di Sandro Moiso
L’Occidente, in posizione di Dio (di onnipotenza divina a di legittimità morale assoluta), diviene suicida e dichiara guerra a se stesso (Jean Baudrillard, 3 novembre 2001)
Più volte negli ultimi tempi, a proposito degli Stai Uniti ma non solo, si è sviluppata sulle pagine di Carmilla una riflessione sulla frantumazione dei rapporti tra Stato e cittadini e tra Stato, classi e mezze classi, destinata probabilmente, e non per conscia volontà dei secondi, a svilupparsi in una guerra civile globale. Lo Stato contro tutti, tutti contro tutti, ma anche tutti contro lo Stato.
Così le immagini di una Washington blindatissima e di quindicimila soldati della Guardia Nazionale schierati nelle vie deserte e accampati come bivacchi di manipoli all’interno del Congresso, a protezione dell’insediamento del neo-eletto presidente Biden, hanno ulteriormente contribuito a rafforzare tale ipotesi. Infatti, se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo già immaginare fin da ora il destino dello scontro sociale all’interno di questo nuovo, e forse ultimo, modello di democrazia blindata, in cui i soldati si accampano nei palazzi del governo come ai tempi della guerra in Iraq e dei marines alloggiati nelle stanze che furono di Saddam Hussein.
Democrazia imperiale, muscolare e allo stesso tempo debole, che gli ultimi avanzi di una sinistra perbenista trasformatasi in nuova maggioranza silenziosa applaudono in nome di una narrazione politically correct soffocante, che sempre più assomiglia ad una nuova forma di conformismo del pensiero e di censura di qualsiasi altra opinione che possa, anche solo lontanamente, assumere aspetti di radicalismo politico o sociale.
Nel 1969, negli Stati Uniti coinvolti in una guerra nel Sud-est asiatico iniziata da due presidenti democratici, John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson, e continuata dal repubblicano Richard Nixon, il “nero” Jimi Hendrix distorceva e straziava con la sua chitarra elettrica l’inno americano trasformandolo in grido di dolore e rivolta contro la guerra in Vietnam e la repressione dei movimenti sociali di opposizione, “bianchi” e “neri”, in casa. Oggi, nell’America di Joe Biden, una stellina “bianca” caduta dal firmamento del pop, ben regolamentato da un giusto equilibrio tra ciò che si può mostrare del proprio corpo e ciò che si può dire per piacere ai potenti, avvolta in un abito che ricordava la bandiera a stelle e strisce, ha interpretato con strumentale passione e finta commozione patriottica lo stesso inno, accompagnata dal coro dei semper fidelis marines.
Una pseudo-poetessa rap ventiduenne ha declamato versi sul valore della democrazia “riconquistata” mentre i poteri bianchi e creoli si commuovevano, con il rally positivo della borsa che nel frattempo faceva aumentare la soddisfazione per il risultato elettorale e per lo “scampato pericolo”, e la memoria della poesia rabbiosa del ghetto dei Last Poets e di Gil Scott-Heron, il messaggio infuocato di Grand Master Flash & the Furious Five, la violenza e l’ironia dei testi dei Public Enemy, autentici profeti della rabbia di strada, e il body count di Ice T venivano definitivamente banditi e cancellati dalla storia della cultura afro-americana. All’epoca della rivolta di Los Angeles del 1991 la polizia di vari stati americani ottenne che che il disco di Ice T contenente il brano Cop Killer fosse ritirato dal mercato, mentre oggi la sceneggiata democratica contribuisce alla pacificazione sociale e alla negazione del conflitto. Sbiancando il contenuto dei testi, strappati alla tradizione dei griot africani e costretti nell’ambito del bon ton della borghesia progressista bianca e afroamericana. I’m black and proud! aveva ruggito James Brown, molto prima che Michael Jackson iniziasse a sbiancare la propria pelle, mentre anche la musica nera, che fin dalle origini era stata definita come “musica del diavolo” per la sua esplicita sensualità e visceralità espressiva, aveva già da tempo visto ingrigire il suo colore originario.
La componente di Black Lives Matter che sembra essersi maggiormente affidata al sogno della democrazia americana, che a guardar bene non assomiglia neppure al sogno di Martin Luther King, rischia di finire in una trappola da cui non c’è uscita poiché con questa scelta, parafrasando un vecchio rivoluzionario, rischia di far fare ai movimenti di protesta afroamericani due passi indietro e nessuno avanti. Il primo, più importante, nei confronti delle rivendicazioni del vecchio, ma per ora ancora mai superato, Black Panther Party che fondeva la questione della liberazione degli afroamericani con quella più generale della liberazione dal dominio imperialista e di classe. L’altro in direzione di un soffocante identitarismo esclusivamente razziale destinato a rilanciare soltanto le esigenze di riconoscimento sociale della upper-middle class afroamericana, la cui principale (e fallimentare) espressione si è avuta, per ora, con la presidenza Obama.
Cosicché una donna ricca e potente come Kamala Harris può fingere di essere la rappresentante autentica di tutti gli afroamericani, anche di quelli poveri, emarginati e reclusi, nelle vesti di Vice-presidente, mentre nelle strade deserte della capitale fotoreporter e giornalisti embedded mostrano i giubbotti antiproiettile per sottolineare i gravi pericoli corsi dalla democrazia americana.
Una democrazia golpista all’estero e assassina di leader politici in ogni angolo del mondo, oltre che all’interno, basata sullo sfruttamento della forza lavoro in casa e ovunque le aziende americane esportino i loro capitali per incrementarli al minor costo e col maggior profitto possibile. Una democrazia autoritaria nata dalla distruzione dei nativi e dalla schiavitù degli schiavi africani e dei loro discendenti1 e articolata intorno ad una ripartizione della ricchezza vertiginosamente ineguale che ha sempre richiesto un enorme tributo di sangue. Una democrazia basata sulla forza del dollaro e fondata sul potere delle armi come in quasi nessun altro paese al mondo e che ora, con le truppe schierate intorno a Capitol Hill e alla Casa Bianca, in misura ben maggiore di quelle schierate nell’estate del 2020 da Trump a causa del rifiuto opposto allora dal Pentagono all’intervento dell’esercito nelle strade d’America, mostra il suo vero, unico ed ultimo volto.
Come al solito i “sinistri” embedded, di qua e di là dell’Atlantico, continueranno ad urlare al mancato colpo di stato dei sostenitori di Trump, fingendo di non vedere che, forse, il vero golpe lo porta avanti una fazione politica ed economica che dell’aria sorniona del più anziano presidente degli Stati Uniti ha fatto la sua immagine e della parziale farsa del 6 gennaio la sua stampella d’appoggio. Un anziano presidente che, però, ha immediatamente rivendicato i pieni poteri per il “contrasto al Covid” e che nel suo discorso inaugurale ha ricordato che in “democrazia” è possibile manifestare opinioni divergenti purché nel farlo non si creino o alimentino divisioni. Come se le divisioni sociali, le differenze di classe e razziali fossero semplici incidenti di percorso, create soltanto da discorsi dissennati e, sottinteso, “fascisti”.
I telegiornali del 21 gennaio, però, hanno anche trasmesso le immagini dei manifestanti, vestiti di nero, che in diverse città americane bruciavano la bandiera nazionale davanti agli edifici del governo. Infatti, in concomitanza con l’insediamento del neopresidente, hanno avuto luogo mobilitazioni per dare voce a una chiara opposizione anticapitalista all’arrivo dell’amministrazione neoliberista di Biden. D’altra parte le battaglie di strada dell’estate scorsa, dopo gli omicidi polizieschi, hanno lasciato il segno. Nella coscienza e nella volontà di procedere con la lotta di molti giovani, sia neri che bianchi e latini, ma anche in quella della borghesia sia bianca che nera. Concordi, queste ultime due, nel voler impedire qualsiasi ulteriore sviluppo organizzativo, associativo e di lotta della componente più radicale di quei movimenti2.
Mentre le forze che sono attualmente l’espressione della nuova rivoluzione americana della Gig Economy (piattaforme social e di E-commerce, Big Data, Big Tech, Big Pharma) già si approntano a distribuire patenti di correttezza nell’uso del linguaggio politico, censurando ogni forma diversa di comunicazione (non ci si illuda: prima Trump e i suoi followers, poi chiunque altro intralci per davvero il cammino “progressivo” della democrazia blindata) e certificazioni vaccinali che dei cittadini, più che lo stato di salute, notificheranno l’adeguamento immediato a qualsiasi nuova norma istituita dallo Stato e dalla società dell’autoritarismo “democratico”.
Welcome to the terrordome quindi, anche se travestito da innocente luna park dell’eguaglianza dei diritti formali e proprietari, destinati a negare quelli economici, sanitari e politici reali, destinati ad essere soffocati e nascosti come polvere sotto il tappeto della democrazia parlamentare autoritaria.
Superare i pregiudizi significa allora, e prima di tutto, cercare di riunificare tutto ciò che è stato diviso ingiustamente e a favore di pochi. Ripartire dalle lotte dal basso sarà l’unico vero passaggio obbligato nell’immediato futuro e la resistenza contro la società del capitale inevitabile. Mentre tutte le banalità riconducibili ad una visione politically correct espurgata da qualsiasi riferimento allo scontro di classe e il piagnisteo democratico-parlamentare non potranno che rivelarsi inutili e dannosi; da combattere come il capitale, il fascismo (vero) e tutti gli strumenti materiali ed immaginari che ne sostengono ancora la permanenza in vita.