Ragionare camminando

di Marco Sommariva

Ho letto su L’indiscreto un articolo di Alessia Dulbecco intitolato “È difficile camminare, se sei una donna” che, davanti a un video proiettato in una classe in cui si vede una ragazza camminare, sola, in pieno giorno, per le strade di New York, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile sapeva già, dopo i primi fotogrammi, cosa avrebbe subito la protagonista: molestie, abusi e commenti non richiesti. È il fenomeno che oggi viene definito catcalling: molestia sessuale prevalentemente verbale che, per esperienza personale, posso assicurare esser già presente a fine anni Sessanta.

Pur essendo un uomo, parlo di esperienza personale per questo motivo: non avevo ancora compiuto sei anni quando, nell’estate del 1969, ogni pomeriggio d’estate passavo con mia madre – all’epoca trentanovenne – davanti a un’officina meccanica per recarci in casa di mia zia dove le due sorelle facevano venir sera cucendo abiti; eravamo costretti a passar di lì perché non c’erano strade alternative e visto che, per via del caldo, le saracinesche di quella carpenteria metallica erano sempre alzate, al nostro passaggio gli operai interrompevano il lavoro, fischiavano all’indirizzo di mia mamma e commentavano ad alta voce le sue curve. Ricordo che mia madre allungava il passo e mi diceva di fare altrettanto, così come ricordo la paura che provavo in quel tratto di strada perché, secondo me, quegli uomini volevano far del male a mia madre e, lasciatemi dire, non ero così tanto distante dalla realtà.

Scrive Atiq Rahimi in Pietra di pazienza: “Per gli uomini come lui scopare, violentare una puttana non è una grande impresa. Mettere il suo lurido affare in un buco che è già stato usato centinaia di volte prima di lui non gli procura alcun orgoglio virile. […] Lo sai bene, tu. Gli uomini come lui hanno paura delle puttane. E lo sai perché? […] perché, scopando una puttana, non dominate più il suo corpo. Siete in una dimensione di scambio. Voi le date del denaro, lei vi dà il piacere. E, posso dirtelo, spesso è lei a dominarvi. È lei a scoparvi. […] Quindi violentare una puttana non è uno stupro. Ma lo è rubare la verginità a una ragazza, violare l’onore di una donna! Ecco il vostro credo!”

Ho voluto raccontare quanto ho vissuto all’età di cinque anni, perché mi pare impossibile che, davanti al video proiettato in classe, i ragazzi non siano stati pronti a rispondere come le loro compagne: davvero c’è qualcuno che non si rende conto di ciò che accade per strada? E se questo accadesse perché, in qualche modo, si è riusciti a portare le menti di alcuni di noi in un mondo ideale che distrae da quello reale? Scriveva Anatole France ne L’isola dei pinguini, nel 1908: “Le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa, su ordinazione e su misura, e quindi risultano esatte e particolareggiate. Sono preferibili perché trasportano le menti in un mondo ideale e le distraggono dalla realtà, che, in questo mondo, purtroppo, non è mai senza ombre.”

E non prenderei troppo sottogamba l’estratto sopra, visto che in 1984 George Orwell scriveva: “Tutto quel che succede, succede nella mente. Tutto ciò che succede in tutte le menti, succede davvero”.

Eppure, è indubbio che, ancora oggi, una donna che cammina da sola costituisce un’anomalia del Sistema: prima che si scoprisse l’assassino della povera Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – abbiamo letto e ascoltato numerosi commenti circa l’abitudine della giovane di uscir da casa, da sola, a tarda sera: “forse si vedeva con qualcuno?” Avremmo letto e ascoltato identici commenti fosse stato un uomo? Ho grossi dubbi.

Comunque, se per le donne il pericolo di uscir da sole aumenta dopo il tramonto, non significa che prima possano muoversi a piedi serenamente: le donne sanno che, a prescindere da ciò che indossano e se è mattina o pomeriggio, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente.

Prima ho parlato degli anni Sessanta perché, per esperienza, non posso andare più indietro, ma leggo che, fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini hanno intrecciato scambi commerciali, concordato alleanze e definito rapporti di potere ma che, in quegli stessi spazi, alle donne è sempre stato consentito svolgere solo mansioni quotidiane, non sostarvi liberamente: “Non si può ottenere nulla di buono, con la paura” – I falsari di André Gide.

Aver timore di sostare per strada potrebbe indurre a frequentare luoghi ad hoc rischiando, però, di lasciare indietro donne o compagn* di genere appartenenti a minoranze etniche o a classi sociali disagiate.

Aver timore di passeggiare per strada potrebbe indurre a svolgere nella solitudine della propria abitazione ciò che si potrebbe fare all’aperto: col comprare un tapis roulant per replicare nel proprio salotto ciò che si potrebbe fare nei viali sotto casa, si corre il rischio di ridursi a dei criceti che sgambettano nella ruota di una gabbia – credere a una libertà illusoria, insomma.

Uscire per strada, camminare, è sempre stato e continua a essere un atto sovversivo.

Giorni fa ho confessato all’amico Pino Cacucci che, nel 1998, decisi d’imbracciar la penna dopo aver letto un suo libro edito per la prima volta nel ‘96, Camminando: “Spostarsi è facile, spesso lo impone il lavoro, o si vola in vacanza dall’altra parte dell’emisfero per spedire cartoline, scattare diapositive, comprare ricordini per amici e parenti, e tornare indietro identici a come si è partiti. Viaggiare con occhi sgranati sulle meraviglie altrui è inutile, quando l’anima resta chiusa nella cassaforte di casa”.

L’autore ha scritto che le testimonianze raccolte in questo libro, sono un piccolo contributo a non dimenticare che tutti i privilegi di questa fettina di mondo sono ottenuti in cambio di insostenibili ingiustizie imposte agli abitanti di almeno tre quarti del pianeta, che l’oblio è sempre una colpa perché la mancanza di memoria permette all’orrore di perpetuarsi e che un libro è certo poca cosa, ma può aiutare a sentirsi meno soli. E in effetti mi sentii meno solo quando mi trovai davanti questo suo passaggio: “in questo livido fine millennio […] non ci sono più guerre mosse da ideali di liberazione, ma solo da accaparramenti petroliferi, razzismi e pulizie etniche”. Mi sentii meno solo perché lo pensavo, ma non sentivo dirlo da altri, soprattutto dalla televisione: “con la Guerra del Golfo hanno definitivamente sancito il controllo ferreo sull’informazione: se non accetti la loro uniforme mimetica e i giri guidati, non ti puoi lamentare se poi ti sparano in faccia…”.

In un’intervista,  Nadine Gordimer ha affermato: “È vero che siamo bombardati dalle informazioni. Le informazioni, però, non sono la conoscenza; sono una collezione superficiale di fatti. Dobbiamo, invece, rivolgerci alla letteratura, agli scrittori per avere un’interpretazione dei fatti, per capire ciò che precede e segue i fatti. Solo lo scrittore fa diventare storia una serie di eventi”. Sono d’accordo. Non a caso non faccio altro che rivolgermi alla letteratura, agli scrittori, per analizzare gli avvenimenti; a proposito di questo, il senso del viaggio di Pino Cacucci sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, per poterla rinarrare e sottrarla, così, alla cloaca della dimenticanza.

Non permettere alle donne di camminare liberamente per strada significa pure questo, impedire l’ascolto di storie, e questo potrebbe significare perdersi anche episodi che riguardano loro molto da vicino: “Oggi molti inorridiscono per il trattamento che le milizie in Bosnia riservano alle donne catturate, dimenticando che il vero volto delle guerre d’aggressione è questo, e nulla di meno. I contras, però, non hanno mai lasciato donne incinte: la consuetudine era sgozzarle dopo averle fatte “passare” all’intera compagnia. Ma allora, il mondo sembrò non accorgersene neppure, e nessun telegiornale nostrano ha mai dimostrato orrore al riguardo”.

La parola contras è un accorciamento di contrarrevolucionarios; i contras furono un gruppo armato nicaraguense, appunto, nato per combattere il governo sandinista che, nel ’79, s’insediò al potere dopo aver rovesciato la dittatura di Somoza che durava da dodici anni.

Restando in quegli anni e in quella zona geografica, c’è un’altra storia raccontata da Cacucci in Camminando, che vale la pena non dimenticare: “La vigilia di Natale del 1981, nel villaggio di El Mozote irruppero le truppe scelte del Battaglione Atlacatl, corpo d’élite dell’esercito salvadoregno addestrato da istruttori statunitensi e i cui ufficiali si sono vantati di ispirarsi alle SS hitleriane. L’operazione faceva parte della strategia “togliere l’acqua intorno ai pesci”. I mille abitanti di El Mozote appoggiavano i guerriglieri e avevano offerto loro riparo e provviste. Furono sterminati tutti. Riempirono la chiesa di uomini, e la fecero saltare con la dinamite. Uccisero con un colpo alla nuca quelli che erano rimasti fuori, poi raggrupparono le donne: scelsero le giovani più belle, portandole tra i cespugli per stuprarle e poi sgozzarle. Le altre, furono falciate subito a raffiche di mitragliatrice. Alcuni militari presero dei neonati lanciandoli in aria per poi infilzarli al volo con le baionette, altri li gettarono vivi nei forni del pane ancora accesi. Il raccapricciante resoconto di tanto orrore è stato fatto da un bambino di undici anni scampato miracolosamente all’eccidio”.

Anche qui si parla di donne e pure in questo caso si riserva loro un trattamento particolare, specie se giovani e belle.

Ma come son cresciute tutte queste generazioni di uomini che stuprano, sgozzano, uccidono, molestano, importunano le donne e che, ancora oggi, pare siano incapaci d’immaginare cosa accadrà alla protagonista di un video ripresa mentre cammina, sola, in pieno giorno, per le strade di New York? Non so rispondere, ma credo varrebbe la pena tenere a mente un avvertimento di Voltairine de Cleyre, riportato nel libro Un’anarchica americana, sul crescere i figli maschi e le figlie femmine: “Guardate ora come crescono i vostri figli. Insegnate loro, sin dalla prima infanzia, a frenare la naturale indole ad amare, a trattenersi sempre di più! Le vostre incredibili bugie infangherebbero persino l’innocente bacio di un bambino. Alle ragazzine insegnate che non devono comportarsi come dei maschiacci: non devono camminare scalze, non devono arrampicarsi sugli alberi, non devono imparare a nuotare, non devono fare niente di ciò che desiderano se la morale lo ha bollato come «inappropriato». I ragazzini vengono invece derisi se hanno atteggiamenti effeminati, ad esempio se vogliono imparare a cucire o magari giocare con le bambole. E poi, quando saranno cresciuti, direte loro: «Ehi, agli uomini non importa della casa o dei bambini tanto quanto importa alle donne!». E perché gliene dovrebbe importare, se vi siete deliberatamente riproposti di distruggere quella loro natura? «Le donne non sanno cavarsela come gli uomini», direte loro. Ma se addestrate un qualunque animale, o persino una pianta, come addestrate le ragazze, neanche quello se la saprebbe cavare. Qualcuno mi potrebbe spiegare perché esistono sport adatti agli uomini e sport adatti alle donne? Perché un bambino non dovrebbe avere il libero uso del proprio corpo?”

E nel libero uso del proprio corpo va anche compreso il passeggiare dove si vuole, quando lo si desidera e come meglio aggrada a ognuno di noi, uomo o donna che esso sia.

Sempre riguardo il camminare, desidererei ricordare un passo tratto dal romanzo Sognando Maldini, di un’altra donna, Fatou Diome: “Con i piedi modellati, segnati dalla terra africana, calpesto il suolo europeo. […] Dappertutto si cammina, però mai verso lo stesso orizzonte. In Africa seguivo il solco del destino fatto d’imprevisti e di speranza infinita. In Europa cammino nel lungo tunnel dell’affermazione che conduce a obiettivi ben definiti. Qui, nessun imprevisto, ogni passo porta a un esito scontato; la speranza si misura dal grado di combattività. Ambiente in technicolor, camminiamo in altro modo, verso un destino interiorizzato che fissiamo controvoglia senza mai rendercene conto, perché ci troviamo arruolati nel branco moderno, ghermiti dal rullo compressore sociale pronto a schiacciare chiunque si azzardi a fermarsi nella corsia di emergenza”.

Evidenziando la differenza tra il destino africano fatto d’imprevisti e di speranza infinita e quello occidentale che porta a un esito scontato – forse perché, “da noi”, l’imprevisto è il nemico numero uno di un sistema che non deve subire alcuna battuta d’arresto perché possa produrre capitale ventiquattrore su ventiquattro? –, la scrittrice senegalese naturalizzata francese mi ha fatto venire in mente un episodio riportato sul settimanale Internazionale dello scorso 6 settembre che, per la portata della reazione a un evento inatteso, ci dà la misura di cosa siamo diventati: i controlli di sicurezza all’aeroporto di Hokkaido, in Giappone, hanno fatto chiudere il terminal nazionale dopo che un duty free dell’aeroporto ha segnalato la scomparsa di un paio di forbici. Il controllo a tutti i passeggeri è durato due ore, durante le quali sono stati cancellati trentasei voli e più di duecento hanno subito dei ritardi. Le forbici non sono state trovate e la sicurezza ha infine permesso ai voli di riprendere. Il giorno successivo ci si è accorti che erano nel negozio dov’erano state smarrite. L’autorità aeroportuale di Hokkaido ha affermato che “lavorerà per garantire una migliore attenzione da parte dei negozi”.

Non ci accorgiamo più di un mucchio di cose che abbiamo sotto il naso, dalle forbici che sono dove devono essere al fatto che per strada non tutti hanno la libertà di muoversi alla stessa maniera: chissà mai se un giorno il sistema bloccherà tutto per cercare una soluzione al catcalling.

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