Riflessioni intorno a libro “A che punto siamo?” di Giorgio Agamben.
di Stefano Vespo
comedonchisciotte.org
“E che cosa è una società
che non ha altro valore
che la sopravvivenza?”
Giorgio Agamben
“L’abnegazione, non come una virtù,
ma come il senso della nessuna importanza
del proprio io, della sua sacrificabilità,
diviene un fenomeno di massa”
HannhArendt
La domanda più autentica ed essenziale che occorre oggi porsi, secondo Giorgio Agamben, non soltanto per testimoniare il nostro tempo, ma soprattutto per resistergli e per opporsi al pericolo che in esso si disegna sempre più chiaramente, è fino a qual punto la nostra fiducia nei valori etici, politici, religiosi si sia trasformata. Si tratta di una presa di coscienza, il cui scopo immediato è quello di individuare uno spazio entro il quale situarsi per resistere ed opporsi alla più violenta sottrazione della libertà che sia mai stata perpetrata dagli uomini contro altri uomini. Ad un nuovo totalitarismo, finora rimasto latente e invisibile nella nostra società, venuto in piena luce proprio a causa dell’epidemia.
In effetti, non c’è altra scelta: nessun angolo del pianeta è stato risparmiato. L’oppressione politica ha assunto velocità e ampiezza uguali a quelle con le quali si è diffusa quell’epidemia stessa che ha sfruttato per imporsi. Come il virus, l’oppressione penetra nel privato, nelle nostre case, in ogni momento della nostra vita. Infine, penetra nelle cellule dei nostri corpi, proprio come fa il virus. L’obbedienza implica adesso la cessione completa del corpo alla penetrazione del farmaco, alla inoculazione dei vaccini. Non è più possibile né trovare un altrove, né nascondersi dietro un consenso di facciata, dal momento che il nostro stesso corpo deve recare traccia concreta del consenso. Opporsi è l’unica strada, che rimane. Ma è una strada insidiosa. Si ha l’impressione che esprimere il dissenso non abbia altro effetto che quello di favorire ancora di più le condizioni necessarie all’istaurazione di un totalitarismo.
La massa è l’elemento chiave per la nascita e la sopravvivenza di ogni totalitarismo. Quella attuale si è creata e si mantiene intorno alla battaglia contro un nemico invisibile, un nemico interno, di cui ognuno di noi potrebbe essere il fiancheggiatore. È una massa che combatte una guerra intestina, nella quale il nemico potrebbe essere ovunque. L’apparizione di idee contrarie a quelle ufficiali che guidano questa lotta viene percepita come l’equivalente di un tradimento, di una cospirazione con il nemico.
Giorgio Agamben, piuttosto che impostare l’analisi soltanto in senso sociologico, considerando questa situazione come un fatto storico contingente, frutto del più pervasivo apparato tecnologico dell’informazione mai creato e di dispositivi di controllo politico, risale alle origini culturali, archeologiche, cognitive in senso ampio, che guidano oggi il nostro modo di rapportarci alla politica, all’etica. Il cuore della sua argomentazione consiste nella constatazione che stiamo sopportando e approvando la più grave e penetrante sottrazione di libertà mai sperimentata finora, perché abbiamo perduto ogni fiducia in ogni tipo di valore, sia esso etico, politico o religioso. Ne sopravvive soltanto uno: il primato della pura e semplice conservazione della vita, della vita biologica. La scienza medica diviene, in questa prospettiva, il nuovo credo religioso. Essa, fondata su un dualismo che scinde nettamente e in modo manicheo la malattia, regno del male dominato da virus e batteri, e la cura, insieme di pratiche gestite dalla casta dei medici, fornisce l’orizzonte entro il quale la massa accetta e favorisce il nuovo potere politico: il controllo assoluto dei corpi e uno stato di emergenza sanitaria a tempo indefinito.
Ma la semplice sopravvivenza, la “nuda vita”, sganciata da qualsiasi altro principio e valore che la fondino, perde paradossalmente il suo stesso diritto a conservarsi. Proprio perché su di essa non si può fondare alcun diritto, essa diviene sopprimibile, manipolabile, a disposizione del potere politico, che può farne ciò che vuole.
Questo atteggiamento, così evidente oggi, costituisce il tratto fondamentale della nuova massa creata dalla potenza dell’apparato mediatico, rendendola adeguata alla nascita del totalitarismo. In tal modo, il filosofo intravede nella cultura occidentale, come si è profilata finora, una disposizione profonda verso l’istaurazione del totalitarismo.
Portando l’analisi su un piano più contingente, meno assoluto e meno necessario rispetto a quello filosofico, dalle riflessioni di Agamben si possono trarre due preziose indicazioni di analisi: la definizione del tipo di massa che si è creata intorno al problema dell’epidemia e delle scelte politiche da essa scaturite; gli aspetti pseudo-religiosi che alimentano la sopravvivenza di questa stessa massa.
Secondo Hanna Arendt, “i movimento totalitari sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui […] si esigono una dedizione e fedeltà incondizionate e illimitate” (Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2009, p. 448). Tale spirito di abnegazione nasce dal “senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità” (ibid, p.437). Una osservazione, questa della Arendt che rivela come il primato della semplice sopravvivenza, da tutti oggi accettato come ovvio e scontato, coincida proprio con uno degli aspetti più essenziali delle masse totalitarie: la nullificazione dell’individuo in quanto tale. La sua sacrificabilità, in quanto sulla semplice vita biologica non si può fondare alcun valore.
L’atomizzazione sociale, la costruzione di “una imponente solitudine” intorno agli individui, è un altro aspetto essenziale di questo tipo di massa. Non si tratta tanto del confinamento nelle proprie abitazioni, del distanziamento sociale, della interdizione degli spazi di incontro, in una parola, dell’annullamento della possibilità di ogni attività politica, quanto piuttosto di un dominare e terrorizzare gli uomini dall’interno. Il terrore, che scaturisce dal sospetto continuo degli uni verso gli altri, dall’essere divenuti spie e delatori di comportamenti “irresponsabili”, reciproci controllori della fedeltà alle regole imposte. Questo ci consegna a quella “imponente solitudine” di cui parla la Arendt.
Ma il dispositivo di controllo sociale bio-politico grazie al quale è stato possibile generare questo tipo di massa, ovvero il terrore e l’isolamento degli individui che la compongono, la dedizione cieca e acritica ai principi imposti, è quello della colpevolizzazione del cittadino.
Andrea Miconi in “Epidemie e controllo sociale”, parla della “spirale del silenzio” con la quale il racconto ufficiale dell’epidemia ha messo al bando qualunque opinione contraria alle misure adottate. In questo modo ogni aumento dei contagi è stato immediatamente collegato all’irresponsabilità di non ben precisati individui che, non rispettando le regole imposte, avrebbero provocato la morte dei soggetti più fragili, la sofferenza di gente innocente. Dunque, piuttosto che riflettere sull’efficacia delle strategie adottate, non si è fatto altro che renderle sempre più stringenti, come se si trattasse di atti punitivi piuttosto che di strumenti per arginare i contagi. Dobbiamo quindi rispettare tutte le restrizioni “senza chiederci il perché […] obbedendo al dogma calato dall’alto: come in un esercizio di espiazione di massa, in un rituale di penitenza collettiva tale per cui, se si dimostra di saper soffrire, qualcuno arriverà a liberarci dalla penitenza” (A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Manifestolibri, 2020, p.23).
Quest’ultima osservazione apre uno spiraglio su uno degli aspetti più profondi che anima la massa totalitaria. In “Massa e potere” Elias Canetti, ripercorrendo le forme che assume la massa nella vita delle società umane, parla delle mute del lamento e quindi delle religioni del lamento. Nelle masse caratterizzate dalle religioni del lamento, di cui quella cristiana rappresenta uno degli esempi più evoluti, “colpa e angoscia crescono inarrestabili, senza lasciare spazio di redenzione. Così gli uomini si uniscono a chi muore per loro [o a causa loro] […] In quel momento, nonostante tutte le loro azioni passate, tutta la loro ferocia, essi si collocano dalla parte del dolore. È uno scambio delle parti improvviso e di ampia portata, che li libera dall’accumulo delle colpe […] e dall’angoscia di essere essi stessi afferrati dalla morte” (Massa e potere, Adelphi, 2015, p. 175).
Proprio da questa esigenza così radicata nelle masse scaturisce la trasformazione delle pratiche mediche nei dogmi di una nuova religione.
I due dogmi cruciali, la cui messa in discussione sembra oggi equivalere ad una vera e propria eresia, riguardano i vaccini e l’uso delle mascherine. Ma è proprio per liberarci da condizionamenti irrazionali, per conquistare quello spazio di libertà e di resistenza di cui parla Agamben che a volte è necessario pronunciare delle eresie, o almeno qualcosa che sembri tale ai più.
Una precedente analisi dell’OMS, adesso ritrattata, considerava l’uso della mascherina in generale inutile se non addirittura dannoso al di fuori delle strutture sanitarie, perché, fornendo un falso senso di sicurezza, avrebbe portato le persone a non rispettare il distanziamento. Nelle scuole, prima era consentito toglierla una volta seduti al banco. Successivamente, senza che nulla sia accaduto che giustificasse una tale scelta, come ad esempio il verificarsi di focolai nelle classi, o un aumento dei contagi tra i ragazzi nelle scuole, le mascherine sono state rese obbligatorie in modo permanente, per sei o otto ore di fila ogni giorno. L’invito del Tar a fornire le evidenze scientifiche che motivano questo obbligo, peraltro impossibile da rispettare per qualunque essere umano, non sono state mai fornite dal Governo. Eppure, ormai nessuno si azzarderebbe più a toglierla.
La mascherina è intollerabile. Lo sguardo al di sopra della mascherina è carico di paura e di rabbia. È la sottrazione più angosciosa che possiamo vivere, la sottrazione di un bene vitale come l’aria. Dovrebbe essere uno strumento semplicemente suggerito, e non invece il frutto di una imposizione. Infatti, nel momento stesso in cui diviene un obbligo, genera negli individui una sensazione di totale impotenza. Essi vivono ormai schiacciati dalla consapevolezza che il potere può anche giungere a limitarli nel godimento di un bene così vitale. Che ormai non esiste più alcuno spazio in cui il potere non possa penetrare. Che nulla è più rimasto in possesso dell’individuo. Nemmeno un atto così libero e naturale come il respiro.
Dal punto di vista sociale, istaura una diffidenza radicale non solo verso l’altro, ma soprattutto verso noi stessi: ognuno si sente agli occhi degli altri un potenziale assassino di individui innocenti e fragili, un nemico della società. La mascherina ci ricorda che ognuno di noi potrebbe essere veicolo di contagio, veicolo del male, collaborazionista del nemico contro cui si sta combattendo. Eppure, è proprio a causa di questo senso di colpa, intollerabile come un coltello piantato nelle viscere, che accettiamo questa inaudita limitazione. Soltanto in questo modo può essere affievolito il senso di colpa, soltanto nell’indossare la mascherina possiamo pacificamente nutrire la fiducia e speranza che il potere ci promette: la vittoria contro il nemico. Occorre giungere alla sofferenza, come in un rituale religioso, in cui il dolore e l’identificazione con la vittima ci assolva da ogni colpa. La mascherina è il dispositivo più efficace a simulare l’affanno di uno stato di crisi respiratoria, e riporta alla mente la sofferenza di chi viene colpito gravemente dal virus. La mascherina assume in questo modo i tratti di un rito di purificazione.
Allo stesso modo viene vissuta la somministrazione del vaccino. Nonostante la sua sostanziale inutilità, a causa delle varianti del virus già in circolazione che lo renderebbero inefficace; nonostante i molti dubbi sugli effetti collaterali, non ancora chiariti da una adeguata sperimentazione; nonostante la consapevolezza diffusa di tutti questi enormi limiti, risaputi anche da chi si sottopone volontariamente alla vaccinazione; tuttavia, è divenuto un momento desiderato ardentemente, atteso con impazienza. Per alcuni, rappresenta il momento liberatorio, la realizzazione della promessa della fine di un incubo, fatto di confinamenti, di restrizioni, di aperta negazione delle possibilità più elementari dell’esistenza. Di fatto, è come se avessero accettato il ricatto di chi gestisce il potere nei paesi di tutto il mondo: “o vi vaccinerete, oppure continuerete a non godere mai più della vostra libertà!”. Agisce probabilmente anche un desiderio insopprimibile: il raggiungimento, tutti insieme, della vittoria sul nemico. Un istinto che appare nelle ideologie belliche nazionalistiche, non a caso riemerse di questi tempi. Ma per tutti rappresenta un rito di espiazione. Il racconto mediatico ufficiale della pandemia ha colpevolizzato tutti i cittadini, trasformandoli in potenziali veicoli del virus, in potenziali untori, in potenziali assassini di soggetti deboli e innocenti.
Sottoponendosi al vaccino, molte persone avranno l’occasione di redimersi dal loro peccato, dalla loro colpa inconfessabile. Tanto più che questi impulsi giacciono naturalmente nel rimosso dell’umanità. E gli eventuali effetti collaterali, come un rialzo febbrile, una reazione allergica avversa, avranno non solo un valore espiatorio più alto, ma equivarranno alle medaglie sul petto dei caduti per il bene della patria, per l'ottenimento della vittoria. Anche se questa sarà rimandata indefinitamente, come in un laico Regno dei Cieli, allo scopo di tenere in pugno questa massa il più a lungo possibile.
Stefano Vespo
Pubblicato da Tommesh per Comedonchisciotte.org