Sindrome di Natale

di Alessandro Villari

FATTO

1. Vigilia di Natale

Aveva trascorso la giornata a pulire, riordinare, rassettare, preparare. Da sola, perché Riccardo era sceso in Sicilia a trascorrere Natale con la sua famiglia, e sarebbe tornato soltanto il giorno dopo. Finalmente era tutto pronto, gli ultimi scatoloni del trasloco erano stati nascosti nella stanza che usava come studio, il forno era spento: aveva ancora un paio d’ore per sé prima che i parenti invadessero la sua laboriosa quiete, per un cenone della Vigilia che non prometteva di essere breve.
Era la prima volta che vedevano la casa nuova, un appartamento in una delle torri appena costruite nella periferia nord della città. Lei stessa non si era ancora del tutto ambientata, non si raccapezzava degli spazi, spesso non trovava le cose che cercava, a volte le pareva che qualcuno le spostasse di nascosto. Forse Riccardo, che per scherzare diceva che avevano comprato una casa infestata.
Si preparò una tisana di basilico, melissa e zafferano piemontese, acquistata qualche giorno prima al mercato agricolo domenicale – uno dei pregi del quartiere che stava appena cominciando a scoprire – e lungamente bramata. Con la tazza fumante in mano, si stese sul divano e quasi senza pensarci accese il televisore. Abituata al suo vecchio e massiccio schermo da 32 pollici, ogni volta che posava lo sguardo sui 50 pollici che Riccardo aveva insistito per prendere per la casa nuova, le sembrava di essere avvolta dalle immagini.
Sul canale delle notizie era evidenziata un’ultim’ora: “Strage di Prato, indagini viziate: processo da rifare. Proteste dei sindacati e rabbia dei parenti delle vittime”. Disgustata, spense il televisore. Un istante dopo, cacciò un urlo e perse i sensi dallo spavento.

2. Una visita inaspettata

«Signora, signora Ilaria»
«Ricky…», sussurrò lei, ancora con gli occhi chiusi, e subito si rese conto che non aveva senso: Riccardo era a mille chilometri di distanza, non parlava con accento pugliese, e soprattutto non l’avrebbe chiamata signora. Non trovava però il coraggio di aprirli, gli occhi.
«Dottoressa Ilaria, mi dispiace averla spaventata, si svegli. Mi serve il suo aiuto.»
Doveva essere un sogno – pensò. E questo pensiero le diede la forza di socchiudere un occhio, cautamente. Ciò che vide la rassicurò: era di sicuro un sogno.
Una figura traslucida se ne stava sospesa davanti al televisore, proprio accanto a lei. Aveva le sembianze di un uomo anziano tracagnotto e piuttosto male in arnese, ma dall’aria niente affatto minacciosa. Le venne un’illuminazione, sgranò gli occhi e chiese:
«Sei il fantasma del Natale passato?»
«Veramente no, io abito qui. Ciavarella Sante, molto piacere.»
«Oh, peccato. Ma allora sei tu che mi sposti le cose e mi fai ammattire?»
«Quello è suo marito che le fa gli scherzi. Io sono quello che fa rumore di martellate e trapani nel muro il sabato mattina, per infastidirvi.»
«Ma vaffanculo! E io che ce l’avevo coi vicini!»
«Mi dispiace signora, dottoressa cioè. È che non dipende da me: sto in questa casa da quando la stavamo tirando su, e caddi dall’impalcatura. Ma proprio per questo sono qua ora, l’ho osservata in queste settimane quando è in studio che lavora e credo che forse può aiutarmi. L’ho visto che lei difende i poveri diavoli come me.»
«Difendo i lavoratori. Tendenzialmente quelli vivi però. A meno che non debbano farla i tuoi eredi la causa, magari per un risarcimento del danno.»
«No no, non ne ho eredi, ero solo. È un’altra la questione.»

3. Cause dell’Altromondo

«Vede, quando sono morto, il Direttore di là mi ha chiesto se volevo andare all’Altromondo – per sempre – o se preferivo restare di qua come un fantasma.»
«E tu hai scelto di rimanere fantasma…»
«Sì signora. Ero stato fantasma tutta la vita in pratica, tanto valeva continuare a essere fantasma da morto. Magari gliela potevo far pagare a quello che mi aveva fatto crepare.»
«La stai facendo pagare a me però», protestò Ilaria.
«Ecco… Il fatto è che non mi avevano spiegato bene come funziona la faccenda. Io credevo che sarei stato libero di andare dove volevo, attraversare i muri e tutto quanto. Già mi vedevo a casa del mio vecchio capo a rendergli la vita un inferno. Invece non avevo capito che quando muori in un posto, poi rimani fantasma in quel posto: c’è scritto nel modulo che mi hanno fatto firmare, ecco, gliel’ho portato. E insomma, alla fine in quel posto me la sono presa io. Però non mi pare giusto, perciò vorrei che mi guardasse questo contratto per capire se si può fare qualcosa.»
Non che fosse felice di lavorare la sera della vigilia, sia pure in quello che era sicuramente uno strano sogno, ma fu con grande curiosità che Ilaria si chinò a leggere il documento che il fantasma le stava porgendo. Non era proprio un foglio, piuttosto una specie di patina incorporea e luminosa, sulla quale i caratteri sembravano galleggiare. Non osò toccarlo ma si limitò a leggere:

Io sottoscritto Sante Ciavarella, nato a Montecalvo Irpino il 27.10.1957 e morto a Milano il 14.6.2024, consapevole che la scelta espressa è irrevocabile per un periodo minimo di 50 anni terrestri, dichiaro di voler rimanere nel luogo del mio decesso, in qualità di fantasma.

«Hmm, e tu vorresti annullare questo contratto e andare a riposare?»
«Niente affatto! Io vorrei levarmi da questa casa – che poi non mi pare nemmeno giusto continuare a disturbarla – e andare a tormentare quel bastardo del mio ex capo, che mi ha ammazzato e per giunta poi l’ha passata liscia!»
Ilaria socchiuse gli occhi, come faceva quando, studiando una nuova causa, trovare il bandolo della matassa era particolarmente complicato.
«Ma possibile che non ci siano decisioni precedenti su questa questione? Di sicuro non sarai il primo fantasma che vuole “cambiare casa”.»
«Che io sappia, no. Che dice, dottoressa, c’è qualche speranza?»
«Avvocatessa. E forse sì, ma ho bisogno di sapere un po’ di più della vicenda, e soprattutto non ho idea di come funzioni la procedura… Dobbiamo fare un ricorso? E a chi?»
«Le spiego tutto quando siamo di là.»
«Ma… adesso? E di là dove? Io tra poco ho gente a cena, non vado da nessuna parte! Trovati un avvocato “di là”, se è così urgente. Anzi, è proprio ora che mi svegli da questo sogno bizzarro.» Disse così, e cercò di fare come si fa nei sogni in cui sai che stai sognando, e vuoi piantarla lì. Non funzionò.
«Non sono bravo a spiegare… Di là, dove stiamo quando non siamo di qua. E non si preoccupi del tempo, di là funziona diversamente, non perderà nemmeno un minuto – del tempo di qua voglio dire. È importante per me che sia lei a difendermi.»
E così dicendo il fantasma estrasse una specie di telecomando e lo puntò verso il televisore. Lo schermo si accese e da nero che era (“Nero assoluto!” ripeteva il commesso nel negozio di elettrodomestici felicitandosi per la loro scelta, quando l’avevano comprato) divenne tutto bianco. Dopo un istante, proprio in mezzo alla superficie luminescente apparve un puntino scuro, che si ingrandì rapidamente, come se si stesse avvicinando, finché non fu possibile distinguere una porta: era di foggia antica, e la sormontava un battente incastonato tra gli artigli di una civetta d’oro. Quando occupò lo schermo per intero, Sante bussò tre volte e la porta si aprì. Il fantasma la invitò a seguirlo e scomparve al suo interno.
Ilaria, incredula, aveva in testa un centinaio di domande.
Ma fu l’unica che riuscì a formulare prima di entrare nello schermo dietro al fantasma di Sante Ciavarella fu:
«Ma lo fanno tutti i televisori?»

4. La storia di Sante Ciavarella

La porta si richiuse alle loro spalle.
Erano in un vasto androne che sembrava non avere fine; alle pareti, due file ininterrotte di altre porte, tutte identiche a quella che avevano appena varcato. Non c’erano finestre, e neppure si vedevano lampade o candele: Ilaria si guardava intorno trasognata, sforzandosi di capire da dove provenisse la luce.
Ciavarella, una volta tornato di là, non era più traslucido ma pareva in carne e ossa, proprio come lei. Faceva strada, e intanto parlava. Raccontava di come fosse emigrato al nord trent’anni prima, per levarsi da certi impicci che aveva nel suo paese d’origine nell’avellinese. Non avendo particolari talenti, ma neppure esigenze eccessive, era riuscito a campare in modo precario ma bene o male sereno: due mesi da facchino qua, tre settimane da manovale là, ogni tanto qualche lavoretto meno nobile per compaesani a cui servissero volti “puliti”. Quasi sempre in nero, ça va sans dire, ma in fondo preferiva così. Non gli piaceva l’idea di chiedere soldi all’assistenza pubblica, non si sentiva perciò in dovere di contribuire di tasca sua.
«Ma mi sta ascoltando?»
Ilaria, colta in castagna, si affrettò ad annuire. In effetti, più che sul racconto del suo fantomatico assistito, era concentrata sui motivi sgargianti e le geometrie confuse dell’ambiente che stavano attraversando. Pareva che non ci fosse una sola linea dritta: perfino il pavimento, ricoperto di mattonelle di forme e colori diversi, era tutto un susseguirsi di dossi e avvallamenti.
Man mano che avanzavano nell’androne infinito, altre persone, sempre più numerose, apparentemente tutti defunti, si muovevano in ogni direzione, entrando o uscendo da questa o quella porta, e sembravano non fare caso a loro. Forse si stavano avvicinando al “centro” di quel posto, qualunque cosa fosse quel posto.
Anche Ciavarella sembrava finalmente avvicinarsi al punto.
Nell’ultimo paio d’anni – ultimo in tutti i sensi – aveva lavorato per un tale Bronzetti, un tipo molto ammanicato, imprenditore edile e nipote di una cugina di sua madre, emigrato al nord come lui. Inizialmente non lo metteva in cantiere – superati i sessanta, era troppo vecchio per quel lavoro – ma gli faceva guidare il furgone su cui caricavano le macerie, e qualche volta perfino il camion con l’autoscala. Ma non aveva mai rinnovato la patente, figurarsi la CQC (a Bronzetti lui l’aveva detto subito, ma quello se ne fregava), così quando l’aveva beccato la stradale, per il capo erano state grane grosse.
Licenziarlo non poteva perché era pur sempre di famiglia…
«E anche perché per poterti licenziare avrebbe prima dovuto farti un contratto regolare», chiosò Ilaria, più che altro per dimostrare che era attenta.
«Si vabbè, non poteva mandarmi via insomma. Però gli stavo sul cazzo – mi scusi il linguaggio – e faceva di tutto per farmi andar via da solo. E così cominciò a mettermi sui cantieri. Io non ci volevo stare, eh, già un paio di egiziani da quando stavo con lui si erano fatti male seriamente, anche perché non gli dava né imbracature né niente, dovevamo portarci tutto noi; ma in giro non c’era nient’altro, si deve pur campare.»
«E invece…»
«E invece un giorno mentre stavo sull’impalcatura, proprio davanti a quella che adesso è casa sua, sono scivolato, l’imbracatura era fissata male e ho fatto un volo di dieci metri. Non mi sono alzato più. E sa qual è stata l’ultima cosa che ho pensato?»
Ilaria, ora completamente attenta, scosse la testa.
«Ho pensato che mi giravano le palle perché ero sicuro che Bronzetti l’avrebbe passata liscia. E infatti è andata così: neanche il processo gli hanno fatto, ha preso solo una multa perché stavo in nero, e poi non ha pagato neppure quella, e neppure i fornitori, le tasse e i contributi. Ha fatto fallire la ditta e ne ha aperta un’altra il giorno dopo. Non è giusto! È per questo che mi deve aiutare, dottoressa. Avvocatessa
Ilaria capiva fin troppo bene la frustrazione di Ciavarella (che in effetti probabilmente era una parte del suo subconscio). Tolta la parte della morte sul lavoro – che comunque troppo spesso ascoltava al telegiornale – era una storia che si era sentita ripetere dai suoi assistiti decine e decine di volte soltanto in quell’ultimo anno che stava per finire. Troppe volte aveva dovuto rispondere che si poteva provare, ma che probabilmente almeno parte dei soldi che il datore di lavoro non aveva pagato sarebbero stati persi per sempre. Così tante volte, in effetti, che ora se lo stava pure sognando.
Ma almeno in questo sogno, una volta tanto, avrebbe forse potuto ottenere un rimedio più efficace di un misero decreto ingiuntivo. Dopo tutto, valeva la pena rimanere addormentata ancora un po’.

DIRITTO

1. Preliminarmente: sul rito e sulle eccezioni preliminari

«Ma insomma, come funziona?»
«Oh, è semplice. Ho fatto un reclamo all’Ufficio Fantasmi, scrivendo che non ci voglio più stare in quella casa e voglio andare in quella di Bronzetti. Oggi c’è l’udienza e sarà lei a dire le mie ragioni.»
«E non serve un mandato? Chi deciderà sul reclamo?»
«Quando mi sono fatto vedere da lei, quello è il mandato. E sul reclamo decideranno dei giudici, chi se no? Ecco, siamo arrivati.»
Si fermò davanti a una porta identica a tutte le altre, completamente anonima, quasi che l’avesse scelta a caso.
Non appena furono entrati, lo spettacolo lasciò Ilaria senza fiato. Se l’androne da cui provenivano sembrava uscito dalla fantasia di Hundertwasser, il nuovo ambiente pareva invece disegnato da Escher. Si sviluppava tutto in altezza, un piano sopra l’altro finché arrivava lo sguardo, tutti collegati da scale e passatoie “impossibili” su cui le persone – una vera folla, molto più che all’esterno – camminavano sia sopra che sotto.
All’idea di dover trovare una singola stanza in particolare in quel caos, provò la stessa sensazione di panico che aveva avuto la prima volta che era entrata, da praticante, nel Palazzo di Giustizia di Milano.
Ciavarella intanto si era avvicinato a un usciere per chiedere informazioni.
«L’aula delle udienze sui reclami? È la porta qui di fianco: potete entrare», rispose indicando l’entrata accanto a loro.
Era una stanza abbastanza piccola. A un’estremità si trovava una lunga cattedra, su una pedana di legno, con dietro uno scranno per il giudice e una sedia più piccola, probabilmente per il cancelliere. Di fronte, due file di panche, una decina in tutto, con davanti due banchi. Le pareti erano spoglie e il soffitto basso. Dentro non c’era nessuno.
Presero posto dietro a uno dei due banchi, ma non si erano ancora seduti che apparvero un giudice imparruccato e un cancelliere dietro la cattedra e, sulla panca di fianco alla loro, quello che pareva un pubblico ministero.
Ilaria non ebbe neppure il tempo di stupirsi, il cancelliere – un ometto calvo dal colorito grigiastro – stava recitando le formule di rito.
«Sul reclamo promosso da Ciavarella Sante, è presente il reclamante con l’avvocato…»
«Avvocatessa Ilaria Berretti, del Foro di Milano.»
Il cancelliere levò lo sguardo.
«Ma lei… è viva.»
«Signor Ciavarella, come mai ha incaricato un difensore ancora vivente, quando ce ne sono tanti qui?», chiese il giudice con tono tra lo scocciato e l’inquisitorio.
«Vostro Onore, tutti quelli di qui a cui mi ero rivolto mi avevano sconsigliato di fare questo reclamo, non ho avuto scelta.»
«Questo non mi sorprende, giudice», intervenne il pubblico ministero, un tipo alto e allampanato, col volto scavato e un’aria vagamente vampiresca, con un sorriso di scherno. «Il reclamo riguarda l’annosa questione del fantasma che vuole lasciare il luogo del decesso per trasferirsi in un altro luogo. Abbiamo pacchi di sentenze di rigetto. Ma c’è di più in questo caso: ci risulta che il difensore del reclamante sia il vivente che abita nella casa che egli vorrebbe lasciare. Un chiaro caso di conflitto di interessi.»
«Avvocatessa Berretti, che cosa replica all’eccezione formulata dal pubblico ministero?»
L’interpellata, presa alla sprovvista, si sentì morire. Lanciò un’occhiata assassina al suo assistito.
«Non c’erano avvocati e non c’erano precedenti, eh?», gli sussurrò.
Quello non si scompose e si strinse nelle spalle. Non era certo la prima volta, comunque, che Ilaria si trovava in una situazione simile. I lavoratori mentono di continuo ai loro avvocati, vuoi per superficialità, vuoi per istinto, spesso perché pensano – perlopiù a torto – di ricavarne qualche vantaggio. Guardò il pubblico ministero, poi il giudice, fece un lungo respiro, e attaccò.
«Non c’è alcun conflitto di interessi, giudice. Al contrario, se ho assunto l’incarico che mi ha affidato il signor Ciavarella, è per la forte simpatia che mi lega a lui da quando ho saputo che abitava nella mia casa. D’altra parte, se nessun difensore di qui era disposto ad assisterlo, e se non poteva abbandonare la mia abitazione per cercare qualche vivente “estraneo” che fosse disponibile, a chi altri avrebbe potuto rivolgersi? L’alternativa sarebbe stata privarlo della possibilità di difendersi, e questo sarebbe stato certamente contrario ai principi fondamentali dell’ordinamento.»
Il giudice alzò un sopracciglio, ma pareva meno ostile di prima.
«E sia, procediamo. Pubblico ministero, la sua requisitoria.»

2. Nel merito

Il pubblico ministero mostrò un fremito di contrarietà, ma si ricompose immediatamente.
«Come dicevo, la questione è nota e di semplice risoluzione. Il signor Ciavarella qui non è certo il primo defunto che prima dichiara di voler essere fantasma, poi cambia idea per qualche ragione. Ma le regole sono chiare e trasparenti, e se noi consentissimo a tutti di revocare il consenso, violeremmo – per citare l’avvocatessa Berretti – i principi fondamentali dell’ordinamento
Lo sguardo del giudice si posò su Ilaria, che solo in quel momento aveva notato con un certo stupore come l’aula sembrasse più grande adesso, e fosse apparsa una fila di spalti che correva lungo tre delle quattro pareti. Qualche decina di persone ora assisteva all’udienza.
«Giudice, il mio assistito non ha alcuna intenzione di revocare la sua scelta ed è ben felice di essere un fantasma. Solo non ritiene corretto che la nozione di “luogo del decesso”, al quale è vincolato, corrisponda in questo caso al particolare luogo fisico in cui è deceduto…»
«Abbiamo sentito spesso questa argomentazione», la interruppe sgarbato il PM. «Ma la giurisprudenza di questo Ufficio è costante nel ritenere che il concetto di “luogo del decesso” debba essere interpretato restrittivamente, e non possa certamente coincidere con un qualsiasi luogo dell’Aldiqua.»
Ilaria era stizzita, più per la prevaricazione che per l’argomento.
«Se posso continuare: conosco bene la giurisprudenza a cui fa riferimento il pubblico ministero» – mentì – «ma in tutti quei casi la questione è stata affrontata senza tenere in considerazione la specifica condizione del fantasma e, soprattutto, la particolare natura del decesso.»
«Ma non…» cercò di intervenire nuovamente il pubblico ministero. Questa volta fu il giudice a impedirglielo, intimandogli con un gesto della mano aperta di tacere. Nel frattempo, notò Ilaria, le file di spalti erano diventate tre, e il pubblico un centinaio di persone.
«Prosegua, avvocatessa, ma sia concisa.»
«Grazie, giudice, farò il possibile. Interroghiamoci un momento sulla ratio della regola per cui il fantasma è vincolato al luogo del suo decesso. Ovviamente si tratta di consentire al defunto di rivalersi in qualche modo per la morte subita.»
«Ma spesso l’assassino, in caso di morti violente, non risiede in quel luogo. Eppure non consentiamo al fantasma di andare a infestare l’abitazione del suo assassino, che oltretutto può sempre cambiare casa senza che l’assassinato lo segua.»
«È giusto», replicò Ilaria al PM, che adesso era meno sornione. «Ma il luogo deve pur sempre avere una qualche importanza per il defunto, un qualche legame con l’attività che svolgeva al momento della morte.»
Mentre parlava, con la coda dell’occhio vedeva l’aula ingigantirsi in altezza, e il pubblico assiepato sugli spalti sempre più numeroso. Il giudice ora la ascoltava con attenzione.
«Ora consideriamo la condizione del signor Ciavarella e le circostanze della sua morte. È caduto da un’impalcatura mentre stava lavorando alle dipendenze di un’impresa edile. Poteva essere proprio quel cantiere o un altro, non avrebbe fatto alcuna differenza per lui. Per dirla tutta, neppure c’era una casa, quando è morto: la stavano ancora costruendo. Il “luogo del decesso” è stato per il mio assistito, né più né meno, il luogo di lavoro. E la giurisprudenza ci insegna che il luogo di lavoro può ben corrispondere alla sede dell’impresa, soprattutto per chi, come il reclamante, non svolgeva la sua attività in un luogo fisso ma veniva mandato ogni giorno in un cantiere diverso. E per estensione, la sede dell’impresa è anche la dimora del suo titolare – in questo caso il signor Tranquillo Bronzetti. Che è precisamente dove il signor Ciavarella ritiene corretto andare ad abitare.»
Detto questo, si sedette.
L’aula, fino ad allora silenziosa, fu attraversata da un brusio via via sempre più intenso, da cui scaturì un applauso prima isolato, e poi collettivo, scrosciante. Gli ordini di spalti ormai non si contavano più, e neppure si scorgeva il soffitto.
Il giudice dovette intimare più volte il silenzio con il suo martelletto prima di riuscire a riportare la calma. Solo allora si alzò in piedi, subito imitato da un mogio pubblico ministero, da Ilaria e, dopo un momento di esitazione, anche dal Ciavarella, che per tutto quel tempo aveva ascoltato senza capire granché, e pareva ora frastornato.

CONCLUSIONI

1. P.Q.M.

«In nome del popolo dell’Aldilà, in accoglimento del reclamo presentato da Ciavarella Sante, questo Ufficio, accertata la sussistenza di un nesso causale tra il decesso del reclamante e il rapporto di lavoro in quel momento in essere con l’impresa edile Bronzetti, dichiara che deve intendersi quale luogo del decesso la sede dell’impresa datrice di lavoro e, conseguentemente, dichiara il diritto del signor Sante Ciavarella a trasferire la propria abitazione presso la dimora di Bronzetti Tranquillo in qualità di datore di lavoro al momento del decesso. Dichiara altresì il diritto del reclamante al rimborso delle spese legali, da porsi a carico dell’Ufficio e da liquidarsi in misura di…»
Le ultime parole del giudice furono sommerse da un nuovo rombante scroscio di applausi, punteggiato da esclamazioni di giubilo. Ilaria incrociò lo sguardo di Ciavarella, che quando aveva sentito citare per nome il suo vecchio capo aveva finalmente capito. Un paio di lacrime gli inumidivano gli occhi.
«Abbiamo vinto?»
«Abbiamo vinto», gli sorrise.
In quel momento si svegliò.

2. Risvegli

Oddio che sogno assurdo. Peccato non aver sentito quanto aveva liquidato di spese!
Avrebbe voluto chiamare Riccardo per raccontarglielo, ma doveva ancora apparecchiare la tavola e prepararsi: l’avrebbe sentito a fine serata. Aveva dormito un’ora abbondante.
La cena fu un grande successo, tutti i parenti si complimentarono per la casa nuova, alla fine della serata cinque bottiglie vuote (due di malvasia e due di nebbiolo, bevute in rigoroso ordine di gradazione alcolica, oltre a una di spumante) erano schierate sulla tavola come soldati in rassegna.
Prima di andare a dormire chiamò il compagno al telefono, si scambiarono gli auguri e si fecero grosse risate al racconto del sogno, ancora straordinariamente vivido nella sua mente.
Quando riattaccò, provò una sensazione di solitudine che per un attimo non riuscì a spiegarsi. La attribuì al vino, e si addormentò confortata dal pensiero che il giorno dopo sarebbe tornato Riccardo.
La mattina seguente si svegliò tardi. Dopo l’abbuffata della sera prima, l’unica cosa di cui sentiva il bisogno era una bella tisana calda: finocchietto selvatico, salvia e lavanda.
Mentre aspettava che l’acqua bollisse, accese il televisore. Al telegiornale scorrevano i titoli delle ultime notizie: Dalle prime ore del giorno si segnalano in tutta Italia centinaia di ricoveri nei reparti di neuropsichiatria. Ancora sconosciute le cause di quella che è stata battezzata “Sindrome di Natale”: l’unico tratto che accomuna i pazienti, spiegano i medici, è che si tratta di imprenditori.

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