Turna su Il bel Santein

(Ancora su Sante Pollastri)

di Giorgio Bona

Tira vento a ottobre tra queste colline. La nebbia dà un senso di gelo e bagna i vestiti. Se si alza, torna la visuale di un cielo grigio, muto, quasi trasparente.

A Sante piaceva molto quel paesaggio nei dintorni di Novi. Gli ricordava lunghi tratti della campagna toscana: lo stesso odore di terra vergine, lo stesso sfocato tramonto che si schianta sul profilo frastagliato delle colline. Rimane diversa la tonalità dei colori, più tenue, più delicata.

In pieno pomeriggio, sempre che possa esserci pomeriggio a ottobre.

Umido che viene dallo Scrivia.

Foschia.

Fiato di tabacco.

Il mondo da via Cavanna sembrava un puntino oscuro. Sante stava tornando a casa. Qui era nato e qui voleva morire, mondo brigante.

Un ratto passò vicino ai suoi piedi per andare a nascondersi sotto un cumulo di rifiuti.

Guardò intorno.

Deserto.

L’umidità gli diede uno schiaffo sul viso costringendolo ad inspirare. Si voltò a guardare la strada che aveva percorso. Era come distaccare il passato che soffiava sul collo. Ebbe la sensazione di soffocare, come andare in apnea.

(l’uomo nero)

(A un certo punto si girò ed era lì che lo osservando, la sua figura scarsamente illuminata, le braccia abbandonate, il volto in ombra).

(Parlò a se stesso Costante mentre pedalava, parlò del suo passato che si allontanava come il gruppo in fuga. C’era da recuperare, raggiungerlo).

Il suo stradinom era Pollastro, ma mica è così semplice, lũ, gram fiò, se le zecche si fanno strada pisciando nel sangue, perché di notte desiderava dormire sotto la rosa, sentendosi sicuro soltanto in braccio a so ma’.

Quando so pa’ gli mise in mano la vanga per la prima volta provò quanto era bassa la terra e bisognava piegare la schiena.

A scuola il maestro faceva vedere le lettere dell’alfabeto, la A, la B… alla C Sante aveva capito che era inutile tanta istruzione: ognuno deve aggiustarsi da sé, deve fare quello che vuole e il mondo intorno è tutto una finta.

A Sante sarebbe piaciuto diventare corridore professionista come il suo amico Costante. Lo guardava ammirato staccare il gruppo in volata per correre verso il traguardo.

È così. La vita va presa nel momento stesso in cui gli altri vogliono portartela via. Lui non ha voluto piegare la schiena su quella zappa perché la terra è bassa e non risparmia nessuno. Nessun diritto a questo mondo. Lo stato è il vero nemico. Borghese, fascista o comunista che sia.

(L’uomo nero)

(Era lì, sette litri d’aria dentro ai polmoni, con gli occhi che lacrimavano per il freddo e per la fatica. Guardò quell’ombra sfilarsi la maglia stropicciata e sudata e quando gliela porse non era più. Un leggero gemito lo colse e una specie di sorriso sulle labbra).

Oe, fascisti! Brutti e cattivi, sempre a dargli la caccia, a braccarlo. Lui correva più forte di Costante, sentiva di essere il vero campione. Lui che non volle piegare la schiena. Meglio bere Cortese di Gavi che chinarsi alla terra mangiando polenta e verza. Alla piola della salute si vendeva cancarone ai paisan che erano come le bestie, che alzavano il gomito cercando di fottere la morte giocando a cirulla e alla morra.

Bestie. Sì, bestie, animali domestici, can da pajè, abituati alla catena. Avevano paura della loro ombra. S’inciuccavano e ringraziavano la Madonna e tutta la fila di santi. Ruscavano e sgobbavano, dicendo sempre sì. Per questo si sono meritati la miseria.

Sante avvertì dei passi alle sue spalle. Si sentiva una lepre al fiuto del bracco. Deviò dalla strada di casa, cercò rifugio dalla Zena. Lo seguivano, aveva la loro banfa sul collo. Si appoggiò al banco, chiese da bere. Due degli inseguitori si misero al suo fianco, il terzo occupò posto da solo, ad un tavolo libero.

Sante ordinò alla Zena di versare un altro giro. I tre si mossero. Un colpo andò a conficcarsi sulle assi del pavimento. Fu un attimo di panico, quanto bastava per darsi alla fuga. Si buttò contro la finestra, spaccò i vetri e via.

In quel momento sentì il freddo pulsargli le tempie. Lo sparò gli sibilò accanto, gli fece fischiare le orecchie. Subito dopo le facce sgranate dei carabinieri lo immobilizzarono, insaccandolo come un maiale. Era una collisione di corpi, uno scambio molecolare che avvenne a forza di colpi. Sentì sangue nella saliva mentre deglutiva e i colpi non si arrestavano.

I carabinieri gli sentirono dire a denti stretti: bravi, siete stati bravi, ma non è ancora finita.

 

Sante prese la bicicletta e senza una meta precisa imboccò la strada per la Liguria. Verso Ovada il sole sembrava bucare la nebbia e accompagnarlo per qualche tratto.

Aveva il volto di Costante, la stessa smorfia di Costante quando la strada diventa liquida e il catrame sotto le ruote cuoce anche il sangue. Doveva provare a staccarlo e lui era lì, sempre al suo fianco.

Capì tante cose in quell’attimo. Ecco cosa indispone chi corre: vedere qualcuno al tuo fianco, che ti guarda negli occhi, che non ti fa capire cosa vuole fare ed essere consapevoli che al primo tornante ti lascia lì, a mangiare la polvere.

Dov’è quel demonio? Urlò. Mentre il sole era di nuovo nascosto dietro la nebbia e la pace dei campi sul ciglio della strada sembrava uno sberleffo, una risata.

Poi la nebbia si dissolse definitivamente. Il sole era davanti a lui e lo invitava ad andare avanti.

Potrei superarlo, disse. Restò un attimo a pensarci, tra le parole pronunciate a denti stretti e i pedali che divoravano l’asfalto. In quel momento colse l’ultimo raggio di luce che lo colpì in pieno volto e Costante pedalava formando un vortice nell’aria, fuggiva e colorava le invisibili traiettorie della vita.

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