di Maurizio Marrone
Tutto chiede salvezza, regia di Francesco Bruni, Netflix, 2022.
Dal “cuore del racconto sullo smarrimento… si cammina in bilico sul filo del vuoto che non pretende di essere riempito, in un gioco di specchi sui singoli che si fanno comunità, stretti in un unico abbraccio”. Così scrive sull’“Espresso” del 24.10.2022 Beatrice Dondi nella sua bella recensione di Tutto chiede salvezza, la serie Netflix tratta dall’omonimo e celebrato libro di Daniele Mencarelli.
La vicenda narra di Daniele, un millennial tra i tanti, la cui vita si consuma identica a quella di altri come lui, tra famiglie normali, noia, serate di festa, alcol, un po’ di droga (ma neanche troppa) e un lavoro che si sopporta a malapena. Per Daniele la distanza dal mondo – cos’altro è il disagio psichico? – è come un rumore sordo che lo accompagna da sempre, un’ombra muta così familiare che stenta a riconoscerla; ma c’è e probabilmente c’è sempre stata. Un malessere battente che striscia silenzioso e inesorabile come un serpente sulla sabbia, fino a quando esplode in un attacco psicotico che è come un urlo di dolore disperato e lacerante. Daniele si sveglia legato al letto del reparto psichiatrico di un ospedale, dopo che a suo carico le autorità, insieme ai genitori, hanno disposto un trattamento sanitario obbligatorio di una settimana. Quando si riprende non ricorda nulla di quello che è accaduto (lo farà in seguito) e, ovviamente, non accetta di essere stato sbattuto in quell’inferno insieme ai matti. “Io nun c’entro un cazzo co’ voi, io nun so’ come voi” grida ai suoi compagni di stanza, con la bava alla bocca e gli occhi ricolmi di un terrore liquido e incredulo. Ma invece lui è proprio come loro, anima persa in un mondo che ha smesso di dire Noi e ostenta tronfio la propria deriva. Ed è con loro, con i “matti” con cui condivide la stanza – Mario, Gianluca, Alessandro, Giorgio e Madonnina – che, come in un romanzo di formazione, Daniele suo malgrado intraprende il viaggio che lo porterà a dare un volto alla maschera anonima del suo dolore. Un viaggio fatto di pareti scrostate, di urla sguaiate e improvvise, di infermieri e psichiatri inariditi dalla routine, di sguardi che condannano e compatiscono, di sedute terapeutiche in cui non ci si ascolta; un viaggio fatto di tempo vuoto, di quel vuoto che sembra impossibile da riempire ma che tutti ci dicono che invece lo dobbiamo riempire fino all’orlo. Ma un viaggio fatto anche di comprensione, ascolto, complicità, risate, abbracci e goffi minuetti; ma anche di scazzi, insulti e litigi. Un viaggio fatto con loro, con i matti con cui condivide l’inferno. Con i matti Daniele ritrova un pezzetto di vita che sembrava persa per sempre, nella quale, timidamente, l’Io ridiventa Noi; con loro Daniele non si sente più estraneo al mondo e, forse per la prima volta, assapora il senso della parola comunità.
Nell’Istituzione negata1 Franco Basaglia sosteneva che nel percorso terapeutico è essenziale riconsegnare il malato a una vita comunitaria, a un agire condiviso e partecipato, dal quale la malattia, o il modo in cui veniva trattata all’epoca, lo aveva sradicato. Basaglia non era certo un cantore entusiasta del sistema, ma nella sua visione, peraltro tutt’altro che ortodossa, siccome il mondo dei “non malati” rimane in ultima istanza ancora e sempre il luogo dell’agire comune, coinvolgere il paziente in una gestione collettiva, ad esempio, delle decisioni significa, anziché isolarla, reinserire la sua disabilità in un contesto di pratiche e dinamiche socialmente condivise. Dalla dissociazione dell’individuo isolato che affoga nel disagio si deve quindi tornare alla socialità del vivere in comune. Ma che succede se invece, come osserva giustamente Dondi, è proprio nel cuore del disagio mentale che i singoli si fanno comunità, “stretti in un unico abbraccio”?2 Di cosa ci parla questo scarto dell’immaginario, questa inversione dannata per la quale il dolore condiviso – perché di questo si tratta – diventa l’unica casa comune in cui dall’Io si passa al Noi? Ci parla di un sistema al collasso che, smarrita ogni forma di empatia, ha scardinato le relazioni primarie del vivere insieme e si è lanciato ad occhi bendati in una folle corsa verso la sua compiaciuta autodistruzione. Alcuni lo chiamano Antropocene; un Alzheimer della specie secondo Matteo Meschiari, per il quale, in vista della propria fine
l’umanità sta ridefinendo il proprio presente, i sistemi di valori, le priorità politiche ed economiche; in altre parole sta già anticipando alcuni effetti sociali del dopo-collasso, accettando soluzioni estreme, messe a tacere per decenni sotto le ceneri dell’ultimo conflitto mondiale: l’ homo homini lupus, l’occhio per occhio, l’individualismo al di sopra di ogni legge giuridica e morale, il rancore sociale come arma di clan, la propaganda e la pratica xenofoba, l’orgoglio per la nuda vita e il disprezzo per la cultura e il sapere, il desiderio di vendetta collettiva, la violenza di governo verso i migranti, i marginali, i poveri.3
Il personaggio di Tutto chiede salvezza è il simbolo di una generazione che vive il senso di inadeguatezza, ormai, come un tratto naturaliter dell’esistenza ma che, allo stesso tempo, ha il terrore di darle un nome. Perché se una cosa la nominiamo poi quella diventa reale. E se il tuo dolore ha un nome che tutti possono riconoscere (depressione, infelicità, psicosi, stramberia, devianza, povertà e chi più ne ha più ne metta) e non si conforma all’individualismo che, con le zanne bene in vista, impera sovrano, allora il sistema ti rigurgita ai margini in forma di scoria. Un altro celebre deviante, il Joker di Todd Philips, all’inizio del film si chiedeva: “Sono solo io, o la gente sta impazzendo là fuori?” Anche Daniele a un certo punto si domanda se è lui a essere sbagliato o se non è forse il mondo a essere impazzito. La domanda è tanto semplice, quanto cruciale e la risposta, purtroppo, è sotto gli occhi di ognuno. Ecco che, allora, costruire una casa di tutti nel disagio psichico e far crescere il germe della comunità in un contesto che, di primo acchito, sembrerebbe espungerlo alla radice, diventa metafora di un gesto di disperata e radicale resistenza. La salvezza per tutti e tutto, che Daniele chiede alla fine della serie, non si trova più in un mondo ormai perduto, ma nell’altrove di un sottomondo che tutti guardano con orrore, ma nel quale, insieme, faticosamente, si cerca di ricomporre il senso delle proprie vite spezzate.
Probabilmente tutti hanno ancora negli occhi le immagini degli sfollati ucraini che, all’inizio della guerra, si rifugiavano negli scantinati e nei sotterranei delle città per sfuggire alla devastazione che si consumava sopra le loro teste, mettendo in scena un altrettanto straniante rovesciamento di piani tra mondi contrapposti. Nell’immaginario horror l’universo ctonio – si pensi a Stranger things o allo splendido Noi di Jordan Peele – è il luogo simbolico dell’antimondo per definizione. La dimora di ogni principio di disgregazione, il regno di Ade, dell’ombra incarnata in cui ogni relazione è frantumata e in cui si inverano le nostre paure più profonde. Ma proprio questo universo, l’antro sotterraneo, freddo, pauroso, buio e inospitale di una metropolitana dismessa, diventa invece teatro di una comunità che cerca di risorgere dalle proprie ceneri. Corpi tremanti, sguardi persi, occhi umidi, volti anneriti e rughe profonde. Ma si cucina, si canta, si raccontano favole ai bambini intorno a un fuoco improvvisato. Si reimpara a vivere insieme perché il mondo di sopra è esploso. Un pezzo di umanità che – si parva licet, come Daniele e i matti con cui condivide la stanza – si ritrova in un luogo inaspettato a rifondare se stessa.
L’intreccio un po’ azzardato di queste due metafore ci offre lo scenario di un sistema in frantumi che mette in fuga l’idea stessa di comunità e performa quella che Ernesto De Martino chiamava la crisi definitiva della presenza, che è valorizzazione intersoggettiva della vita. Proprio in riferimento ai deliri psicotici De Martino diceva:
In realtà l’esserci nel mondo si identifica con la stessa vita della cultura e i ‘mondi’ degli psicotici diventano relativamente comprensibili solo come rischio vissuto di non poterci essere in nessun mondo culturale umano. Tali ‘mondi’ sono antropologicamente importanti in quanto denunziano una tentazione immanente allo stesso ordine culturale, la tentazione di annientarsi.4
Una tentazione alla quale l’Antropocene sembra non essere più in grado di sottrarsi.