di Gianfranco Marelli
Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, Roma 2020, pp. 237, euro 15,90
Anche se, pirandellianamente, in un romanzo sono i suoi personaggi a cercare l’autore, Francesco Staffa – di professione antropologo, collaboratore con diversi musei etnografici, consulente per la trasmissione Rai “Geo e Geo”, nonché per diverse riviste, tra cui Nazione Indiana e Antropologia Museale – ha ricercato nei sei personaggi del suo primo romanzo di formazione, “Akuaba”, di individuare nel turbinio di sentimenti, emozioni, passioni che caratterizzano le loro vicende narrate, la poliedricità schizofrenica della cultura occidentale ogni qual volta si trova a dover fare i conti con l’Altro da sé, sospesa tra un buonismo pietoso e un razzismo pauroso.
Infatti, più che di “romanzo di formazione”– etichetta utilizzata dalla critica per esortare i debuttanti a migliorare il proprio stile con una successiva prova di maturità – siamo in presenza di un “romanzo di introspezione” in cui l’autore con abilità inusuale descrive e analizza il conflitto fra desiderio e senso di colpa, fra avidità e seduzione, fra speranza e delusione che i sei personaggi [due coppie occidentali e una coppia africana] affrontano in una situazione catastrofica, causata dalla crisi petrolifera che nei primi anni ‘80 del secolo scorso aveva trasformato la Nigeria dal paese di bengodi ad un luogo in cui rimanere o fuggire è altrettanto pericoloso, ma soprattutto foriero di conseguenze nefaste.
Sì, perché la storia raccontata da Francesco Staffa ha come luogo la Nigeria, il paese più popolato del golfo di Guinea, quando nel 1983 il boom petrolifero si interrompe bruscamente, e con la perdita degli introiti altissimi ottenuti dall’estrazione del greggio – grazie ai quali aveva tratto il supporto per avviare uno sviluppo complessivo attraverso i massicci investimenti, il ricorso all’uso della tecnologia straniera e la manodopera a buon mercato proveniente da paesi limitrofi come il Ghana – si scatena la caccia al capro espiatorio, individuando i colpevoli non certo nei responsabili della corruzione economico-politica della classe al potere collusa con le multinazionali straniere (in primis l’italianissima ENI), ma negli ultimi, gli immigrati, costretti repentinamente a lasciare il paese affetto da una forte crisi occupazionale in tutti i settori.
In questo contesto si intrecciano la storia di sei personaggi che, separatamente, vivono le conseguenze di questo dramma economico-sociale che condurrà oltre due milioni di lavoratori clandestini – in gran parte provenienti dal Ghana – ad abbandonare in fretta e furia la Nigeria in un crescendo di sofferenza, umiliazione, sopraffazione. Sennonché le loro sorti collidono contro situazioni disperate le cui singole scelte personali influenzeranno drammaticamente i loro destini. Così, dal paese africano prende il via una vicenda in cui migrazioni, neocolonialismo, corruzione e manipolazione si intrecciano a un groviglio di passioni, desideri, ambizioni inseguite a qualsiasi costo, e dove il privilegio di essere bianchi e occidentali si traduce nella possibilità di disporre dell’altrui vita e di giustificarne moralmente la propria condotta nei confronti di chi è costretto a subirla, senza alcuna ragione, se non quella di avere la pelle di un altro colore.
Ma la storia che l’autore fa interpretare ai sei personaggi, va ben oltre la consueta disamina di chi osserva quanto la vita abbia un “peso diverso” a seconda di dove nasci, di chi frequenti e del ruolo che hai potuto assumere nella società. Certo, Amna e Adebisi – la giovane coppia ghanese costretta a far fronte ad un cambiamento radicale della propria vita a seguito della crisi economico politica che li ha espulsi dalla Nigeria in quanto non più utili allo sviluppo del paese – affrontano il proprio dramma esistenziale confidando nella clemenza dell’altro, non potendo che sottomettersi alle sue disposizioni, nella speranza di essere compresi e pertanto aiutati; ma l’aiuto e la comprensione che ricevono dalle due coppie italiane [Franco/Fabienne e Guido/Ada], sebbene motivate e scaturite da posizioni diverse e apparentemente contrastanti, sono la conseguenza di egoistici interessi che il privilegio di essere bianchi e occidentali non solo giustifica ma legittima storicamente.
Del resto, quali interessi in comune potranno mai condividere i sei personaggi del romanzo “Akuaba” se non la capacità del loro autore di far loro vivere passioni contrastanti di fronte a problemi contingenti, in modo da intrecciare fra loro relazioni che li condurranno a compiere scelte il cui esito influirà sul prosieguo della loro vita, nel disperato bisogno di imporsi, anche a discapito dell’altro da sé?
Così, in un susseguirsi di colpi di scena in cui il romanzo si colora di giallo, Francesco Staffa dipinge un affresco che offre allo sguardo dei lettori e delle lettrici la possibilità di misurarsi con la capacità di comprendere fino a che punto si è disposti a immedesimarsi nei sei personaggi, ma soprattutto nelle sei diverse situazioni in cui essi si trovano, costretti a accettare qualsiasi compromesso pur di sopravvivere e sperare nel domani (Amna e Adebisi), mantenere con ogni mezzo i propri privilegi e la ricchezza conquistata (Franco e Fabienne), soddisfare prioritariamente i loro più ancestrali desideri a scapito della felicità altrui (Guido e Ada).
A tenere insieme queste tre vicende così diverse e distanti, è un ciondolo, un amuleto, diffuso nell’Africa occidentale fra le popolazioni Ashanti, che le donne indossavano come protezione e per favorire la gravidanza e per assicurare salute e bellezza al nascituro. Questo oggetto rituale capace di infondere forza e sostegno si chiama Akuaba, ed è la chiave interpretativa che l’autore gira magistralmente nella toppa del racconto, in un continuo rimando di prolessi/anticipazione e analessi/retrospezione, per mettere in scena – tra Roma e Lagos, tra il litorale laziale e la misteriosa foresta di Osogbo – sei personaggi alla ricerca della propria felicità. Felicità gravida di una figlia, Sonia, che sebbene appaia soltanto alla fine del romanzo ne costituisce l’inizio, in quanto la sua nascita costituirà il legame indissolubile fra i suoi genitori africani (Amna e Adebisi), la coppia venuta dall’Italia per adottarla (Guido e Ada), e un traffico clandestino di statue antiche trafugate durante uno scavo archeologico da Franco, che gli permetterà di conservare la propria permanenza di grand commis in Nigeria, proprio quando la situazione politico-economica è traballante e il “si salvi chi può” si traduce in “morte tua vita mia”.
Sennonché la vita di Sonia scardinerà la felicità condivisa dei sei personaggi e del loro autore, al punto che il precario legame fra le tre coppie, sempre più incasinato, necessariamente obbligherà quest’ultimo ad intingere nuovamente la penna nel calamaio.