Su “Locus desperatus” di Michele Mari

di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo lavoro di Michele Mari in cui finzione e ossessioni autobiografiche si fondono in un unico misterico crogiolo.

Gli oggetti di Mari li si era ammirati nelle immagini di Asterusher (2015) e molti li si ritrova adesso (ma come esseri senzienti e ansiosi) in Locus Desperatus (le targhette numeriche dei minatori, la radice di mandragola, l’omino Michelin, etc.). Sono oggetti che risalgono all’infanzia remota (soldatini, l’orsino di migliaia di notti) o reperiti negli anni con spirito collezionistico non meno incantato di quello di Walter Benjamin: cose avulse da un valore commerciale, che recuperano la loro bellezza dalla raggiunta defunzionalità e secretano un loro vissuto. Talvolta apotropaiche, scaramantiche, sempre tendenti a una loro speciale unicità. “Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole (…) e loro mi avevano restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia” afferma l’anonimo protagonista in prima persona (che sarebbe lui, Mari, se si desse retta alle semplificazioni di Sainte-Beuve; ma, quanto ai libri, è anche una reincarnazione del Kien di Auto da fé). E così si rivolge alle cose ben più confidenzialmente di quanto non faccia con i propri simili, avvertendo tutti i loro disagi all’eventualità dello sfratto (la fuga delle targhette pari, le craquelures del vaso di Limoges, gli arretramenti di alcune brossure settecentesche). I libri sono, va da sé, la gran parte di questo tesoro, essendo stati e restando “come un ponte di zattere lungo tutta la vita” (citazione da Rondini sul filo) e, con essi i cosiddetti giornalini. E’ l’infanzia sempre rimpianta ad amalgamare i valori in sequenze quali “Tacito Proust Guicciardini Soldino Geppetto Eta Beta” (in Tu, sanguinosa infanzia).

Disperato è il luogo in cui si prospetta uno sparigliamento, anche provvisorio, di tanto patrimonio. Una delle prime autodifese del protagonista sarà quello di dividere parte dei propri feticci tra l’appartamento sottostante affittato all’uopo (reso comunicante da una botola) e la casa di campagna (già in Di bestia in bestia, primo libro di Mari, lo smembramento di una biblioteca veniva stigmatizzato come “la cosa più disumana e crudele che si ripeta sulla terra”).

Ma in Locus Desperatus la dispersione, ordita dagli equivoci pretendenti alla tana-museo (e quindi aspiranti all’anima stessa di colui che in essa ha trasfuso la propria personalità) conosce forme di sottile e perfida deterrenza: parole, frasi e poi intere pagine di decine e decine di classici vengono cancellate dal lavorìo paziente e spietato di ragnetti, tarli, scolopendre. L’infallibile memoria del protagonista accusa falle improvvise su testi letti, riletti, amati, divenuti consustanziali: le letture di un misterioso visitatore notturno gli hanno come “sottratto” dalla mente le trame di 84 testi dal Werther a Lo straniero, passando per Cuore di tenebra (ricorre il “demone tassonomico” di Mari: 84 romanzi, 158 targhette cm. 2.8 x 1.8, 590 carte da gioco…). Sin dalle prime pagine del romanzo, con il rinvenimento quotidiano di sinistre piccole croci segnate col gesso sulla porta di casa, si percepisce un malaise che diviene crescente man mano che il narratore, in cerca lumi, incontra una galleria di criptici e come sfuggenti personaggi: in primis l’ hoffmanesco Asfragisto (uno di “quelli” che pretende il subentro), poi Procopio (un ex-latinista sfrattato anch’egli e ora in miseria), indi un raffinato filologo in cui riaffiorano inspiegabili competenze di idraulica e una vecchia compagna di classe S*** ritrovata dopo anni “insufflata” come “il maiale dei Pink Floyd”. Da questi contatti, tra dettagli e reticenze, il Nostro evincerà che la realtà pullula di subentranti e subentrati, di ladri di identità, di simulacri. E’ l’epifania del glorioso topos letterario del “doppio”, il Doppelgänger (da sempre caro all’Autore) ma qui nella variante estensiva e più conturbante degli ultracorpi (Jack Finney e Don Siegel sono citati). Due diversi incontri con ex-compagni di liceo (nel primo nessuno dei quali a lui riconoscibile, nel secondo sì) apre addirittura il dubbio sulla propria univoca identità: che anche lui anche sia un subentrante di qualcun altro? Che gli stessi oggetti, malgrado tenaci ricordi, li avesse messi insieme un ignoto predecessore, poi vittima del subentro? E la memoria di due raccapriccianti episodi d’infanzia gli conferma di aver avuto, oltre alla propria, un’altra madre, una madre- ultracorpo. Ad aiutarlo in una di queste ricostruzioni è Sileno, deuteragonista del romanzo, prototipo di tante fedeltà gregarie (Sancho Panza, Venerdì, Secundra Dass), “polimero antropomorfo” disceso da resine purissime poi divenute morchia (sembra uscire dalla matita di un Magnus).

Sponda positiva e concreta in un mondo di umani evanescenti e inaffidabili, l’”uomo morchia”, colto e buon selvaggio insieme, sarà prezioso sia per la stretta di mano resinosa e divinatoria che legge passato e destini di uomini e cose, sia per le strategie difensive che porteranno alla fine, pur senza particolare felicità (impensabile in Mari), a una sorta di liberazione dall’incubo.

Ma quanto contano davvero le cose? Tutto, quasi. Quando, in un momento di grave distretta e quasi di “guerra civile” domestica, il volume dei Canti di Maldoror, a nome degli altri libri, proporrà al narratore come minor male il sacrificio delle cose, la reazione è un urlo (“Mai! Non mi libererò di nessun oggetto, nemmeno il più vile!”). Così come -è l’affezione che omnia vincit- l’”ultimo vecchio tascabile Gherardo Casini o Dell’Albero, Corbaccio, Sonzogno” non vale meno ai suoi occhi di ben più preziose prime edizioni. Da qui gli struggimenti e l’incredulità allorché dovrà constatare la non ricambiata fedeltà da parte di alcuni oggetti (le targhette pari, la calamita, la manina di ottone) che, avvertito il timore di sfratto, vorrebbero optare (sia viltà, voglia di cambiamento o seduzioni fallaci) per un apostatico abbandono della tana-museo.

Locus desperatus, nelle sue poco più di cento pagine, è un distillato, una mise en abyme dell’intera opera di Mari e dei suoi archetipi. E’ il libro che da’ il soffio vitale ai silenti oggetti di Asterusher e che rafforza se possibile il centripeto autoritratto di Leggenda privata (“la mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai più consci”; “una vita in difesa, sempre, lo era stata”). Riprende le atmosfere di sospensione e maleficio che pendevano sulle magioni dei primi romanzi (Di bestia in bestia, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti ma anche sulla nave fantasmatica de La Stiva e l’abisso). La storia dell’antica compagna di studi S***, sorta di filo nero che attraversa il romanzo (dall’enfiagione all’urna urlante passando per lo “scheletro panneggiato di pelle”; la sua fine di pittrice, con quello scambio di vita e morte, ricorda il Ritratto ovale di Poe) starebbe bene in Fantasmagonia. E il proprio fortissimo imprinting cresciuto e radicatosi “nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento” non si profilava già in Euridice aveva un cane (tra i più perfetti racconti di Mari) con l’ossessivo confronto tra la casa familiare dell’immaginaria Scalna (ossia Nasca) nobilitata dai segni del tempo, dalla struttura alle suppellettili, e quella dei chiassosi vicini ammiccante alle giovanilistiche mode del neo-consumismo?

Delle ossessioni non ci si libera, lo straordinario è come in Mari si strutturino in intrecci sempre originali. Quest’ultimo romanzo non è soltanto l’atto d’amore per le proprie cose, è il libro, tra l’inquietante e il grottesco, della temuta perdita di centro, delle deduzioni che non si fanno mai certezze, della memoria periclitante, dei libri che si cancellano, delle foto che si sfocano, di abnormi escamotages medianici per diradare le nebbie (il colostro di S***, la mano resinosa di Sileno) o spacciare i nemici (alcune efficaci macumbe).

Un tale armamentario allucinatorio, onirico e fantastico ha sullo sfondo le ascendenze di maestri dannati come Hoffmann e Mathurin, Potocki e Poe, Meyrinck e Lovecraft; di quel Kubin, creatore di incubi specialmente grafici, si cita un passo tratto da L’altra parte (sulla divisione sacrificale delle cose: potrebbe fare da esergo alla storia).
Peraltro la sapienza ventriloqua di Mari ha sempre cullato al suo interno (da Leopardi a Dickens) ben altra pluralità di voci, più o meno evidenti (non ultimo quel dono metamorfico che dal proprio tragico sa secernere la comicità più immediata e profonda: Gadda, Proust). La sua prosa anche qui è mimetica, duttile ad ogni minuzia descrittiva, ad ogni indugio sulla materia sublime o repellente che sia. In essa si forgiano locuzioni e termini aulici dal potere straniante, i mumble mumble delle strisce e i puntini celiniani: tutti strumenti potentemente espressivi e tra loro come cementati, grazie ai quali pulsioni, viscere, fragilità fanno muro al mondo; la stessa acribìa nelle tassonomie, catalogazioni ed etimologie (si veda la dissezione del nome Obelix) conferma un lucido furor di ordine e il rifiuto di quanto somigli ad approssimazione e impermanenza.

Accanto ai tanti titoli letterari citati (da biblioteca borgesiana) si troveranno in Locus Desperatus riferimenti cinefili, sia capolavori che b-movie. E una qual certa metabolizzazione del cinema noir e d’azione caratterizza almeno due vivide “sequenze”, pur restando anch’esse iper-letterarie: quella con la visione simultanea del protagonista e del suo “secondo io” nei rispettivi appartamenti; e poi quel count down pieno di suspense, da gran finale, che è la difesa dell’appartamento-fortino, con gli oggetti più fedeli, scaramantici e acuminati, militarmente schierati a salvaguardia della tana-museo.

“Dunque era finita. O forse no” conclude l’Autore “Ma adesso le mie cose sapevano di avere in me un generale capace di guidarle, e io sapevo che mi avrebbero seguito per tutte le strade del mondo, fra le cose del mondo, fra gli umani e non umani del mondo, fra tutte le croci del mondo fino alla fine del nostro piccolissimo mondo”.
Ci si chiede da quale cielo delle Muse sia discesa, oggi, un’invenzione tanto inquietante e perfetta.

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