È morto Toni Negri. I suoi meriti di studioso (inseparabili da quelli di militante) sono molti: la messa a punto collettiva dell’arsenale teorico operaista; lo studio del potere costituente; la “scoperta” della genealogia materialista Machiavelli-Spinoza-Marx; le tesi su Lenin; il dialogo con Foucault, Guattari, Deleuze; le analisi sull’impero, la moltitudine e il comune.
In questi studi, al netto del possibile accordo o disaccordo, ci si trovava una forza, un’ostinazione, un demone che sono quelli dei rivoluzionari. Con il suo sguardo, Toni era lì. Lì dove i tumulti si facevano presenza, dove si formava un’assemblea, un’istituzione del comune, un’espressione di potere costituente e, naturalmente, dove scoppiava una rivoluzione. Mai perchè dovesse spieagarcele o peggio ancora, spiegarle ai suoi protagonisti. Sempre, invece, per sospingerle, per propagare il fuoco. Contro l’autonomia del politico, anche il Lenin di Negri non conduceva al partito d’avanguardia, era piuttosto la dimostrazione storica che il comunismo potesse, partendo dalla teoria di Marx, prendere corpo. Quello che Negri descriveva era però un corpo paradossale, un “Lenin delle assemblee” che spiazzava, ancora una volta, qualsiasi ortodossia.
Dove il capitale ed i suoi gendarmi facevano il deserto, Toni non si votava alla nostalgia, anzi esortava a guardare il vuoto negli occhi. Così aveva attraversato gli anni Ottanta, occupati dalla galera, dall’eroina e dalle merci. Al tempo stesso però, aveva sempre rifiutato l’ipotesi che la vita potesse essere spogliata fino alla nudità. In ogni circostanza, la vita a cui Toni guardava, poteva ribellarsi, resistere, tracciare una linea di fuga, darsi forme collettive di organizzazione, anche quando stava rinchiusa nel campo, anche quando veniva fatta oggetto di necropolitiche.
Da oggi, allora, si pone il tema dell’eredità di Negri. È un tema complesso. E non si tratta di fare di Toni un profeta, figura che egli stesso riteneva tramontara. Non si tratta solo di mantenere viva la sua memoria, se possibile di redimerla (e questo è un problema tutto italiano) dalla damnatio memorie bibartisan che ancora pesa. Si tratta, piuttosto, di non smarrire quell’ostinazione intellettuale che era uno dei suoi tratti caratteristici, di non adeguarsi, di non accontentarsi di qualcosa meno della rivoluzione.
È chiaro, il pensiero rivoluzionario si forma più facilmente in tempi rivoluzionari, ma l’eredità negriana più importante è quella che ci spinge a praticare, in ogni circostanza, un pensiero situato. Non uno sulle lotte, sempre uno nelle lotte. Dio non voglia che Negri diventi un pezzo da museo, o il capitolo di un manuale, a meno che quel manuale non serva a sovvertire l’accademia neoliberale. Un ottimo modo di maturare l’eredità negriana sarebbe quello di rilanciare una riflessione profonda tra chi si sente affine ad una certa storia e ad una certa postura teorico-politica, non in nome di un ritorno al passato (che avrebbe in ogni caso poco respiro), piuttosto con l’ambizione di aprire nuove strade, nuove prospettive, rimettendo in moto una macchina collettiva di pensiero comune.
Permettetemi di chiudere con un breve aneddoto. Ho avuto la fortuna di incontrare Toni un’ultima volta pochi mesi fa, a Venezia, dove aveva accompagnato Judith Revel che teneva un seminario allo IUAV. Già fisicamente provato, ma lucido, aveva acconsentito ad incontrare un piccolo gruppo di giovani compagnə. Avevamo stabilito che la durata dell’incontro non avrebbe superato la mezz’ora. Dopo piú di due ore, stupefatti, il racconto di Toni ancora ci portava nella Venezia degli anni Sessanta e Settanta. Stavamo tra calli, ponti, osterie e assemblee. Poi le lotte, gli scioperi, i blocchi e l’assemblea autonoma di Porto Marghera. Memoria incarnata di un luogo e di un pezzo della sua storia ribelle.
Quella storia me la ricordo oggi, perfettamente, assieme alla generosità di chi ce l’ha raccontata.
Marco Baravalle (Centri Sociali del Nord Est).