Di quarantena e scelte alimentari – a cura della BiOsteria “alla Cuoca Rossa – da Clara” del Centro Sociale Bruno
Il pericolo principale è pensare al Coronavirus come un fenomeno isolato, senza storia, senza contesto sociale, economico o culturale. Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo. Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me[1].
“Se non con questa pandemia, quando?” È da quando è iniziato il distanziamento sociale che questa domanda ci frulla in testa. Siamo la BiOsteria vegana del Centro Sociale Bruno e pensiamo che non ci sia un momento più indicato di questo per prendere parola. Sarà che la condizione di “cattività” che stiamo vivendo da più di un mese, con tutto il senso di impotenza che porta con sé, ci spinge ad immedesimarci con le vite di chi in gabbie ben più anguste delle nostre case trascorre per intero la propria misera esistenza. Sarà che in queste settimane ci è capitato di leggere e seguire in TV inchieste giornalistiche che mostrano con sempre maggiore enfasi il legame strettissimo che intercorre tra l’allevamento intensivo, la devastazione degli habitat naturali degli animali selvatici e tutte le più recenti pandemie, compresa quella devastante che stiamo vivendo in questi mesi. Sarà che ciò che hanno in comune tutte queste inchieste è che, pur partendo da premesse nettissime, evitano puntualmente di portare il ragionamento a quelle che a nostro parere dovrebbero essere le sue logiche conseguenze.
Un piccolo assaggio dello stravolgimento del pianeta che l’umanità capitalista ha operato finora è qui, oggi, sotto ai nostri occhi e per la prima volta facciamo davvero fatica a distogliere lo sguardo, pensando “me ne occuperò più avanti, migliorerò domani, adesso non ho tempo”. Ci capita di pensare a chi tra i nostri compagni e compagne è diventato genitore da poco, e di domandarci se questi piccoli esseri umani, oggi bambine e bambini e domani adolescenti, avranno ancora la possibilità di vivere almeno un po’ di quella “vita normale” che tutt* noi abbiamo avuto, di correre e giocare all’aperto incrociando i loro coetanei senza che la paura del contagio o le sanzioni dei “guardiani della rivoluzione” de’ noantri glielo impediscano.
Ma andiamo con ordine e facciamo un piccolo ripasso per chi si fosse perso le ultime puntate. Benché chi mangia carne generalmente dichiari di essere contrario all’allevamento intensivo e all’inevitabile brutalizzazione di quegli animali che di questo sistema costituiscono le fondamenta, risulta abbastanza evidente che esso non è che la risposta del capitalismo ad una domanda di proteine animali che a livello globale è in costante crescita. Detto in altre parole l’allevamento cosiddetto “intensivo” non è frutto dell’ipotetico sadismo degli attori economici direttamente coinvolti, i quali trarrebbero godimento alla vista dei loro animali stipati all’inverosimile; bensì si tratta del sistema più efficiente per trasformare nel minor tempo possibile, e con la massima riduzione del dispendio di risorse ambientali ed economiche, ad esempio, un maiale neonato in un adulto “pronto” per la macellazione e quindi in un prosciutto. La nostra collaudata abitudine ad alimentarci pressoché quotidianamente di derivati animali ha certamente molto a che fare con la sovra-disponibilità di questi prodotti in ogni angolo dei supermercati a prezzi a dir poco concorrenziali (non perché la “materia prima” di per sé valga poco ma perché il settore della zootecnia è fortemente “dopato” da finanziamenti pubblici a molteplici livelli). Tuttavia, anche nel momento in cui la maggioranza dei consumatori dovesse porsi degli interrogativi rispetto la bontà di questa catena produttiva e quindi decidere di “dirottare” i propri acquisti su filiere più “pulite” accettando anche di ridurre drasticamente il proprio consumo di questi alimenti (soprattutto in questo settore la differenza di prezzo tra biologico e convenzionale è abissale) resta un dettaglio difficilmente trascurabile: la finitezza del nostro pianeta. Ovvero non si tratta meramente di una questione di domanda/offerta: la possibilità che l’intera filiera si trasformi da allevamento intensivo ad estensivo non è praticabile innanzitutto in termini di spazio e richiederebbe, inoltre, un consumo più elevato di risorse (tipo l’acqua) e comporterebbe una maggiore produzione di inquinamento, dato che l’animale impiegherebbe ovviamente più tempo a raggiungere la cosiddetta “taglia commerciale”.
Dunque il problema è sì il capitalismo che si insinua nell’industria alimentare, ma lo è soprattutto il consumo di carne in sé, in quanto, la quantità di carne pro capite che potremmo considerare “sostenibile” a fronte di emissioni, sfruttamento di suolo e risorse e numero di persone che popolano la Terra si attesterebbe attorno ai 200 grammi all’anno[2]. È evidente che non si tratta di riduzionismo o allevamenti biologici ma di una dieta pressoché vegana.
Fatta questa premessa è facile capire che, finché l’abitudine di alimentarsi di corpi animali caratterizzante la società occidentale permarrà uno status symbol, man mano che le popolazioni più povere del pianeta (cinesi e indiani in primis) potranno accedere alla vendita di carne a buon mercato, quello stesso capitalismo saprà trovare sistemi per “razionalizzare” la produzione in spazi sempre più angusti (vedi “pigs hotel”). In modo crudelmente ironico, alla costruzione di spazi ristretti dove far “vivere” migliaia di capi di bestiame, fa da contraltare la distruzione di superfici di terreno sempre più ampie che vengono sottratte a foreste ricche di biodiversità (naturalmente anche i loro abitanti umani vengono scacciati) per divenire sconfinate coltivazioni di legumi e cereali OGM destinati a diventare mangime.
Queste foreste, peraltro, sono ecosistemi in precario equilibrio che, nel momento in cui – per usare un eufemismo – vengono “turbati”, portano tutte le loro componenti a cercare di ristabilire lo scompenso. Virus e batteri fanno parte di questi ecosistemi. Non avendo più degli ospiti stabili a causa del turbamento ecologico, questi tendono ad evolversi riuscendo ad adattarsi a nuovi ospiti, anche di specie diverse, dando vita al fenomeno chiamato spillover, ovvero il salto tra specie di un patogeno.
Uno dei tanti “pigs hotel” in Cina, enormi strutture a più piani in cui vengono allevati migliaia di maiali.
Ma c’è di più: negli allevamenti di tipo industriale gli animali assumono antibiotici quotidianamente. Questa pratica è di norma attuata anche in modo preventivo, allo scopo di evitare l’insorgenza di possibili malattie tra il bestiame che farebbero crollare le entrate dell’azienda o della catena in questione. I batteri, come i virus, si evolvono in modo veloce. Possono adattarsi alle concentrazioni di battericida trasmettendo poi la resistenza alla prole e, grazie a frammenti genici detti “plasmidi,” ad individui non resistenti. Alcuni ceppi possono inoltre trasmettere la resistenza ad altre specie di batteri che da facilmente debellabili diventano una minaccia, con effetti devastanti in ambito medico. Sempre più ceppi batterici vengono scoperti resistenti agli antibiotici più utilizzati, rendendo sempre più difficile sintetizzarne di efficaci, tanto che si parla di “crisi degli antibiotici”. I virus, quindi, non sono l’unica ombra sul nostro futuro, e forse nemmeno la più spaventosa.
Quindi, “non solo” l’allevamento industriale è alla base di larga parte dell’inquinamento ambientale, consuma il suolo che serve per sfamare gli animali, consuma l’acqua che è un bene sempre più scarso, trasforma foreste in monoculture, bensì minaccia la nostra possibilità di abitare questo pianeta anche sul versante sanitario.
Il primo allevamento galleggiante al mondo, in costruzione a Rotterdam, in Olanda, nato da un’idea di Minke e Peter Van Wingerden.
E veniamo al presente: nell’arco di poche settimane è capitato qualcosa di completamente inimmaginabile, che stravolge completamente le vite di tutt* noi. Dalla sera alla mattina il virus SARS-CoV-2, un nemico microscopico e invisibile, ci costringe a chiuderci in casa, a temere la vicinanza dell’altro in quanto potenziale portatore di un contagio assassino. Sembrava impossibile eppure dal nulla ci ritroviamo catapultati in una sorta di “Promessi Sposi 2.0” con tanto di colpevolizzazione del singolo e caccia all’untore, moduli da compilare ogni qual volta si abbia voglia o necessità di uscire di casa e paventate ipotesi di tracciamento e controllo capillare dei movimenti di ognuno di noi, sorta di nostrani e novelli “guardiani della rivoluzione” ad ogni angolo pronti a verificare la liceità delle nostre giustificazioni. Come è stato possibile tutto questo?
“Nell’ottobre del 2016 i suini neonati degli allevamenti della provincia di Guangdong, nel sud della Cina, cominciarono ad ammalarsi per il virus della diarrea epidemica suina (PEDV), un coronavirus che colpisce le cellule che ricoprono l’intestino tenue dei maiali. Quattro mesi dopo, tuttavia, i piccoli suini smisero di risultare positivi al PEDV, anche se continuavano ad ammalarsi e a morire.
Come confermarono gli esami, si trattava di un tipo di malattia mai visto prima e che fu battezzata come Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV), provocata da un nuovo coronavirus che uccise 24 mila suini neonati fino al maggio del 2017, precisamente nella stessa regione in cui tredici anni prima si era scatenata l’epidemia di polmonite atipica conosciuta come SARS.Nel gennaio del 2017, nel pieno dello sviluppo dell’epidemia suina che devastava la regione di Guangdong, vari ricercatori in virologia degli Stati Uniti pubblicarono uno studio sulla rivista scientifica “Virus Evolution” in cui si indicavano i pipistrelli come la maggiore riserva animale di coronavirus del mondo.
Le conclusioni della ricerca sviluppata in Cina furono coincidenti con lo studio nordamericano: l’origine del contagio fu localizzata, con precisione, nella popolazione di pipistrelli della regione. Ma come fu possibile che una epidemia tra i maiali fosse scatenata dai pipistrelli? Cos’hanno a che fare i maiali con questi piccoli animali con le ali?
La risposta arrivò un anno dopo, quando un gruppo di ricercatori cinesi pubblicò un rapporto sulla rivista “Nature” in cui, oltre a segnalare al loro paese il focolaio rilevante di apparizione di nuovi virus ed enfatizzare l’alta possibilità di una loro trasmissione agli esseri umani, facevano notare come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli.
Inoltre, lo studio rese chiaro che l’allevamento industriale ha incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione.
Tra gli autori di questo studio compare Zhengli Shi, ricercatrice principale dell’Istituto di virologia di Wuhan, la città da cui proviene l’attuale Covid-19, il cui ceppo è identico per il 96 per cento al tipo di coronavirus trovato nei pipistrelli per mezzo dell’analisi genetica.
Nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione mondiale della salute animale (Oie) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), segnalarono l’incremento della domanda di proteina animale e l’intensificazione della sua produzione industriale come principali cause dell’apparizione e propagazione di nuove malattie zoonotiche sconosciute, ossia di nuove patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani. Due anni prima, l’organizzazione per il benessere degli animali Compassion in World Farming aveva pubblicato sull’argomento un interessante rapporto. Per redigerlo, l’associazione britannica aveva utilizzato dati della Banca mondiale e dell’Onu sull’industria dell’allevamento che erano stati incrociati con rapporti sulle malattie trasmesse attraverso il ciclo mondiale della produzione alimentare.
Lo studio concluse che la cosiddetta “rivoluzione dell’allevamento”, ossia l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo legato ai macro-allevamenti, stava provocando un incremento globale di infezioni resistenti agli antibiotici, rovinando i piccoli allevatori locali e promuovendo la crescita delle malattie trasmesse attraverso alimenti di origine animale.”
E ancora
“Nonostante l’origine esatta del Covid-19 non sia del tutto chiara, essendo possibili cause dell’infezione virale tanto i maiali delle macro-fattorie quanto il consumo di animali selvatici, questa seconda ipotesi non scagiona gli effetti diretti della produzione intensiva di animali.
La ragione è semplice: l’industria dell’allevamento è responsabile dell’epidemia di influenza suina africana (ASP) che ha devastato le fattorie cinesi che allevano maiali l’anno scorso.
Secondo Christine McCracken, la produzione cinese di carne di maiale potrebbe essere crollata del 50 per cento alla fine dell’anno passato. Considerato che, almeno prima dell’epidemia di ASf nel 2019, la metà dei maiali che esistevano nel mondo veniva allevata in Cina, le conseguenze per l’offerta di carne di maiale sono state drammatiche, particolarmente nel mercato asiatico.
E’ precisamente questa drastica diminuzione dell’offerta di carne di maiale che avrebbe motivato un aumento della domanda di proteina animale proveniente dalla fauna selvatica, una delle specialità del mercato della città di Wuhan, che alcuni ricercatori hanno segnalato come l’epicentro dell’epidemia di Covid-19.”
Gli stralci che abbiamo citato vengono da uno dei tanti articoli ed inchieste che in queste settimane stanno ponendo l’accento sul consumo di carne animale come direttamente o indirettamente responsabile della pandemia che sta sconvolgendo le nostre esistenze. E la cosa peggiore è che queste stesse fonti d’informazione non fanno mistero del fatto che date queste premesse ecologiche l’attuale epidemia di Covid-19 non è che una delle varie che nel prossimo futuro potrebbero nuovamente travolgerci. Naturalmente c’è anche chi la pensa diversamente, ma ci scuserete se non ci fidiamo granché.
Non siamo fra quelli che credono che “andrà tutto bene”, o che “tutto tornerà come prima”. Crediamo anzi che un pianeta avvelenato da un sistema economico malato e senza scrupoli quale è il nostro non potrà in futuro che produrre nuove epidemie. E non dubitiamo nemmeno che il capitalismo saprà trovare il sistema di continuare a trarre profitto anche in un mondo nel quale il distanziamento sociale sia divenuto la regola, in cui il tracciamento degli spostamenti di ognuno sia normalità socialmente accettata e ogni occasione di “assembramento” condannata senza remore. In un futuro come questo, siamo in grado di immaginare che ruolo potranno avere i movimenti di cui facciamo parte? L’altra domanda è: di fronte a queste premesse, crediamo davvero che sia giusto continuare a ignorare la “questione animale”? Crediamo davvero che, dinanzi all’esistenza di un legame così stretto tra l’abitudine dell’essere umano di cibarsi di altri animali e l’insorgenza di pericolose pandemie, come movimenti sia corretto lasciare la questione di ciò che mettiamo nel piatto nel novero delle questioni private, rispetto alle quali ognun* è liber* di decidere per sé?
Non dovremmo invece invocare a gran voce la dichiarazione di una crisi e iniziare collettivamente a praticare fin d’ora un’alternativa più sostenibile promuovendola il più possibile? Insomma, se non con questa pandemia, quando sarà il tempo per decidere di passare ad un’alimentazione che non si basi sull’iper-concentrazione, la tortura e l’uccisione di miliardi di individui? Se non oggi che tutt* possiamo toccare con mano la frustrazione di un’esistenza in cui siamo “ingabbiati”, privati della possibilità di autodeterminarci, i nostri movimenti dipendenti dai capricci di “guardiani” ottusi, quando?
“Quello che sta succedendo potrebbe dare una motivazione in più alle persone per rivedere le proprie abitudini alimentari, non fosse altro per evitare ondate di pandemia a raffica. Ma quello che in realtà immagino succederà, è che non cambierà un bel niente. L’occidente ricco non vuole rinunciare ad alcun lusso. La retorica di Trump non è distante da quella della maggior parte della popolazione dei paesi ricchi – di destra di sinistra, intellettuali o meno – che davanti a devastazioni ambientali, ecatombi animali ed umane, pandemia semplicemente si volta dall’altra parte. Aspetta che passi e dimentica quanto appena successo, e continua esattamente come prima. Anche se questa occasione potrebbe davvero farci cambiare prospettiva, ma costa troppa fatica. Mangiare carne è un lusso, le chiacchiere stanno a zero. E mentre dite “ci devo riflettere” quando in realtà semplicemente dimenticate, avanti tutta verso la fine. Solo che non sarà indolore.”