The Innocence of Simon Iff (Victoriana 44)

di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da poco terminato un pamphlet per dimostrare che gli antichi avevano una certa conoscenza della matematica della quarta dimensione e che la loro affermazione di problemi, come la duplicazione del cubo, implicava la conoscenza di un mezzo in cui i valori incommensurabili diventavano misurabili. Considerava particolarmente forte il postulato delle parallele di Euclide, che non solo non è stato dimostrato, ma si è rivelato indimostrabile. Era anche un profondo studente della Massoneria, i cui arcani gli fornivano ulteriori argomenti sulla stessa tesi.

Per consuetudine critica, spesso si ascrive tout court Simon Iff, il protagonista dei racconti che andrete a leggere, alla categoria dei detective dell’occulto: ciò che, corretto per alcuni versi, richiede però almeno robuste puntualizzazioni – con particolare riguardo a questa prima raccolta, sostanzialmente poliziesca. In effetti, Iff – creato da Crowley per sbarcare il lunario alla fine del 1916 durante uno squattrinato soggiorno a New Orleans, dunque con l’obiettivo pragmatico di un’agevole collocazione editoriale – è un mistico e un occultista: vocazioni che al suo riapparire con un ruolo importante nel romanzo Moonchild, avviato dall’autore proprio a New Orleans all’inizio del 1917 (ma pubblicato solo nel 1929), troveranno ampio spazio. Di più, Iff è nei fatti un alter ego dell’autore mago e profeta delle leggi del Thelema, sgomitante del suo egocentrismo e della sua voglia di colpire gli interlocutori. Se una compenetrazione tra autore e personaggio è in qualche misura normale, nel caso di un vanitoso come Crowley il meccanismo appare scoperto: del resto non ha mai smesso – e non smetterà – di proporsi come protagonista di narrazioni.

Grady L. McMurtry, discepolo di Crowley e riorganizzatore dell’O.T.O., ha ipotizzato che almeno in Moonchild Iff si ispiri all’occultista Theodor Reuss fondatore dell’Ordo stesso (nonché, pare, spia della polizia), e altri hanno visto un modello nell’amico Allan Bennett (che però in Moonchild ha anche un altro ruolo-calco più diretto, il mistico Mahatera Phang): ma occorre ricordare che proprio Crowley in un nota olografa in margine a un altro suo romanzo, Diary of a Drug Fiend edito nel 1922, descrive Iff come “una mia raffigurazione quale uomo anziano”. In Moonchild il gioco di proiezioni permette all’autore di “duplicarsi” con dialettica spudorata tra un Sé giovane e avventuroso, Cyril – mago e amante, nonché vero protagonista – e un Sé molto più maturo, appunto Iff, mistico e maestro. Ma se Moonchild è insieme un romanzo iniziatico, una sorta di ideale risposta a The Magician di W. Somerset Maugham (1908), e una feroce satira degli ex-sodali Golden Dawn, le quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) che Crowley dedicherà al mistico, mago, psicologo e detective Simon Iff mirano a cavalcare mode narrative d’epoca – il proliferare di storie di indagatori del crimine e dell’occulto, i dialoghi brillanti di un ambiente sociale elitario che intriga il grosso pubblico, un certo tipo di poliziesco un po’ cerebrale alla Philo Vance (più tardo, dal 1926), sia pure con note di genuina originalità. D’altra parte Iff nei racconti è molto anziano, pur sembrando assurdamente giovanile; ma anche in questa prima tranche di avventure non manca un Crowley giovane, incarnato in Jack Flynn, editor del giornale The Emerald Tablet dietro cui intravediamo la testata crowleyana The Equinox; e c’è persino, tanto per continuare l’autofiction, una sontuosissima “Coppa Crowley n. 3” con fragole, Grand Marnier Cordon Rouge, champagne e ghiaccio.

L’occulto va perciò inteso semmai in un’accezione un po’ particolare. Nel primo racconto della raccolta, “The Big Game” (“Caccia grossa”), troviamo un cenno fuggevole a “una specie di club di adorazione del diavolo, […] una delle loro passioni era la cocaina” ma il caso permette di smascherare assassini rimasti impuniti; il secondo, “The Artistic Temperament” (“Il temperamento artistico”), ripropone echi del Ramo d’oro di Frazer in rapporto a un incredibile caso criminale, ed è impossibile non pensare ai racconti dell’altra serie più o meno coeva Golden Twigs (cfr., in questa stessa collana, Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, 2021); il terzo, “Outside the Bank’s Routine” (“Fuori dagli schemi”), riguarda un delitto enigmaticissimo e dai dettagli paradossali che può far pensare a una storia di fantasmi. Nel quarto, “The Conduct of John Briggs” (“La condotta di John Briggs”), occorre difendere un accusato d’omicidio, attraverso “la voce del suo particolare demone”; nel quinto, “Not Good Enough” (“Non abbastanza bravo”), ritornano echi di Frazer; nel sesto, “Ineligible” (“Inammissibile”), la ricostruzione di un passato nerissimo fa pensare a certe pagine di romantici torbidi francesi dell’Ottocento. Il concetto di occulto richiama dunque più spesso in questi mystery a un’accezione di segreto e umbratile, tenebroso, ancestrale o torbidamente velato, con il magico sullo sfondo e i misteri di una psicologia liberissimamente invocata dal Semplice Simon: colui che a colpi di domande e sintesi provocatorie decostruisce le verità giudiziarie o sociali per cogliere verità più sconcertanti e segrete.

Dal tardo 1914 al tardo 1919, la Grande Bestia 666 è in America, dove tra mille avventure cerca di importare il culto del Thelema: un periodo importante per la sua vita, anche se è ben lungi dall’immaginare il successo postumo lì, mezzo secolo dopo, che contribuirà all’esplosivo revival magico (tardi Sessanta-inizio Settanta) in tutto l’occidente e all’impennata dell’immaginario crowleyano nella musica. I soldi scarseggiano, quindi Aleister usa la propria fantasia e rapidità di scrittura per varare la saga di un nuovo personaggio. A metà gennaio 1917 termina di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff (quelle in sostanza del volume che avete in mano), in prima battuta edite su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio di cui si ritiene reincarnazione, l’equivoco medium e compagno d’avventure del “Merlino moderno”, il ben più presentabile mago elisabettiano John Dee. Vi si trova sotteso un qualche scherzo birichino all’ex-amico pittore Gerald Kelly, in seguito meglio noto come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista tra i preferiti della famiglia reale inglese, ma soprattutto cognato renitente di Aleister attraverso le sue nozze con la sorella Rose?

La prima serie è ambientata nel Vecchio Mondo. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). È senz’altro eccessivo proclamare – come fa Crowley annunciando con clamore la seconda serie – che si tratti dei polizieschi più sensazionali dopo quelli di Doyle su Holmes, ma è vero che il taglio appare innovativo: un dosaggio originale tra mystery e occult detective fiction, con ampio spazio alla psicologia e un po’ di Thelema. I testi sono fitti di citazioni letterarie (moltissime da Shakespeare) e di riferimenti più o meno cifrati, maliziosi o meno, alla vita e ai contatti dell’autore. Per dire, il cenno del racconto “Inammissibile” al Loch Ness richiama al luogo di Boleskine House, dove l’autore era vissuto a periodi e aveva celebrato rituali; e gli Exclusive Plymouth Brethren lì citati sono quelli del culto fondamentalista cui appartenevano i suoi genitori, e da cui la Bestia 666 era stata ovviamente cacciata. Anche più emblematico per il periodo che l’autore sta attraversando è un cenno a tre femme fatale – o piuttosto divoranti dark lady – contenuto nel terzo dei racconti:

Il ragazzo ebbe un sussulto, quasi svenne. “Esistono donne di questo tipo?” chiese Macpherson. “Pensavo fosse una favola.”

“Ne ho conosciute tre, intimamente”, rispose Simon Iff. “Edith Harcourt, Jeanne Hayes, Jane Forster. Quello che dice il ragazzo è vero. Posso dire che l’indulgenza nel bere o nelle droghe tende a creare questi mostri dalle donne più nobili. Delle tre che ho menzionato, le ultime due erano cattive per natura. Edith Harcourt era una delle donne più belle che siano mai vissute, ma sua madre le aveva insegnato a bere quando era ancora una bambina, e in un momento di stress il nemico nascosto è uscito da dove era in agguato: le ha distrutto l’anima. La sua personalità fu completamente trasformata; sì, signore, nel complesso, credo nella possessione da parte del diavolo. Tutte e tre le donne hanno rovinato gli uomini che hanno frequentato, o alcuni di loro. Jeanne Hayes ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi, Jane Forster ha portato un valido avvocato alla follia malinconica. Delle loro vittime minori, semplici cuori infranti e così via, si perde il conto. Edith Harcourt ha reso la vita di suo marito un inferno per tre anni, e dopo il divorzio si è scatenata del tutto e ha distrutto molti altri con le sue carezze infami.”

“L’ha conosciuta intimamente?”

“Era mia moglie.”

Dove sotto il velame della narrazione, Edith Harcourt è identificata da una nota olografa dell’autore per Rose Edith Kelly (1874-1932), da lui avventurosamente sposata, e assurta a prima delle Donne Scarlatte: è attraverso lei, nel ruolo di Ouarda la Veggente, che gli è giunta la famosa Rivelazione del Cairo, 1904, a monte del culto filosofico/religioso del Thelema. Si sono lasciati rovinosamente nel 1910, con divorzio ufficiale e strascico di rovelli. Rose ha avuto da Aleister due figlie, una morta prestissimo, l’altra crescerà lontana dal padre. Scivolata tristemente nell’alcool, l’ex-Donna Scarlatta sarà ancora modello per la povera Margaret del Magician di Maugham.

Jeanne Hayes, cioè Jeanne Eugenie Heyse, poi Heyes (1890-1912), in arte Ione de Forest, inglese di famiglia belga-irlandese, ha avuto la parte di Luna nei crowleyani Riti di Eleusi (1910) ma si è dedicata poi alla pittura, sposando il paleografo Wilfred Merton: ha poi avuto un rapporto con il poeta e scrittore Victor Neuburg (discepolo e per un periodo partner magico e di vita del bisessuale Crowley), e si è suicidata mentre attendeva il divorzio (“ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi”, sintetizza Iff). A trovare il corpo è stata la pittrice Nina Hamnett, che ricorderà questo sottomondo di arte, passioni ed eccessi nel suo Laughing Torso (1932), ed Ezra Pound celebrerà la giovane in una lirica e nel Canto VII.

Jane Forster, cioè la bellissima Jeanne Robert Foster (1879-1970) nata Olivier o Ollivier, modella, giornalista e poeta, citata come “il Gatto” nelle Confessioni di Crowley, da lui ribattezzata Soror Hilarion (è la terza Donna Scarlatta) e modello per la Mollie Madison di altri racconti, sarebbe stata d’accordo per lasciare il marito e sposare Aleister, che però ha lasciato improvvisamente: per una volta, la Bestia 666 è stata colpita al cuore, e il testo risulta scritto sull’onda di questa amarezza profonda.

Insomma Iff è un vero e proprio concentrato del Crowleyverse: ma sarebbe sbagliato, anche per i pragmatici motivi del varo di questi racconti, estrapolarlo dalla grande famiglia degli indagatori tanto florida tra i due secoli. Ed è inevitabile cercarvi parentele. Il paradosso è che, pur nell’ovvia distanza di profilo, il detective in fondo più simile all’occultista Iff nel lasciare spazio alle pieghe e piaghe della vita interiore sia ben diverso dei dottori psichici fioriti nei primi decenni del Novecento (e tanto meno dei loro predecessori vittoriani): si tratta in fondo di un indagatore del foro interno nientemeno che in talare, il sacerdote-detective Padre Brown creato nel 1910 dallo scrittore, poeta, polemista e critico d’arte Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con qualche anticipo sulla sua ufficiale conversione al cattolicesimo (1922).

Come osservato in altra sede, pochi personaggi paiono più distanti di Crowley e Chesterton: eppure sono entrambi geniali, combattivi, ingombranti, ironici fino al sarcasmo, cultori entusiasti del paradosso (“prince of paradox” è stato definito Chesterton, ma anche il magistero di Crowley – come esplicitato in Moonchild – vede nel paradosso un vero e proprio sistema di pensiero), autori prolifici di saggistica, narrativa e poesia. Entrambi eversivi, da lati diversi, rispetto al conformismo etico di un’epoca, al “modo di pensare meccanico dei protestanti” (come lo definisce Gramsci nelle Lettere dal carcere), al grigiore spesso vuoto di una morale pubblica vittoriana – sopravvissuta alla grande regina, gli strascichi correranno ancora per mezzo secolo – sull’onda in fondo della lezione del grande provocatore Wilde. I due hanno anzi modo di battibeccare a distanza fin dal 1901 (quando Chesterton mostra qualche interesse per la poesia di Crowley, con riserve solo sui suoi paganesimi d’importazione dai toni simbolistici modaioli): e si scambiano ironie via via crescenti, anche se nel complesso relativamente morbide. Certo, la prosa davvero letteraria, ricca e scintillante di Chesterton lascia parecchio indietro quella di Crowley. Come quest’ultimo del resto esplicita nella propria “autoagiografia” proprio a proposito delle avventure di Iff, in generale il sistema sottostante le medesime si basa

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

Nel senso proprio di una verità radicalmente umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Certo, c’è un abisso tra il piccolo prete di parrocchia, sorridente e un po’ trasandato, “che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità” (ancora Gramsci) e il vecchio viveur che può affettare esperienze ascetiche ma alternandole alle abboffate di foie gras e alle degustazioni di vini pregiati in club esclusivi. Ma entrambi rappresentano la critica a un certo modello di eroe raziocinante, e in fondo di mondo ideale, a partire da un approccio antropologico e psicologico e da un’ironia costante.

Si può faticare a star dietro ai fuochi d’artificio – talvolta un po’ forzati – dei paradossi di Iff. E tuttavia il brio e l’intelligenza, le divertite sorprese e gli arzigogoli di questi racconti mantengono una vivacità intatta e rappresentano godibilissimi documenti non solo per una storia dell’esoterismo ma per quella di un genere poliziesco che col fantastico flirta in fondo fin dalle prime origini, riuscendo al contempo a evocare effervescenti siparietti d’epoca.

Come Padre Brown, Iff notomizza i rovelli interiori, difende innocenti accusati e smaschera criminali e ipocriti, sia pure con interesse ben diverso dalla salus animarum cui mira l’eroe di Chesterton. Così alla Innocence of Father Brown (1911, come espresso nel titolo della prima raccolta sul prete-investigatore, seguita da altre 1914, 1926, 1927, 1935) ecco affiancarsi/contrapporsi la “semplicità” di Iff; al riferimento del primo alla fede cattolica, fa riscontro nel secondo quello al Thelema. Per esempio “L’universo è un fenomeno di amore sotto la volontà”; o anche, emblematicamente, “Come mi ha sentito dire circa un milione di volte, Jack, ‘Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge’”.

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