di Giorgio Bona
Canto di lavoro dell’inizio del XX secolo.
Tutto ebbe origine quando l’avvocato Modesto Cugnolio presentò nel 1906 il progetto di legge per ridurre a otto ore la giornata lavorativa delle mondine, un orario che si rifaceva al regolamento Cantelli, ovvero divideva la giornata in otto ore di lavoro, otto ore di svago e otto ore di riposo.
In questa canzone c’era anche un riferimento alla Russia che riguardava la Rivoluzione del 1905, ma la canzone va collegata alle grandi lotte del 1921/22.
Il 20 febbraio del 1919 la FIOM formalizzò con la Confederazione Industriale un accordo per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere e 48 settimanali.
Rappresentava il primo passo, un piccolissimo tassello per un riconoscimento che nel mondo del lavoro non aveva cittadinanza, una grande conquista versata in sudore, lacrime e sangue, naturalmente sempre da una parte sola, quella di una classe lavoratrice impegnata a tenere alto il conflitto soffocato dai governi liberal liberisti con la ferocia della repressione.
E un grandissimo contributo lo hanno dato con i loro grandi sacrifici le donne che svolgevano uno dei lavori più duri e massacranti.
Dodici, quindici ore al giorno nell’acqua fino al ginocchio, piegate a raccogliere e piantare riso. Così per quaranta giorni, lontano da casa, mangiando polenta e riso, dormendo sui pagliericci nelle baracche con bisce e topi. Quando lavoriamo è proibito parlare, e se una di noi lo fa il caporale ci riprende anche con minacce. Ma per fortuna cantare si può. Così quando vogliamo comunicarci qualcosa, magari che una nostra compagna sta male, o per annunciare uno sciopero, ci mettiamo a cantare.
Due grandi figure di queste dure lotte e di grandi rivendicazioni a distanza di quasi mezzo secolo, un arco di tempo con la situazione della classe lavoratrice non cambiata di molto, sono state determinanti per la conquista di questi sacrosanti diritti: Maria Provera e Maria Margotti.
Partiamo da Maria Provera. Erano anni di grandi scioperi, detti al tempo “tumulti”: il primo a Vettignè sedato dalla cavalleria di Novara, a denunciare la vita terribile che facevano le lavoratrici della monda oltre alle tante e massacranti ore di lavoro con i piedi a mollo e la schiena curva. Bevevano l’acqua dei fossi, dormivano su un pagliericcio dentro le stalle. E quando quelle donne coraggiose bloccarono Vercelli, nel giugno del 1906, alle prime ore del pomeriggio Maria si affacciò su quella piazza piena di gente dal balcone del municipio, dopo una feroce trattativa che sembrava non avere fine, gridò a gran voce. J’an firmà! Avevano firmato le otto ore, le prime in Europa a ottenerle, un obiettivo tanto mitizzato dalle organizzazioni sindacali e dai deputati socialisti di inizio secolo, quanto osteggiato dalle associazioni di categoria padronali.
Nel maggio 1912, in occasione delle lotte in Lomellina, celebrate nel canto anonimo Le mondine contro la cavalleria, Maria viene arrestata, ma dopo tredici giorni dovranno rilasciarla.
Saltiamo di quasi mezzo secolo. La fine degli anni quaranta ha costituito il periodo più duro delle masse bracciantili e si sposta dal vercellese e dalla Lomellina in Emilia Romagna dove i lavoratori in lotta si scontrano con una durissima reazione padronale che si avvale di grandi schieramenti da parte delle forze dell’ordine. Il ministro Scelba mise a disposizione carabinieri, polizia e il corpo speciale “celere” appositamente addestrato per reprimere le manifestazioni operaie e contadine.
Altra paladina dei diritti, Maria Margotti di Alfonsine.
Vedova, madre di due bambine, operaia della fornace cooperativa di Filo, dove aveva trovato da poche settimane occupazione, venne falciata dalla raffica di mitra esplosa da un carabiniere. Aveva soltanto 34 anni: diventò un simbolo, una bandiera, la prima bracciante caduta nello sciopero della primavera del ‘49.
Oltre il confine degli argini, tu uscirai dal fiume della nebbia, tu ritroverai la tua strada e la tua casa. Ma non dimenticare quello che i caduti ti hanno chiesto: alimenta la fiaccola della tua fede perché i morti dormano il loro sonno di pace.
(nel nome di Maria Margotti l’unità di tutti i lavoratori)
Con il suo vestito scuro di cotonina, i capelli raccolti nel bianco fazzoletto delle mondine, mentre lungo la strada intonava con le sue compagne i canti della risaia tramandate di madre in figlia, quei canti nati dalle più recenti lotte per la libertà e il lavoro, Maria andò incontro alla morte.
Fu l’inizio di una serie di morti per il pugno duro usato dal governo ed ebbe una ripercussione tremenda. Sarebbero molte le azioni di repressione, ma mi limito a ricordare che solo sei mesi dopo l’assassinio di Maria, il 9 gennaio a Modena si protestava contro i licenziamenti ingiustificati delle Fonderie Riunite. La polizia sparò ancora sulla folla provocando la morte di sei lavoratori.
Dopo tre anni di battaglia giudiziaria, il 13 luglio del 1953, la Corte d’appello di Bologna confermò la sentenza al carabiniere che scontò soltanto una pena di sei mesi di reclusione. Una pena mite, leggera accompagnata al proscioglimento di tutti i suoi superiori. Ma il nome di Maria Margotti diventò il simbolo della ferocia delle classi dominanti nei conflitti con i lavoratori.
Se consideriamo che, su oltre 4000 braccianti, soltanto un centinaio risposero alle chiamate dei capi crumiri ecco emergere una vera coscienza di classe e l’attaccamento a una grande organizzazione unitaria. Le donne non furono meramente comprimarie ma ebbero un ruolo di grandi protagoniste nella conquista di tali diritti.
Perché nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, in prima linea, accanto agli uomini marciano le donne? È significativo nella storia delle conquiste femminili e nella storia del sindacato di lotta il ruolo femminile, e le due Marie ne rappresentano idealmente le portavoci.