di Corrado Oddi
*pubblicato su Ferrara Italia del 24 aprile 2020
Giovedì 23 aprile si è tenuta la riunione del Consiglio dell’UE, quella che riunisce i capi dei governo dei 27 Paesi membri per mettere a punto gli interventi per fronteggiare la crisi derivante dalla vicenda Coronavirus. In buona sostanza, esso, da una parte, ha ratificato i risultati già raggiunti dall’Eurogruppo nelle settimane passate e, dall’altra, ha deciso di dar vita al ‘Fondo per la ripresa’.
Se vogliamo una sintesi di quanto deciso: A ) conferma dello stanziamento di circa 500 miliardi complessivi tra MES, Fondo contro la disoccupazione e intervento della Banca Europea degli Investimenti; B ) niente sugli Eurobond e mutualizzazione del debito; C ) creazione del nuovo strumento del ‘Fondo per la ripresa’ di marca francese. Quest’ultimo fondo dovrebbe essere alimentato da risorse significative, ancora però non quantificate in modo preciso, né si è definito della loro suddivisione tra aiuti a fondo perduto e prestiti. Il Fondo per la ripresa ha poi un altro grande difetto: prevede interventi troppo dilatati nel tempo, visto che la nascita del Fondo è collegata al bilancio europeo 2021-2027, mentre la profondità della crisi esige risposte ben più rapide.
Quanto al Fondo Salva Stati (il MES) – che abbiamo da più parti sentito definire “senza condizionalità” – va sottolineato che continua ad essere uno strumento troppo rischioso: oltre ai risparmi decisamente bassi che garantisce rispetto all’attivazione di altre linee di credito, rimane la mancata chiarezza (anche dopo la riunione del 23 aprile) sulle condizioni cui sottostare per il suo utilizzo, che sembrano oggi non presenti, ma che non si esclude possano essere ripristinate in un secondo tempo.
Una risposta dunque complessivamente inadeguata, che appare insufficiente a ridurre le distanze e gli squilibri tra Paesi forti e Paesi deboli che la crisi sta ampliando all’interno dell’Europa, rischiando di mettere in discussione la sua stessa ragione d’essere e di rafforzare i nazionalismi e i populismi, già oggi troppo presenti nelle varie situazioni nazionali. Di ben altro ci sarebbe stato bisogno e ci sarà bisogno, a partire dalla condivisione dei debito, dalla creazione di un conseguente spazio fiscale europeo e dall’affermazione di un ruolo di prestatrice di ultima istanza della BCE, quello cioè di una reale banca centrale pubblica.
In questo quadro, però, non bisogna trarre allora la conclusione che “occorre fare da soli”: una espressione sbagliata perché implica la rinuncia a continuare la battaglia per cambiare gli orientamenti assunti a livello europeo. Si tratta invece di avere la consapevolezza che, sin da adesso, occorre mettere in campo un’iniziativa forte a livello nazionale, che vada ben oltre la logica emergenziale, che è quella che sta contraddistinguendo i decreti in materia economica di marzo e aprile. A maggior ragione se, a partire dall’estate e dall’autunno, ci ritrovassimo in una situazione di ‘agitazione’ dei mercati – il capitale finanziario – con tanto di innalzamento dello spread e ripresa delle attività speculative, come testimoniato dalla recente vicenda del prezzo del petrolio, sceso addirittura a livelli negativi.
In un articolo precedente su questo giornale [Qui] ho già fatto riferimento ad alcuni interventi relativi alla gestione del nostro debito pubblico, come quello di un ruolo attivo della Banca d’Italia e di un prestito obbligazionario ad hoc, rivolto ai risparmiatori italiani. Ciò che però già oggi serve, è delineare un nuovo quadro di politica economica e sociale, in controtendenza rispetto alle scelte compiute negli ultimi anni. A me non pare esista una reale alternativa a questa prospettiva: si illude chi pensa, probabilmente lo stesso Draghi e la gran parte della politica nostrana, che oggi basti intervenire con quante più risorse possibili, sforando i classici vincoli di deficit e debito pubblico, pensando che, una vota finita l’emergenza, il meccanismo economico possa ripartire come prima. Non fosse altro perché, in questa visione di continuità con le politiche del passato, il debito dovrà essere ripagato e, stante la profondità della crisi, non si vede come ciò sia possibile senza evitare il rischio di un reale impoverimento di massa.
Parliamo, infatti, di previsioni di un calo del PIL di circa l’8% nel corso del 2020, di un deficit pubblico attorno al 10% e di un debito pubblico che potrà attestarsi attorno al 155% del PIL, rispetto al 134% del 2019: dati che fanno impallidire la crisi del 2008-2009 e che ci riportano, per ordini di grandezza, solo alla caduta determinatasi con l’ultima guerra mondiale. Così come non è pensabile, come dopo il 2011, ricorrere a ulteriori ‘sacrifici’, dopo quelli realizzati con la controriforma dei diritti del lavoro ( vedi smantellamento dell’art.18), di quella delle pensioni ( vedi legge Fornero) e la privatizzazione di pezzi fondamentali dello Stato Sociale e dei Beni Comuni.
Per queste ragioni, diventa non solo giusta, ma necessaria una svolta profonda, un nuovo paradigma nelle politiche economiche e sociali. Si tratta, per dirlo con una metafora, di arare e seminare un nuovo campo, invece di buttare nuovi concimi in una vecchia coltura.
Questa svolta di fondo deve concretizzarsi in un grande Piano di investimento e intervento pubblico e in nuove risorse economiche per sostenerlo. Un grande Piano di investimento e intervento pubblico concentrato su alcuni precisi settori e campi di azione che siano capaci, contemporaneamente, di produrre nuova qualità dello sviluppo, ricchezza sociale, buona occupazione e anche un reddito universale di base.
Ho in mente almeno tre campi d’intervento, senza peraltro pensare in modo esclusivo ad essi: il rilancio della sanità e della scuola pubblica (e del Welfare in generale), la riconversione ecologica del sistema economico e un forte intervento per il riassetto idrogeologico del territorio, inclusa la difesa dei Beni Comuni.
Ci sono già proposte e intelligenze per procedere in questa direzione, ma, ovviamente, occorre mettere in campo risorse per diverse decine di migliaia di miliardi di Euro perché esso possa decollare e diventare motore di un diverso modello produttivo e sociale. Peraltro, anche su questo versante, è possibile indicare l’impianto di fondo: un’imposta sulle grandi ricchezze patrimoniali e finanziarie, una lotta decisa e tempestiva lotta all’evasione e alla elusione fiscale, la ricapitalizzazione e il riorientamento delle risorse di Cassa Depositi e Prestitin (CDP), facendola diventare una banca pubblica a tutti gli effetti.
La prima di queste misure dovrebbe essere una patrimoniale concentrata però sui soggetti più ricchi, quelli che indicativamente hanno una ricchezza netta superiore agli 800.000 Euro, che potrebbe dare un gettito annuo che va dai 5 ai 10 miliardi di Euro. In più, avrebbe il pregio di ridurre le grandi disuguaglianze che si sono accresciute negli ultimi anni, visto che, come afferma la Banca d’Italia, più di due terzi della ricchezza netta è posseduta dal quinto più ricco delle famiglie.
L’evasione fiscale si aggira attualmente attorno ai 120 miliardi di Euro. Volendo, esistono le strumentazioni per intervenire in modo significativo su di essa.
Infine, per quanto riguarda Cassa Depositi e Prestiti, l’ultimo Piano industriale (2019-2021) prevedeva interventi per circa 200 miliardi di Euro, finalizzati però quasi esclusivamente al sostegno delle imprese e delle esportazioni. Ora invece andrebbero reindirizzati alle nuove priorità, assieme ad un ulteriore dotazione di risorse provenienti dalla sua ricapitalizzazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che quanto delineato è un bel ‘libro dei sogni’. In realtà, tale progetto è non solo socialmente equo, ma concreto e praticabile. E alla fin fine è l’unico realista rispetto alla situazione che stiamo attraversando. Ciò non significa che possa affermarsi tranquillamente, tutt’altro: i poteri forti, i grandi interessi economici, e ad oggi anche la gran parte della politica non intendono incamminarsi lungo questa prospettiva. Proprio per questo, occorre una forte mobilitazione, a partire dai movimenti e dalle organizzazioni sociali e della stessa cittadinanza attiva.
Del resto, proprio da qui bisognerà passare, se non si vuole che ritorni una normalità ingiusta e che non funziona. Sentiamo tutti i giorni i ringraziamenti verso gli infermieri, i medici, gli operatori socio-sanitari, e gli autisti, i netturbini e i tanti altri ancora che hanno tenuto in piedi il Paese nell’emergenza. Il rischio vero è che, cito una recente intervista a la Repubblica di Marco Revelli, “passata l’emergenza si torni agli equilibri di prima: in alto i soliti, in basso gli eroi di oggi, che rischiano di diventare eroi di un solo giorno”.