Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La decima puntata della rubrica “Suture”- che uscirà ogni giovedì alle 12.30, a cura di Valeria Andreolli.
Guardi la tua immagine riflessa nello specchio. È uno specchio lungo, incollato sull’anta di un armadio vecchio, di quegli armadi legnosi e lucidi ereditati da qualche lontano parente, che nessuno ha il coraggio di buttare, nonostante non si inserisca minimamente nell’arredamento della casa. E, siccome era brutto ed ingombrante ovunque, è stato relegato in camera tua. Ed è diventato il tuo più intimo confidente. L’unico che ti conoscesse veramente.
Tante volte ti ha visto sfilarti la maglietta ed abbassarti i pantaloni, come stai facendo ora. Tante, tantissime volte ti ha visto sbarazzarti con foga delle mutande e contemplare il tuo corpo nudo riflesso in lui, come stai facendo ora. Ma è solo da qualche tempo che ti ha visto spuntare in viso quell’espressione realizzata e soddisfatta.
Di certo non è la stessa che avevi le prime volte che compievi questo rituale. Allora ti esploravi con uno sguardo tra il curioso e il confuso con addosso un’inquietudine che ti avevano insegnato essere tipica della pubertà. Ti sedevi per terra e passavi ore a studiare quella cosa che si trovava tra le tue gambe. La percepivi come qualcosa di alieno da te, qualcosa che non ti apparteneva davvero, e che pure ti ritrovavi addosso.
Prima dell’ora di educazione fisica, negli spogliatoi, avevi una gran vergogna anche solo di farti vedere in slip dalle tue compagne di classe, che in realtà non sembravano prestarti troppa attenzione. I tuoi genitori ti avevano ammonito a non parlare con le tue amiche delle tue frequenti visite in ospedale, dove una quantità infinita di medici in camice bianco studiavano e fotografavano il tuo corpo nudo da ogni angolazione, e neppure delle pillole rosa che dovevi prendere ogni giorno prima di andare a dormire. Dicevano non fosse necessario sbandierare al mondo i propri problemi. E tu avevi sempre obbedito. Quando le tue amiche avevano iniziato a parlare di ragazzi e di mestruazioni, tu avevi cominciato a contribuire poco alle conversazioni e a startene sempre più per conto tuo.
Ti guardavi allo specchio e confrontavi il tuo corpo con quelli sodi e bellissimi che vedevi nei giornalini porno raccolti dal cassonetto del vicino di casa. E vedevi forme e ombre diverse. C’era qualcosa che non tornava in te e avevi il presentimento fosse legato alla misteriosa malattia che ti affliggeva e di cui i tuoi genitori ti avevano sempre dato informazioni vaghe e discordanti. Quindi un giorno hai preso coraggio, li hai riuniti in salotto e hai chiesto loro di spiegarti, di aiutarti a capire cosa ci fosse di strano in te. Loro si erano scambiati uno sguardo tra il preoccupato e lo sconfortato, poi tuo padre aveva pronunciato un nome da manuale, sconosciuto, ed era uscito dalla stanza.
Avevi continuato a guardarti allo specchio e avevi deciso che, dal momento che i tuoi genitori non ti erano stati di grande aiuto, avresti scoperto la verità in un altro modo. Avevi approfittato di un pomeriggio estivo in cui nessuno era in casa e avevi frugato in tutti i cassetti, finché non avevi scovato un malloppo di cartelle cliniche con inciso a grandi lettere il tuo nome. Avevi ispezionato quei fogli immergendoti in una lettura intensissima, nonostante capissi solo in parte tutti quei nomi di organi e ormoni. Ti sembrava di vederci un po’ più chiaro, ma c’erano ancora troppe ombre in tutta la tua storia. Avevi bisogno di qualcuno che sapesse leggere quella lingua, e tradurtela. Avevi preso appuntamento con un medico che stava dall’altro lato della città, che non aveva mai visto il tuo viso né il tuo corpo, che non sapeva niente di te.
E allora, grazie a quest’uomo brizzolato e gentile, avevi potuto ricostruire cosa ti era successo.
Avevi immaginato i visi corrucciati dei tuoi genitori quando, dopo il parto, i medici avevano detto loro che i tuoi genitali erano anomali e avevano consigliato di tornare in ospedale tre mesi più tardi per una piccola operazione che ti avrebbe fatto diventare femmina. Avevi immaginato la loro sorpresa e la loro disperazione, la loro più totale incapacità di gestire una simile situazione. I medici dicevano che bisognava fare così e tutto sarebbe andato bene. I tuoi genitori si erano fidati. Avevano diligentemente riportato il tuo corpicino in ospedale tre mesi dopo e avevano ansiosamente aspettato che un signore vestito di azzurro uscisse dalla sala chirurgica per dire che era andato tutto bene, che ti avevano rimosso quei testicoli antiestetici che sfiguravano il tuo sesso.
Avevi immaginato i pellegrinaggi dei tuoi genitori tra i reparti lattei dell’ospedale, le loro sopracciglia che si inarcavano ascoltando le parole grevi e risolute dei dottori, il loro disorientamento totale ed opprimente. Per queste ragioni non puoi condannarli, nonostante tutta la rabbia che provi, non puoi scaricare su di loro nessuna colpa, perché hanno soltanto seguito le raccomandazioni di persone che consideravano esperte. E, così facendo, i camici bianchi avevano arbitrariamente scelto il tuo sesso. Provando a correggere la tua anomalia in modo del tutto non richiesto, ti avevano mutilato, avevano deciso che avresti indossato abiti rosa, che avresti avuto i capelli lunghi, che avresti portato gonne e reggiseni, che avresti fatto la pipì in posizione seduta e giocato con le bambole. Loro, con un bisturi, avevano deciso tutto questo per te, senza che tu avessi la minima possibilità di obiettare. Avevano poi consigliato ai tuoi genitori di tenerti all’oscuro di tutto per evitarti traumi.
I traumi legati all’impossibilità di rientrare nell’imperante codice sessuale binario, perché non essere conforme allo standard è traumatico, perché è impensabile che esista una gamma di sfumature sessuali molto più ampia del numero due. La tua anomalia, la tua diversità è stata corretta perché il mondo non era pronto ad accettarla, perché il mondo non avrebbe capito. Tu ora sì. Tu ora sai che la tua diversità va valorizzata, che è proprio questa la tua ricchezza. Tu ora sai che non c’è niente di sbagliato in te, ma che è la differenziazione sessuale binaria a cui ci hanno abituati ad essere estremamente riduttiva.
Tutto ciò lo hai imparato da poco, lo hai imparato partecipando ad incontri con persone come te e allo stesso tempo diversissime da te.
Ed è per questo che ora, oggi, ti guardi nello specchio di camera tua con l’espressione raggiante di chi finalmente ha trovato il proprio posto nel mondo.
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** Pic Credit: Katia Repina e Carla Moral – My Own Wings