di Francesco Festa
Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90
“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti mediati dalla cronaca di qualche telegiornale se non ricostruiti verosimilmente in fiction per il pubblico pagante, ma sempre tenuti a debita distanza dall’esercizio della critica o dalla presa di coscienza. Insomma il romanzo o smuove le acque della cultura borghese oppure è letteratura inoffensiva, innocua, che non lascia il segno.
Quindi, il romanzo noir come un “grimaldello” ma anche come un dispositivo. Con Gilles Deleuze e Félix Guattari che rileggono Franz Kafka, l’opera letteraria apre molteplici accessi che offrono l’ingresso nella Storia dei subalterni, degli indesiderati, dei “dannati della terra”. Per ciò un romanzo noir insegna giocoforza a “odiare ogni letteratura dei padroni” e prova attrazione per gli ultimi, “i servi e gli impiegati” di Kafka, o altrimenti i reietti, gli “anormali” della società secondo Foucault, gli individui da correggere e destinati alla esclusione, all’esilio, al carcere, alle periferie. Che in realtà sono le zone d’ombra del potere e del capitale, come Izzo ha mostrato, ossia i luoghi del “realismo capitalista.”
È nel solco di tale traccia indicata dai grandi romanzieri noir che si muove la seconda opera di Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini. Un noir a tratti thriller – ambientato a Napoli, ma con incursioni su Milano – in cui molti sono i rimandi al suo primo romanzo (I santi d’argento, 2022). Un consiglio: i due libri vanno letti insieme. E non se ne può equivocare la corrispondenza, per lo meno grafica, poiché entrambe le copertine sono disegnate da Zerocalcare.
I due libri sono l’affermazione di un talento: un inconfutabile e originale talento. Il cui genere ha un nitore nello stile e nell’espressione che lo rendono inconfondibile. Che in realtà è uno stile che lo colloca a pieno titolo fra gli autori del “noir mediterraneo”, sulla scia di Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Maurizio De Giovanni, il cui ispiratore è certamente Izzo. Sembra azzardata un’associazione così impegnativa, eppure Nostra signora dei fulmini non lascia dubbi sulla stoffa del suo autore.
Il noir di Piacci ricostruisce un insieme di storie ai margini: di proletari metropolitani che ostinatamente provano a curvare un destino che per loro è già stato scritto nella culla. L’incastro narrativo è costituito da rompicapi casistici fra il poliziesco e il criminale, mentre l’infrastruttura che unisce i personaggi è il crogiuolo di sentimenti e di passioni. Nel suo stile narrativo l’ambivalenza dei rapporti sociali si esplicita in una dialettica fra la vita e la morte, ove la differenza è intangibile, e la morte si presenta in tutta la sua crudezza di violenza, ferocia e disumanità.
Il punto d’aggancio è un groviglio di fatti e storie, presenti e passati – sullo sfondo della periferia occidentale di Napoli – che ruotano attorno alla vita di Vincenzo, il quale prova a districarsi fra le sue dipendenze, sostanze e amore, e a respingere un passato che non passa. Alcuni morti ammazzati infatti provano a strappargli il futuro e a trascinarlo nei bassifondi della criminalità con cui credeva di aver chiuso i conti.
Lo sguardo adoperato per narrare le vite di questi proletari senza gloria è tanto realistico quanto intimistico. L’autore ricostruisce il contesto in cui si muovono i personaggi, ma al contempo entra nella soggettività radiografandone i sentimenti: cioè, indaga l’estensione dello spazio del reale e delle storie così come l’intensità delle passioni, delle emozioni di quelle vite che provano a strappare la gioia ai giorni futuri.
Lo spazio che allontana questi ragazzi è meno spesso di quello che possa sembrare. La mia adolescenza è coincisa con il fervore degli anni Ottanta. Ovunque imperversava l’idea della scelta come diritto universale inalienabile. Nella maggior parte dei casi, però, la scelta riguardava solo cosa acquistare, e di conseguenza interessava solo chi avrebbe potuto permetterselo.
Per ragazzi come Salvatore la scelta non esisteva. A lui, come a tanti altri, non era dato nessun orizzonte da percorrere, se non la strada. Mi chiedo se ci fossi nato io senza alternative, quale dei due sarei adesso, quello obbligato a implorare di essere mutilato, oppure il suo torturatore. Uccidere o morire, carnefice o vittima, mutilato o mutilatore, forse la sola scelta che quell’epoca ha consegnato ai ragazzi del mio quartiere è stata questa. (p. 193)
Muoversi nelle zone d’ombra fra proletariato e borghesia, nelle terre di mezzo fra polizia, politica e criminalità, in un gioco di rimandi, osservando l’antropologia urbana, significa anche narrare in altro modo la lotta di classe che innerva la città. Infatti, nel flusso di fatti che sostanziano la lettura senza lasciare respiro, con una prosa penetrante, fra storie personali, dipendenze e ammazzamenti, vi è anche la lotta di una cooperativa di pescatori contro una multinazionale che contende la felicità a quella piccola comunità di lavoratori del porto di Bacoli. E se il romanzo è un’invettiva contro il lato oscuro del nostro vivere, i personaggi di Piacci sono dei falliti, ma non vinti, anzi, perennemente alla ricerca di un’altra occasione, anche se succubi di una realtà che non possono cambiare.
Nostra signora dei fulmini cede a quel senso di “appocundria”, quel sentimento di rassegnazione misto a malinconia, messo in versi da Pino Daniele in Terra mia. Eppure, al contempo, il libro restituisce un senso di ribellione e di rivalsa che risveglia il lettore provando a combatterne l’apatia e a farlo schierare. A dirla tutta è un altro modo di militare, quello di Piacci, ossia trasmettere dubbi, angosce, felicità, piaceri. E’ una maniera di condividere.
Pronuncia queste parole con tono neutro, asettico. Con la certezza di una verità scientifica. Se mio padre fosse qui, illuminato dalla luce fioca del sole di ciò che non è mai avvenuto, direbbe senz’altro che Lo Cascio è la prosecuzione dello Stato con altri mezzi. E in effetti lui si sente lo Stato. Giovanni lo guarda sprezzante: “E ti fa sentire forte tutto questo? A me dei tuoi intrallazzi, della politica, degli appalti, non me ne è mai fottuto niente. Parli come se hai capito tutto del mondo e sai campare solo tu, e invece dovresti ringraziare chi ti è sempre stato amico, non sapendo che in realtà eri un infame. (p. 256)
Nei tempi di quelle vite che ritmano lo stile, nell’alternanza umorale delle parole, Piacci racconta in fin dei conti le contraddizioni di Napoli, ché in realtà sono le contraddizioni delle società capitalistiche. Fra tutte, la turistificazione e la gentrificazione della città, ossia, come mercificare e ridicolizzare le pietre, la lingua se non la cultura, a uso e consumo della distrazione di massa e dell’ignoranza funzionale.
Laddove il desiderio di lottare e la voglia di amare convivono secondo «un detto dei banditi [che] suonava così: cospirare vuol dire respirare insieme» (p. 319), si può resistere, trasformare, migliorare. Anche se in ogni caso si è in trappola. Non si può cambiare niente, fondamentalmente. Ma nello spazio a disposizione si può essere felici costruendo comunità che cospirano.