Sport e dintorni – El Diez dal destino epico e buffo di cui noi miserabili non riusciamo a fare a meno

di Gioacchino Toni

Alfonso Amendola, Jvan Sica (a cura di), Studiare Maradona. Storie, tracce, emozioni, Rogas, Roma 2024, pp. 150, € 15,70 ed. cartacea, € 9,99 ed. ebook

Diego Armando Maradona appartiene a quella ristretta cerchia di personaggi del mondo dello sport a cui il titolo di campione va decisamente stretto, non esaurendo quanto è stato in grado di rappresentare nell’immaginario di tanti esseri umani che hanno instaurato con la sua figura un rapporto che è andato ben oltre il riconoscimento della sua grandezza sportiva. Se Muhammad Ali, Tommie Smith e John Carlos sono divenuti simboli del riscatto afroamericano e con esso di una più estesa comunità di “dannati della terra” sfruttata e marginalizzata, ciò lo si deve anche al particolare periodo storico in cui si sono cimentati nelle loro imprese, coincidente con quella “stagione dei movimenti”, compresa tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui, a livello internazionale, davvero “tutto” è stato messo in discussione. Sebbene Maradona abbia fatto capolino quando ormai quella stagione poteva dirsi esaurita, anche nel suo caso la rilevanza assunta è andata al di là delle prestazioni sportive, pur essendo state queste ultime – così come per gli altri atleti citati – indispensabile premessa al rapporto che si è instaurato tra il campione e la “sua gente”. Certo, rispetto ad Ali, Smith e Carlos, Maradona è sicuramente un personaggio meno lineare, più complesso e contraddittorio, così come meno facilmente definibile è la relazione che si è costruita tra lui e i suoi tifosi.

Prima uscita del Centro studi “10”, il volume curato da Alfonso Amendola e Jvan Sica non poteva che essere dedicato a El Diez per eccellenza: Diego Armando Maradona, personaggio che, al di là delle prodezze in campo, come scrivono i curatori nella Prefazione, ha «invaso, toccato o sfiorato tanti campi dello scibile, influenzando non solo le sorti delle sue squadre, ma anche microeconomie, visioni cinematografiche, storiche, filosofiche, giuridiche, sociologiche, parabole artistiche e tanto altro».

A ridosso della scomparsa di Maradona, su “Carmilla online”, Giovanni Iozzoli, come tanti altri, a partire dall’emotività diffusa, per certi versi difficilmente spiegabile, che si è sprigionata da quel lutto, si è domandato cosa e quanto avessimo «investito nel mito Maradona – prima come genio calcistico, poi come iperbole umano-letteraria, infine come sublime simbolo populista» per determinare emozioni solitamente riservate alla scomparsa di qualcuno a cui si è strettamente legati. Per certi versi sono interrogativi che attraversano lo stesso volume curato da Amendola e Sica da poco dato alle stampe da Rogas edizioni.

Per quanto sia stato un personaggio di rilevanza mondiale, il fenomeno Maradona non può essere disgiunto dalla sua terra natale, l’Argentina, e dalla sua città di adozione, Napoli. Ecco allora che Domenico Maddaloni ricostruisce la Napoli di Maradona, tratteggiando cosa fosse all’epoca la città partenopea che, sin dalla sua presentazione al San Paolo, è sembrata quasi percepire che quel Diez non sarebbe stato “soltanto” un grande campione.

La Napoli del decennio maradoniano ha vissuto un periodo del tutto particolare segnato da una vitalità che ha toccato gli ambiti sportivi, non solo calcistici, culturali, musicali e cinematografici, un fermento da cui sono emerse personalità capaci di conquistare rilevanza ben oltre il contesto campano, come Pino Daniele e Massimo Troisi, in un clima segnato dal desiderio diffuso di rivalsa nei confronti del Nord e della Capitale. Una Napoli che si è sentita, e per certi versi ha saputo porsi, al centro del Paese cullandosi nell’illusione – difficile dire quanto inconsapevole – che quanto stava vivendo sarebbe durato e avrebbe portato benefici all’intera comunità. «Ma dietro questa effervescente vitalità», scrive Maddaloni, «si muovevano forze che avrebbero finito per trascinare Napoli e gran parte del Mezzogiorno sul sentiero della stagnazione, del declino, di una collocazione sempre più marginale nella divisione internazionale del lavoro e nella scena economica e politica italiana». Una città, insomma, che ha vissuto un’illusione, per quanto intesa, destinata a “breve scadenza”.

Gli anni Ottanta per Napoli sono anche il decennio in cui si andava esaurendo «la stagione dell’intervento straordinario che, pur tra squilibri e contraddizioni, e con l’aiuto considerevole (almeno fino al principio degli anni Settanta) delle migrazioni di massa dalle aree interne, si era tradotta in un incremento sostanziale degli standard di vita nel Meridione». Pur vantando la piazza napoletana un ruolo tutt’altro che marginale nell’industria e nella finanza pubbliche, la spinta propulsiva degli investimenti pubblici, con tutte le loro contraddizioni, si stava ormai esaurendo lasciando il posto a una stagnazione economica strisciante e ad un mesto ritiro della locale borghesia dalle attività produttive. «In un clima simile, i due grandi interventi pubblici nel Sud degli anni Ottanta, la ricostruzione post-terremoto e gli investimenti per il Mondiali di calcio che l’Italia avrebbe poi ospitato nel 1990, non vengono più iscritti in una strategia generale di sviluppo dei territori, ma vengono piuttosto usati come ulteriore fattore di spinta in direzione della ricerca della rendita».

Se è pur vero che nessuno potrà togliere alla piazza partenopea le gioie calcistiche regalate dal Napoli di Maradona e con esse la sensazione, per quanto di breve durata, di contare finalmente qualcosa oltre i confini meridionali, sottotraccia al diffuso entusiasmo del periodo covavano già quelle trasformazioni economiche, politiche e sociali che avrebbero, da lì a poco, condotto al declino e all’emarginazione che poi si sarebbero palesati in maniera evidente in apertura degli anni Novanta.

Jvan Sica ricostruisce puntualmente il Maradona visto, pensato e scritto da Gianni Brera, che non ha esitato ad apostrofarlo ricorrendo, contemporaneamente, agli estremi “divino” e “scugnizzo”, «perché della stessa alterità rispetto al mondo sono fatti», a segnalare la sua unicità prodigiosa e inarrivabile, dai limiti «al momento ignoti», Uno «sgorbio divino, magico, perverso», «un goffo orsacchiotto miracolato dal buon Dio, però non abbastanza da assurgere a macchina», uno che «finché gli gira, comanda lui. E gli altri, zitti».

Brera non mancherà, tuttavia, di riferirsi a Maradona chiamandolo «Sua Rotondità», di segnalare come «Tener palla masturbando calcio non significa dominare», dunque, in un crescendo di critica venata di malinconia, giungerà ad apostrofarlo come «Vecchio istrione criollo», «logo discolino», «capriccioso despota argentino», autore di «primedonnacciate» «la cui sazietà agonistica è divenuta ormai un fatto patetico». Per poi concludere scrivendo amaramente: «Diego Armando era Baudelaire, poeta sublime; io componevo e balbettavo versi appena corretti. Fuor di metafora, avevo delirato calcio e all’improvviso mi era apparso il messia, quello vero. Ho visto scaturire prodezze inaudite dai suoi piedoni di belva andina; il suo tronco atticciato ha espresso obliosi prodigi di grazia e di fantasia per i quali andavo in estatica meraviglia». «Grazie, Diego Armando Maradona. Altro non voglio dire, solo grazie per i prodigi di stile e di invenzione che ci hai prodigati nei tuoi brevi anni. Anche Napoli, che ha cuore, ti saprà perdonare, e naturalmente rimpiangerti. Adios».

La riflessione di Mauro Cozzolino, nel testo steso insieme e Paolino Cantalupo, prende il via dalla constatazione di come Maradona sia stato al contempo calciatore geniale dotato di immenso talento ed essere umano fragile e debole, «espressione di un empowerment individuale e sociale che ha oltrepassato tutto e tutti, unendo diversi popoli, specialmente quelli del sud», incarnando però «drammaticamente la debolezza in tutte le sue intime forme». Ad affascinare e catturare l’interesse di tanti (studiosi e non) è il suo essere stato, assieme, “Eroe” ed “Antieroe”, la sua tendenza a declinare le “diverse qualità” di cui era in possesso «in relazione al contesto, all’obiettivo e all’interlocutore».

Nel caso di Maradona la “dinamica degli opposti” propria della natura umana non si è risolta né nella scelta di una delle due nature, né nella paralisi della scelta. Egli, suggerisce Cozzolino, ha provato «a sfidare pericolosamente quelle forze profonde che, come Eros e Thanatos, si contrappongono tra loro. Il tentativo del protagonista e coraggioso e per certi versi ingenuo che si fa insieme, eroe e antieroe, provando a domare la complessità insita nella dinamica tra bene e male, individuo e società, giustizia e ingiustizia sociale, ed altre innumerevoli componenti del nostro universo esistenziale».

In vita Maradona si è trovato a confrontarsi con la povertà, la sofferenza e lo stress determinato dal trovarsi investito dall’idealizzazione e dall’idolatria delle folle ma anche con l’odio di tanti mossi da invidie e dal non sopportare il farsi spazio di un popolano incapace di deferenza, colpevole di oscurare i più nobili lignaggi sportivi e sociali. A ciò si è aggiunga la violenta pressione esercitata da una società vorace «che sa perfettamente costruire e distruggere, in relazione al solo ed esclusivo bisogno dell’hic et nunc» in anticipo, per certi versi, alla deriva contemporanea che attraversa i social network.

Se nella mitologia l’eroe carica su di sé la responsabilità della battaglia e se si considera il calcio un linguaggio archetipico, allora, sostiene Cantalupo, è possibile vedere in Maradona l’incarnazione dell’eroe della contemporaneità. «Ma ogni eroe ha un destino tragico. L’eroe della mitologia si dona e poi cade rovinosamente. Nel senso rovesciato, l’ambivalenza del mito mostra l’ambiguità fondamentale dell’archetipo. […] Gli eroi della mitologia dopo l’impresa mostrano la loro umana debolezza, la contraddizione della loro miseria emotiva».

Maradona è stato un eroe venuto dal fango delle favelas portandosi dietro lo stigma del sottoproletario ribelle, incapace di “stare al suo posto”. Se questo è ciò che tanti, più o meno consapevolmente, non gli hanno mai perdonato, è però stato anche il motivo per cui si è creato un legame indelebile con Napoli, «la città col più esteso sottoproletariato marginale d’Europa. È questo che trasfigurava i suoi gesti atletici in arte romantica. Romantica rivolta proletaria, sfrontato insulto contro i potenti del mondo e i potentati del calcio».

Virgilio D’Antonio apre le sue riflessioni domandandosi se all’uomo «che, in campo, giocava, beffava anche le regole della natura» si possa «chiedere di rispettare leggi “artificiali”, cioè create dal legislatore di turno, contingenti, imperfette, spesso contraddittorie, destinate al continuo mutamento». A tal proposito Saverio Sicilia passa in rassegna le vicende giudiziarie argentine e italiane che hanno attraversato la vita privata e affettiva di Maradona intrecciandole con il suo incarnare, più meno volontariamente, i desideri e la voglia di riscatto di folle di tifosi e al tempo stesso con il business che la sua immagine era capace di attivare. «È proprio questo il tratto saliente della figura di Maradona capace non soltanto di generare opportunità di business, ma anche di trascinare con se ideologie e aspirazioni della gente comune».

Indubbiamente «la tensione costante al superamento del limite che è forza e fonte di ammirazione – venerazione, nel caso specifico di Maradona – nello sport può diventare maledizione quando trasposta oltre i confini del rettangolo di gioco», ma, scrive Virgilio D’Antonio, «possiamo forse pretendere qualcosa di diverso da un calciatore che amiamo, ammiriamo profondamente per un gol segnato contro ogni regola del gioco del calcio, con un pugno verso il cielo? Ecco: il rapporto tra Maradona e le regole, così come quello tra noi spettatori, Maradona e le regole è tutto in quel pugno alto contro il cielo che fa finire la palla in rete».

Tratteggiato il clima culturale della città e ricordato come l’anno di approdo di Maradona a Napoli, il 1984, sia lo stesso della morte di Eduardo De Filippo e dell’uscita dell’album Musicante di Pino Daniele, Elio Goka argomenta come l’epopea di Maradona a Napoli possa essere pensata come «un romanzo di formazione tradotto in una specie di enigma dell’apparizione. Da ostetrico a saluto estremo. La sua parabola tragica è iniziata da una riformulazione della fanciullezza a un addio in forma di fuga. Per nulla annunciato. Senza sospetti. Dopo una domenica di campionato. La sua fine a Napoli è coincisa più con uno svanimento che con una scomparsa. Nemmeno il dolore per la sua morte ha saputo soppiantare il lutto anticipato che in una notte di fine inverno sottrasse la ragione della felicità a milioni di persone».

La felicità portata alla città, resta forse questa la chiave principale del passaggio dell’indimenticabile Diez a Napoli, sottolinea Goka. «Di Maradona, più d’ogni altra cosa, resti l’incanto d’aver riunito in pochi anni il desiderio collettivo e le felicità individuali attraverso un disvelamento istantaneo, fugace, ma drammaticamente visibile e ammaliante dell’ebbrezza nella sua forma più tangibile e traumatica. Questa è una formula che supera l’epica, la gloria, la caduta e l’acclamazione».

Napoli, scrive Massimiliano Amato, è stata attraversata da tante rivolte, mai tramutatesi in rivoluzioni, accomunate, in fin dei conti, dal non essere state «una forzatura, un colpo di mano arbitrario o, ancora peggio, strumentale» e dall’avere «puntualmente abbandonato durante il loro compiersi la dimensione dialettica della storicità per entrare nello spazio più ampio e indefinito del simbolico». In tutti i modi, sostiene lo studioso, si è trattato di rivolte capaci, nella loro specificità, di trasmettere al mondo esterno «riflessi profondi nel tempo storico in cui si sono sviluppate», anche quando a muoversi è stata una piccola minoranza della popolazione.

Nell’ultima rivolta, come per effetto di un moto spiraliforme la faglia si è allargata e approfondita repentinamente per cerchi concentrici. Arrivando a inghiottire tutto, vale a dire la Napoli “alta” e la Napoli “bassa”, riunite in un progetto comune: sovvertire le gerarchie del pallone e affermare il regno della Grande Bellezza. L’incontro tra il Dio del calcio e una città che nel calcio cerca da sempre la catarsi rigeneratrice che la aiuti a rinascere ogni volta dalle proprie miserie e debolezze non poteva non accendere la miccia di una rivolta epocale. Per sette anni Napoli è stata laboratorio di uno stravolgimento senza precedenti di codici consolidati da decenni di strapotere delle squadre del triangolo industriale del Nord.

Ciò è stato, a tutti gli effetti, un atto di ribellione. Se del Maradona legato a Fidel, a Chavez e, più in generale, ai movimenti ribelli latinoamericani, così come della sua battaglia contro la Fifa, è stato scritto parecchio, poco, troppo poco, sostiene Amato, è stato indagato l’impatto che ha avuto sugli equilibri consolidati del calcio italiano e l’inedita capacità, «in un contesto in cui il calcio rappresenta il principale, se non unico, fattore di identificazione collettiva», di unire in maniera identitaria l’intera città.

Enrico Ariemma ricorre ai classici per rileggere la parabola pubblica e privata del personaggio Maradona. Potrebbe trattarsi dell’ultimo «barthesiano mito d’oggi, soggetto e oggetto insieme di una narrazione che è popolare e agglutina su di sé pance e passioni di milioni di uomini comuni, ma è anche colta ed esoterica perché attraversa diagonalmente discipline di studio e di ricerca. Un dio sporco. Il più umano degli dei. Un dio sporco e umano che ci assomiglia». Oppure, continua Ariemma, potrebbe trattarsi più semplicemente di un eroe capace di rompe le regole, lottare contro il potere o, ancora, di un «genio anarchico, ribelle, passionale, nato umile ma capace di emergere e di far fronte alle difficoltà grazie alla sua abilita, generoso con gli amici, astuto sul campo ma capace di farsi ingannare più volte nella vita».

Angelo Cirasa scrive di come Maradona avesse «una sua fede nel giusto, nel bello, nella provocazione», disponesse «di una lama logica, critica», di come sapesse usarla, e di come tutto ciò sia percepibile nella bellezza dei suoi gesti in campo, una «bellezza che è incanto artistico, religioso, politico».

Giuseppe Foscari ragiona, invece, maniera semiseria attorno al “talento dei mancini” nello specifico calcistico, caratteristica che, al pari della bassa statura, dunque del baricentro basso, negli estrosi come il nostro Diez, contribuisce a mandare in tilt gli avversari. «La “mano di Dio” era un diverso, un estroso, un creativo, un genio, un talento, a immagine e somiglianza del Padreterno? E se Dio fosse mancino? Altro che neuroscienze e fisica, e Lui che, per chi ci crede, si sarebbe scelto l’alter-ego nel calcio. Per la vita avrebbe scelto altri modelli, ma, si sa, la perfezione è un requisito che spetta solo a Lui».

Mariella Palmieri guarda alla figura di Diego Armando Maradona come a una “contraddizione popolare”. A fare di lui un’icona popolare potrebbe essere stato il suo incarnare in maniera marcata e sotto i riflettori le mille contraddizioni vissute dalla gente comune. «Questo aspetto comune dell’esistenza rende la contraddizione una condizione popolare». La palese imperfezione sul lato umano è per certi versi ciò che permette a chi è lontanissimo dalla sua grandezza calcistica di immedesimarsi in lui, rintracciandovi almeno una delle proprie imperfezioni, e al contempo di condividere con il campione le prodezze sportive.

«La rivendicazione alla contraddizione diviene pubblica. Pubblicamente, quindi non solo più nella sfera privata, si può rivendicare il diritto all’errore, alla sbavatura, a un percorso di vita caotico, non lineare». Maradona non si presenta come modello perfetto; fortissimo in campo è debolissimo fuori da esso. «E come un ossimoro, questa imperfezione diventa modello. Ovvero, più esattamente, diventa qualche cosa che innesca un processo di identificazione differente. Non ci si identifica più con un modello perfetto, bensì si guarda alle imperfezioni, oserei dire ai margini. Non è la figura nel suo intero che è al centro di questo processo, ma i margini che sono oltrepassati dalla contraddizione». È come se, con le sue debolezze, Maradona mostrasse che «l’imperfezione è connaturata ad ogni persona», consentendo ad ognuno di trovare in lui la propria imperfezione, il proprio motivo di identificazione.

Pensare Diego Armando Maradona come una contraddizione irrisolta, che cioè non trova sintesi, è il punto di vista che permette di uscire dal un certo moralismo che ha spesso contraddistinto alcuni giudizi su lui. Il moralismo, che è conseguenza dell’ordine morale prodotto dalle classi dominanti (e che quindi non ha nulla a che vedere con la morale), prevede e detta le linee di condotta per le persone. Produce ed organizza le norme, crea i valori e li gerarchizza. È un sistema compiuto, finito, senza discrepanze, dove l’incongruenza, quindi la contraddizione, non è contemplata. È in questo sistema che la contraddizione vivente Maradona non ha possibilità di esistere, perché potrebbe mettere in pericolo lo status quo.

In fin dei conti identificarsi con lui può significare rifiutare il moralismo dei detentori il potere.

Alfonso Amendola e Annachiara Guerra tratteggiano una cartografia dell’immaginario maradoniano che attraversa la letteratura, il cinema, l’arte, la musica, il teatro e il videogame.

In ambito letterario tra gli autori a cui guarda Amendola figurano: Eduardo Galeano, che identifica Maradona nel più umano degli dei, vittima della stessa fama che lo ha sottratto alla miseria, una divinità sporca che dunque consente l’identificazione; Osvaldo Soriano, con il suo raccontare delle prodezze calcistiche del diciottenne militante nell’Argentinos Juniors destinato ai grandi club europei; Luis Sepulveda, che parla di “epica del calcio” riferendosi a ciò che si è costruito attorno alla figura di Maradona; Gianfranco Pecchinenda, che dal personaggio ricava un labirintico gioco di specchi in forma di romanzo ove si intrecciano il vero e l’immaginifico letterario, la realtà e la menzogna.

In ambito artistico lo studioso passa in rassegna: il celebre murales nei quartieri spagnoli, realizzato tre decenni fa da Mario Filardi, divenuto luogo di pellegrinaggio in cui si sono accumulati cimeli e ricordi lasciati dai visitatori; il murales nel quartiere San Giovanni a Teduccio, realizzato nel 2017 da Jorit Agoch; gli interventi di street-art realizzati da Tvboy a Barcellona e a Napoli; l’acrilico su carta Dance with me realizzato nel 2019 dalla street-artist Roxy In the Box; il Sandokan (Maradona) di Flavio Favelli; la mostra del 2016 La Mano de Dios dell’artista libanese Rayyane Tabet, curata da Leonardo Bigazzi al Museo Marino Marini.

Per quanto riguarda l’universo cinematografico vengono trattati: Amando a Maradona (2005) di Javier Vazquez; Maradona – La mano de Dios (2007) di Marco Risi; Maradona di Kusturica (2008) di Emir Kusturica; Maradonapoli (2017), tratto da un soggetto e una sceneggiatura di Antonio Di Bonito, Cecilia Gragnani, Jvan Sica e Roberto Volpe; Diego Maradona (2019) di Asif Kapadia.

Nel richiamare gli omaggi musicali al campione più celebri, Annachiara Guerra ricorda: La mano de Dios interpretato da Rodrigo Bueno e scritto da Alejandro Romero; Tango della buena suerte di Pino Daniele; Santa Maradona dei Mano Negra; La Vida Tombola di Manu Chao; Diego Armando Maradona di Francesco Baccini; Doma il mare, il mare doma degli Stadio; Maradò dei Los Piojos; Dale Diez di Julio Lacarra; La favola più bella, una canzone-ringraziamento della squadra nei confronti dei tifosi partenopei in occasione dello scudetto 1986/87. Infine, nel passare in rassegna i videogiochi che, in qualche modo, si sono intrecciati con Maradona, Guerra guarda a: Peter Shilton’s Handball Maradona (1986); Seibu Cup Soccer (1992); Pro Moves Soccer (1993); Football Manager 2020; Fifa 18 e Fifa 22, in cui però la presenza dell’icona di Maradona aprirà contenziosi legali.

Giunti a fine volume, che si chiude con una nota dell’editore che, da romano e tifoso della Roma, si sente in dovere di rendere a suo modo omaggio a Maradona, tornano in mente le domande che si/ci poneva Iozzoli su “Carmilla online” in occasione della scomparsa di Maradona a proposito del “mistero”, che probabilmente non potrà mai essere decifrato compiutamente, del particolare legame instauratosi tra l’icona Maradona e le “masse popolari” in tutte le loro declinazioni.

Era Diego, che dietro il suo aspetto caricaturale, eccessivo, celava un qualche magnetismo segreto e inafferrabile, come i grandi clown o i grandi dittatori? O eravamo noi (masse popolari […]) che avevamo traslato su di lui, inconsapevole mentecatto, una carico di aspettative e narrativa devastante? E non è stata forse tutta questa “letteratura” (popolare) ad uccidere l’uomo? Gesù non sfuggì al suo destino, a Gerusalemme ci andò con le sue gambe; e pure Ernesto Che Guevara in Bolivia ed altri ce ne sarebbero, da aggiungere alla lista: tutti costoro si avviarono sul Golgota spontaneamente, perché su di loro si era addensato il peso insostenibile di un Eggregore gigantesco, mostruoso, il condensato di milioni di anime perse, stanche, miserabili e indomite che ti esigono morto e glorificato, per scaldare un po’ le loro vite esangui? Si è sacrificato, Diego (supplizio autoinflitto a coca, cibo e alcol – e poteva andargli peggio), perché non poteva sottrarsi al suo ruolo? Lo abbiamo spinto noi, sul crinale infuocato della leggenda?
Maradona è stato così amato perché ha caricato su di sé tutti i peccati del mondo, in un’espiazione godereccia e torbida, esplodendo dall’interno come una stella marcia e luminosissima. Anzi, si è caricato sulle spalle il vero peccato, il Peccato Originale: la mediocrità dei mediocri, delle vite irredimibili, prive di salvezza, incapaci di tirare avanti senza i deliri di un qualche eroe, o sedicente messia. Destino epico e buffo – com’era nel suo stile arruffato, disordinato, folle, con così poco tango nelle vene.

Forse, al di là del legittimo desiderio di “comprendere razionalmente” il “mistero Maradona”, occorre non accontentarsi, si badi bene, ma saper godere di quel che resta indelebile del Diez di noi tutti, riassumibile attraverso un semplice passo della filastrocca che Leonardo Acone gli ha dedicato in apertura di libro:

Quaggiù in ogni slargo, cortile o campetto
Se vedi una finta o un esterno perfetto
Riappare il sorriso del Diez malandrino
Ritorna del calcio l’incanto bambino


Serie completa – Sport e dintorni

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