Recovery Fund: è il momento degli avvoltoi

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Manifestazione Per una società della cura del 21 novembre 2020

di Marco Bersani, Attac Italia 

Se la pandemia ha insegnato qualcosa, la sospensione dei vincoli finanziari imposti da Maastricht in avanti e i conseguenti fondi messi a disposizione dal Recovery Fund dovrebbero servire ad un radicale cambio di rotta, provando a costruire, con tutti gli attori sociali, un grande piano di conversione ecologica, sociale e culturale, che metta al centro l’abbandono del modello liberista e la costruzione di una società della cura, di sé, dell’altr*, del pianeta e delle future generazioni.

D’altronde, a meno che non sia brandito come un’ulteriore minaccia a diritti e reddito, lo slogan “Niente sarà più come prima” pareva suggerire un cambio di paradigma, basato sulla consapevolezza che la pandemia non è un fenomeno esogeno, arrivato come un nemico invisibile da un altro pianeta, bensì  il portato delle profonde contraddizioni sistemiche di questo modello insostenibile.

Sempre ricordando che, poiché Babbo Natale non esiste, il pasto non è gratis e senza cancellazione del debito e trasformazione della Bce in una banca centrale pubblica, ci stiamo preparando a spendere oggi per essere di nuovo chiusi in gabbia a doppio mandato domani, la predisposizione del piano per accedere alle risorse del Recovery Fund dovrebbe essere l’occasione per una riflessione collettiva che attraversi l’intero Paese e ne sciolga i nodi principali.

Servono soldi per la sanità, ma quanti e per quale concetto di salute e di sistema sanitario?

Servono risorse per la scuola, ma quanti e per quale idea di istruzione, formazione e ricerca?

Servono soldi per le infrastrutture, ma per fare le grandi opere climalteranti e che devastano i territori o per il riassetto idrogeologico e la ristrutturazione delle reti idriche del Paese?

Serve spesa pubblica, ma per le armi o per i diritti delle persone?

Che ciascuna di queste domande – e le molte altre che si potrebbero analogamente fare- rappresenti un bivio sul modello futuro di società, è un tema che non sembra sfiorare il governo e il Presidente del Consiglio.

D’altronde, se, come ci raccontano, la pandemia è un nemico esterno venuto a turbare il libero fluire di una società pacificata, non servono grandi discussioni: basta mettere in campo i campioni nazionali dell’economia e chiedere loro di presentare i progetti e gestire le conseguenti risorse.

Sembra incredibile, ma proprio di ciò si tratta: pur non ancora ufficializzato, il super-team che affiancherà il governo nella predisposizione del Recovery Plan, pare sarà costituito da sei amministratori delegati di società controllate dallo Stato: Claudio De Scalzi (ENI), Francesco Starace (ENEL), Marco Alverà (SNAM), Gianfranco Battisti (Ferrovie dello Stato), Alessandro Profumo (Leonardo-Finmeccanica) e Fabrizio Palermo (Cassa Depositi e Prestiti).

Tralasciando i non specchiatissimi curriculum giudiziari di alcuni di loro. non ci si può esimere dal notare almeno tre contraddizioni insuperabili:

  1. a) sono tutti uomini, sono tutti potenti, sono tutti intrinsecamente legati all’idea che l’aggettivo “grande” è la misura che qualifica i progetti;
  2. b) sono tutti a capo di aziende la cui cultura estrattivista nei confronti della natura e della società sprizza da tutti i pori;
  3. c) sono tutti manager di aziende, che, per quanto controllate dallo Stato, sono miste pubblico-privato e collocate in Borsa; pertanto devono rispondere all’imperativo degli utili per i propri azionisti e non all’interesse generale della società.

Uomini, estrattivisti, guidati dal profitto: da qualsiasi punto di osservazione si guardi il mondo, scelta peggiore non potrebbe essere fatta.

A chi persevera nell’illusione che la pandemia sia solo una parentesi, occorre che le lotte consegnino un bagno di realtà: il futuro è troppo importante per lasciarlo agli indici di Borsa.

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