una catarsi, da sfogare in qualsiasi circostanza: conosciamo bene le declinazioni ideologiche di questa visione, dal femminicidio visto come raptus rabbioso irrefrenabile piuttosto a certi tipi di violenza razzista in quanto fenomeni che potrebbero venire spiegati soltanto con gli strumenti della psicologia individuale. La mera naturalizzazione tende a depoliticizzare un tipo di rabbia reazionaria che molto spesso sfocia proprio odio, in un sentimento quasi immutabile di ostilità nei confronti di alcune categorie e, per converso, in difesa di alcuni privilegi. La metafora della balistica aiuta a mantenere un approccio, come dicevi, pragmatico, quasi pragmatistico per usare un termine filosofico. Movimenti del recente passato o del presente come BLM, che tu giustamente menzionavi prima, dimostrano, con buona pace dei loro critici, un ricorso tutt’altro che gratuito, tutt’altro spontaneistico alla rabbia: la mettono al servizio di una precisa agenda politica che poi si traduce in azioni che sono radicali e in alcuni casi “violentemente” tali. BLM è un movimento che per protestare contro la violenza sulle persone nere usa la violenza nei confronti delle cose, ad esempio dell’arredo urbano. Da un lato rifiuta il ricorso alla violenza a livello meramente interpersonale, come fosse una semplice rappresaglia, dall’altro non adotta una strategia non violenta per principio, ma una che usa la violenza contro le cose, ritenendo che quest’ultima sia incommensurabile rispetto alla violenza contro le persone.
Nel suo libro lei distingue la rabbia degli oppressi dalla rabbia degli oppressori. Oggi però sappiamo che l’oppressione non proviene da una sola caratteristica dell’individuo ma è il prodotto dell’intersezione di più fattori che vanno dall’identità di genere, alla classe sociale, all’area geografica eccetera. Il risultato è che non esiste una metodologia univoca per definire un gruppo come oppresso o meno. Non è raro trovare persone che dichiarano, più o meno seriamente, che “la categoria più oppressa di persone sono quelle “normali””. Al di là della retorica dell’espressione, è un dato di fatto che l’oppressione viaggia su binari differenti e anche all’interno dei movimenti di sinistra si fa fatica a trovare un accordo univoco su quale delle forme di oppressione sia più rilevante o se ce ne siano in effetti di più rilevanti di altre. In un contesto così intricato dove anche i movimenti che a noi sembrano più “borghesi”, come quelli di destra, pretendono di legittimare la propria rabbia come oppressi come ad esempio a Capitol Hill, possono esistere distinzioni più formalizzate? E se si, in cosa la rabbia degli oppressi, da una prospettiva di sinistra, si distingue, ad esempio, da quella della piccola classe imprenditoriale, che pur strilla al minimo accenno di regolamentazioni a favore dei lavoratori e delle lavoratrici?
Qui c’è il rischio, sia da posizioni (a volte anche consapevolmente) ideologiche, sia dentro i singoli movimenti che comunque hanno una composizione specifica che rispetto agli assi di oppressione non è mai neutrale, di confondere un approccio intersezionale alle oppressioni con qualcosa di poco materiale. Continua a resistere anche in alcune sacche di movimento la convinzione che estendere un discorso sullo sfruttamento e l’oppressione dalla classe a categorie come genere e razza significhi effettuare una svolta simbolico-culturale. Qui c’è un equivoco, ovvero pensare che questi tipi di oppressione siano immateriali, il che è assolutamente falso, nel modo più violento possibile. Se pensiamo a fenomeni come il femminicidio o a pratiche di violenza razzista oramai plurisecolari, come il linciaggio, che pure vediamo ancora oggi nei paesi cosiddetti occidentali, ci rendiamo conto di come queste siano manifestazioni materiali al massimo livello possibile, che arrivano sino all’uccisione. L’analisi che consente di distinguere ciò che è davvero oppressione da ciò che è la paranoia di un soggetto che non è oppresso ma che sta semplicemente perdendo un privilegio è sempre un’analisi materialista. Avere un approccio materialistico all’oppressione non significa fare del riduzionismo di classe, ma comprendere come, anche a livello di studio e tenendo ben presente la cassetta degli attrezzi delle scienze sociali, si debba partire dalle manifestazioni oppressive più concrete. Se vogliamo fare un collegamento teorico possiamo a Foucault quando ci diceva che il potere va sempre studiato partendo dal suo punto di applicazione, nel luogo di massima distanza dall’enunciazione della norma giuridica che è generale e astratta per sua natura, ovvero dove il potere impatta – e non tanto il potere come categoria monolitica o metafisica, ma in quanto reticolo, in quanto (potremmo dire imprimendo una virata marxiana a Foucault) struttura di rapporti di potere (ri)prodotta dal capitale stesso. Penso per esempio ad autori della tradizione marxista italiana e non solo, come Sandro Mezzadra e Brett Neilson, che nei loro ultimi lavori parlano proprio di studiare il capitale a cominciare da dove “tocca terra”(hits the ground). Il capitale, se vogliamo, è molto più astratto e molto più “culturale” della razza o del genere, eppure nessuno metterebbe in dubbio, perlomeno all’interno di una certa tradizione, che l’oppressione di classe sia materiale. Allo stesso modo gli strumenti del materialismo si possono utilizzare per riflettere sulla materialità delle oppressioni di genere, di razza e di orientamento sessuale. C’è una differenza fondamentale tra un tipo di oppressione che può essere, con un’analisi materialistica, dimostrato tale e un tipo di oppressione che esiste soltanto nella mente di chi la invoca, al massimo come epifenomeno culturale. Un’altra differenza che poi era implicita anche nella tua domanda sta nell’ atteggiamento spesso vittimistico con cui gruppi sociali in realtà molto privilegiati e molto opprimenti si trovano a mobilitare concetti come quello di oppressione. L’approccio che i movimenti sociali radicali hanno nei confronti della rabbia e della presa di parola che ne deriva non è mai un approccio vittimistico, che rimanda a categorie moralistiche, non reclama a gran voce un potere superiore che ripari il torto subito, ma pretende autonomia per farlo da sé. La rabbia radicale rifiuta una riduzione vittimistica, che è una riduzione sempre ideologica, e invece prova ad assumere una posizione attiva nella denuncia della propria oppressione. Siamo qui di fronte a persone che sanno di essere oppresse e subalterne, ma che non per questo si ritengono impossibilitate ad agire, tutt’altro. Questo mi sembra un altro elemento importante per operare una distinzione che tu dicevi tra rabbia degli oppressi e degli oppressori.
Al fine di “contrastare i discorsi dominanti riguardo a quali forme di politica siano legittime…”, lei propone la creazione di una filosofia politica della rabbia, criticandone però il rimando al discorso accademico. In effetti, se penso agli autori e alle autrici che ho avuto occasione di approfondire negli anni, mi viene davvero difficile ritrovare una teoria politica che sia nata “dal basso”, seppur con qualche rara eccezione. In effetti, si ha l’impressione che tutto il discorso accademico sia costruito da una classe intellettuale e non da chi, effettivamente, è maggiormente vittima dell’oppressione. Questo, mi rendo conto, è anche un discorso di classe. La visibilità, il tempo e la stabilità economica di un professore universitario sono enormemente maggiori di quelle di un operaio. Al fine di costituire una filosofia politica della rabbia, in che modo, anche attraverso la prassi, questo percorso di legittimazione della rabbia possa esser il più possibile partecipato?
Qui si apre tutta la questione, molto ampia e complessa, dei saperi che vengono mobilitati, di quali siano i saperi che in qualche modo provano a rivendicare la rabbia e del livello di spendibilità di questi saperi nel dibattito pubblico. Sicuramente tematiche come appunto il ricorso alle passioni in politica sono questioni che chi ha il privilegio di poter operare con lo stampo di accettabilità e di riconoscimento del discorso accademico frequenta poco. Quindi il mio, nel suo piccolissimo, è un tentativo di forzare i confini del “canone”, di utilizzare una certa cassetta degli attrezzi per metterla al servizio di un discorso che solitamente non trova molta eco nelle aule universitarie – un tentativo da una posizione che, per quanto situata e precaria, è comunque interna all’accademia. Mi interessa particolarmente, spendendo quella briciola di privilegio che soggettività come la mia possono avere nel contesto accademico, provare a ribaltarne alcuni assunti metodologici che un po’ ideologicamente non vengono mai giustificati e sono dati per scontati. Dunque mettere in luce che c’è un sapere teorico nelle prassi e che all’interno di certi movimenti sociali che risignificano un sentimento apparentemente irriflessivo come la rabbia esiste una profonda consapevolezza teorica di critica della società. Bisogna anche andare a recuperare all’interno del pensiero accademico quelle correnti minoritarie che questo lavoro l’hanno già fatto. Catharine MacKinnon diceva che il femminismo è la teoria delle pratiche politiche delle donne, ma questo lo si può affermare anche di un certo tipo di antirazzismo, anche di un certo discorso di classe. Metodi come quello della con-ricerca che nasce in ambito operaista per impulso di Romano Alquati e altri si collocano all’interno, per quanto ai margini, di una sfera intellettuale e anche accademica, di cui però mettono in discussione, con un esercizio autocritico, alcuni assunti fondamentali – si pensi alla la distinzione tra soggetto e oggetto nelle scienze sociali, per cui lo studioso analizzerebbe la prassi politica come qualcuno che si trova al di là di una sorta di vetro, che vede l’oggetto dell’analisi ma è invisibile ad esso. Questa sicuramente è una delle eredità che vanno recuperate all’interno di tradizioni intellettuali magari minoritarie ma che hanno lasciato tracce profonde.
Il suo libro verte sulla rabbia degli oppressi, che però non è l’unico tipo di rabbia con una funzione politica. Le istituzioni degli stati, dagli apparati di polizia a quelli legali, sono spesso accusate di un certo accanimento verso quei soggetti considerati sovversivi, come ad esempio tanti attivisti e attiviste del movimento NOTav. Secondo lei, una filosofia politica della rabbia è necessario che, oltre a sdogmatizzare la rabbia degli oppressi, agisca anche per delegittimare quella degli oppressori? Se sì, in che modo una filosofia politica della rabbia potrebbe esser usata a tal fine?
Questa è una tematica molto delicata e che mi sta particolarmente a cuore. Occorre di sicuro fare un discorso che non si limiti a sdoganare la rabbia, ma distingua tra diversi tipi di rabbia e tra ciò che può sembrare rabbia ma non lo è. Si tratta di una delle operazioni che provo a fare nel libro distinguendo tra rabbia e odio. Mi verrebbe da dire che a livello della repressione poliziesca e poi della criminalizzazione giudiziaria operi, molto più che qualcosa di relativo alla sfera emotiva, un portato storico-istituzionale di lunga durata, una vera e propria corrente d’odio nei confronti di tutto ciò che esula dalla normalità, che minaccia lo status quo. Esistono ormai molti studi sull’attività repressiva assolutamente sproporzionata di cui sono stati fatti oggetto i movimenti sociali radicali – e il caso del movimento NO TAV è forse quello su cui si è scritto di più. Quelle nozioni che in giurisprudenza si chiamano clausole generali, come l’ordine pubblico, sono lì a ricordarci come l’ordinamento stesso possa contenere al suo interno una sorta di legittimazione dell’ostilità nei confronti della devianza. In linea teorica si può arrivare a vedere un elemento del genere come connaturato a qualunque sistema giuridico. Il rischio però di un approccio per così dire agambeniano – che la pandemia ci ha purtroppo insegnato a conoscere – è di assecondare una deriva teorica senza più confrontarsi con la prassi, arrivando a pensare che in qualche modo il tutto il diritto sia uguale e che da esso non ci sia scampo, che ci renda disumani o anormali tutte e tutti allo stesso modo, che non sia possibile riappropriarsi del diritto in alcune sue forme disattivandolo in altre. La questione della repressione e della criminalizzazione è una questione pratica e sociologica che si può analizzare rispetto a movimenti specifici e a figure specifiche, ma è anche una questione teorica. Penso alla riflessione che fa ed esempio Jacques Rancière in una serie di suoi libri sul vedere la polizia non soltanto come istituzione certamente da superare, ma proprio come principio opposto alla politica. La polizia è il contrario della politica: se la politica è in qualche modo anche fare un uso del linguaggio inatteso, la presa di parola dei senza voce e delle senza voce, la polizia invece, dice Rancière, è una particolare partizione del sensibile, una divisione tra ciò che noi percepiamo con i nostri sensi. La partizione poliziesca seleziona ciò che è politico e ciò che non lo è, ciò che udibile in quanto discorso che abita la sfera pubblica e ciò che invece non è comprensibile se non sotto forma di rumore. L’istituzione della polizia non è che la messa in pratica storico-istituzionale di questo dispositivo ideologico molto più ampio, un dispositivo che vuole sindacare tra ciò che può essere politicamente esperibile e ciò che non può esserlo. Non è un caso che l’istituzione della polizia nasca negli Stati Uniti dagli Slave Patrols che sorvegliavano gli schiavi nelle piantagioni affinché non scappassero e nell’Europa continentale dalla sorveglianza e repressione del movimento sindacale.
Una delle definizioni più illuminanti che ho trovato su cosa fosse la polizia è di Peter Frase che la definisce come un “esercito di occupazione domestico” …
Peraltro questa è una frase che ha a sua volta una lunga storia perché il primo a parlare, a mia memoria, delle forze dell’ordine come di esercito di occupazione è James Baldwin, il grande scrittore afroamericano che nel 1966, sulla scia di una serie di rivolte della popolazione di Harlem, scrive un lungo reportage per The Nation (“A Report from Occupied Territory”) dove appunto parla della polizia dalla prospettiva delle persone nere in quartieri segregati razzialmente. Da quel punto di vista la polizia non è una mera forza dell’ordine, ma una vera e propria forza militare di occupazione. Quindi all’interno di una stessa città possono esistere quartieri che sono in guerra e quartieri che vivono in pace. La metafora dell’esercito di occupazione ci riporta anche al rapporto tra teoria e prassi perché certamente Baldwin fu grande intellettuale, ma non un teorico politico: uno scrittore che appunto nel partire dall’osservazione della violenza concreta per le strade di Harlem giunge poi anche a questa visione, dalle forti implicazioni teoriche, dello stato di occupazione.