L’intera storia del progresso umano è stata una serie di transizioni attraverso cui un costume o un’istituzione dopo l’altra sono passate dall’essere presunte necessarie all’esistenza sociale nel rango di ingiustizie universalmente condannate.
Queste parole, di John Stuart Mill, ben potrebbero riferirsi al regime del 41-bis. Tale regime detentivo prende nome dall’omonimo articolo della legge sull’ordinamento penitenziario del 26 luglio 1975, n. 354. Questa misura, tuttavia, non è figlia naturale di tale legge (che all’epoca rappresentò un serio segnale di civiltà giuridica) ma è frutto di due inserimenti successivi. Il primo, nel 1986, con la riforma Gozzini, quando tale fu approvata per consentire al Ministero della giustizia in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza di sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti. Poi, all’indomani delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, tale misura si consolidò estendendo i casi eccezionali e le situazioni di emergenza ai detenuti per reati di matrice mafiosa.
Non è difficile immaginare le inquietudini suscitate dalle ondate emotive che si innescarono all’indomani di quelle stragi così efferate: il decreto legge n. 306 del 1992 divenne la risposta muscolare dello Stato che correva ai ripari di una presunta incapacità della pena detentiva ordinaria, con la preordinata idea di dover neutralizzare al massimo la pericolosità dei detenuti collegati alla criminalità organizzata che anche da dietro le sbarre continuavano a detenere il proprio ruolo di comando.
Doveva essere però una misura provvisoria, atta a rispondere in emergenza ad un’Italia profondamente scossa e desiderosa di sentirsi al sicuro, eppure, dopo oltre trent’anni, con alcuni accorgimenti del caso attuati nel 2002 e nel 2009, come sovente accade in questo Paese, la risposta emergenziale è divenuta prassi.
Una prassi che nei primi mesi del 2023 invece che sgretolarsi dinanzi ad un detenuto in sempiterno sciopero della fame, si è consolidata sempre più, con i mass media a fare puntualmente da cassa di risonanza all’indignazione o alla vendetta popolare, a seguito della “tanto” agognata cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro.
Ma qual è, ancora oggi, la finalità primaria del regime del 41 bis?
Come detto, il “carcere duro” serviva ad eliminare la possibilità per i detenuti mafiosi di continuare a gestire – anche da dentro – sistemi criminosi. Tuttavia, bisognerà anche prendere in considerazione i numerosi “ritocchi” del legislatore dato che, se in origine la previsione era destinata a colpire soprattutto gli appartenenti ad organizzazioni mafiose, ad oggi la platea è diventata ben più ampia ed anche irragionevolmente eterogenea: include delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, delitti di matrice sessuale, delitti in materia di sequestro, tratta di persone e riduzione in schiavitù, favoreggiamento dell’immigrazione illegale, traffico illecito di sostanze stupefacenti e in ultimo, anche il contrabbando di tabacchi lavorati esteri.
Oggi, dunque, 749 persone, scontano per vari motivi e non perché essenzialmente mafiosi, in 12 istituti sparsi per la Penisola, una pena probabilmente molto più grave dei reati che hanno commesso, che consta di: isolamento permanente, due ore d’aria al giorno, un’ora di colloquio al mese con soli familiari divisi sempre da un vetro schermato, sorveglianza h24, censura totale della corrispondenza, verifica totale delle telefonate, degli incontri, impossibilità di cucinare, di detenere oggetti, anche libri, a volte anche foto. Una detenzione intrinsecamente connotata, appunto, da un surplus esagerato di durezza.
Siamo dinanzi a latenze che nulla hanno a che fare col fine primario manifestato: questa volontà di approdare a l’annichilimento del condannato cela una finalità dal carattere ulteriormente repressivo-punitivo.
Appare chiaro dunque che più che pena orientata alla rieducazione del condannato siamo dinanzi alla riproposizione del supplizio di Damiens in chiave moderna.
Ma uscendo fuori dal terreno tradizionale che sovente concentra la critica al regime del 41-bis alla sua compatibilità con la Costituzione, bisognerebbe porre la questione sul piano del rispetto del valore supremo della dignità umana.
Lo Stato Italiano è formalmente uno Stato democratico e resta tale nonostante al proprio interno sia stato legalizzato un sistema penitenziario che tortura, e tutto ciò è tollerato perché ad essere torturati legalmente sono i ‘nemici’ dello Stato, per giunta detenuti. Ma nel momento in cui lo Stato diventa torturatore istituzionalizzato, chi è che interviene? L’istituzionalizzazione del 41 bis contraddice lo scopo stesso dell’idea formale di Stato democratico, è così che viene meno lo Stato di diritto ma anche di più: lo Stato si sta auto negando.
Alfredo Cospito si sta sacrificando per alzare i riflettori sul fatto che, nel 2023, non si può morire di pena. Con la dovuta sensibilità nei riguardi della sofferenza che Cospito sta patendo, se questo sciopero lo porterà alla morte, ci ritroveremo senza dubbi al teatrino immondo e disgustoso delle testimonianze istituzionali di cordoglio. Ma l’unica risposta seria ed efficace, di uno Stato democratico degno di esser chiamato tale, sta nell’eliminazione totale – a tutti i costi – del carcere duro, del carcere permanente ed ostativo e di tutte le pene che mettono a repentaglio la dignità umana.