di Marco Bersani, Attac Italia
Ripresa e resilienza sono i due termini più utilizzati dalla narrazione dominante per indicare la strada della fuoriuscita dallo shock della pandemia. Aldilà del loro significato letterale, l’insieme dei due termini ha assunto un significato politico ben preciso.
Ripresa significa ripartire da dove ci si era interrotti, considerando la pandemia un mero incidente di percorso, venuto dall’esterno a turbare l’ordinario fluire di un sistema economico e sociale che, se non è il migliore, è comunque l’unico possibile. Nessuna lezione va appresa da un evento che ha reso evidente il castello di carte di una società interamente regolata dai flussi finanziari e dalle leggi del mercato; nessuna inversione di rotta va ipotizzata dopo un evento che ha reso plastica la differenza tra l’uomo più ricco del mondo, che continua a lanciare inutili razzi verso Marte, e un microrganismo, che non è neppure un essere vivente, capace di bloccare nell’arco di pochi mesi tutti i meccanismi della globalizzazione.
Il sistema deve riprendere, costi quel che costi, e se la ripresa comporta una guerra, guerra sia.
Resilienza significa resistere all’impatto ed è l’atteggiamento che ci viene richiesto per accompagnare dal basso la ripresa dei grandi interessi dall’alto. In questo senso, la resilienza è vista come il contrario della fragilità, perché mentre l’assunzione di quest’ultima necessita profondi mutamenti per organizzare una società diversa a partire dalla vulnerabilità delle esistenze e degli equilibri naturali, la resilienza non mette in discussione l’impatto e chiede semplicemente di sapersi adattare.
Il sistema non può essere messo in discussione, costi quel che costi, e se questo significa rassegnarsi alla diseguaglianza sociale, alla crisi eco-climatica e alla guerra, rassegnazione sia.
Quale dimostrazione più evidente se non le dichiarazioni del Commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton, che ieri ha detto testualmente “I Paesi membri dell’Unione Europea che lo desiderano potranno utilizzare parte dei fondi dei rispettivi Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) per le munizioni. Infatti il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. E in quest’ultimo pilastro rientrano tutti gli interventi puntuali per sostenere progetti che vanno verso la resilienza, compresa la difesa”.
Siamo alla resilienza armata. Ne siano consapevoli le comunità della Romagna, travolte in questi giorni da un’alluvione sorella gemella dell’ordinaria siccità; ne siano convinte le centinaia di migliaia di occupabili che a breve perderanno il reddito di cittadinanza; lo comprendano le migliaia di donne vittime di violenza quotidiana; se ne facciano una ragione tutte le persone che non hanno garantiti beni comuni e servizi pubblici: il Paese in cui si trovano a vivere è un paese che desidera produrre munizioni.
Possiamo continuare ad accettare questa feroce narrazione? O è venuto il momento di dire che non abbiamo bisogno di nessuna ripresa ma di una radicale inversione di rotta? E di affermare la nostra totale indisponibilità alla resilienza individuale perché ciò che conosciamo e che trasforma le cose è solo la resistenza collettiva?
“Pensare è la ragione per cui mi alzo ogni mattina” diceva Joe Strummer, indimenticato leader dei Clash. E’ giunto il momento di farlo, tutte e tutti insieme.