Umano, troppo umano

di Domenico Gallo

“Glory and life to the new flesh”
David Cronenberg

Il numero 361 della prestigiosa rivista italiana di filosofia aut aut è stato intitolato “La condizione postumana”[1]. Uscita nel gennaio- marzo del 2014, la monografia curata da Giovanni Leghissa iniziava la sua profonda riflessione con due domande: “Siamo sicuri di sapere cosa sia l’umano? Disponiamo di definizioni condivise dell’umano?”  Interrogativi che sfacciatamente richiamano a un lavoro interdisciplinare e a camminare lungo i confini degli specialismi che si intersecano e che sfumano, confini che si deve percorrere se, analogamente, qualcuno chiedesse “cosa è la vita”, oggi che creazioni/esseri artificiali si affacciano nelle nostre società? È possibile che la potente tradizione umanistica, intesa nel complesso di tutte le sue correnti, compresa quella marxista, sia partita da un postulato di unicità della specie umana e lo abbia mantenuto, seppure modificato, fino a oggi, affrontando prima i paradigmi darwiniani e, nel contemporaneo, la prospettiva trans-umana. Luigi Luca Cavalli Sforza spiega nel suo saggio L’evoluzione della cultura come la “cultura” sia “l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi nel nostro gruppo sociale”[2]. Si è trattato di uno straordinario risultato dipeso da una capacità di comunicazione fra individui, anche di generazioni diverse, resa possibile dal linguaggio. L’evoluzione biologica degli umani e la trasmissione della cultura da una generazione alla successiva sono state caratterizzate, seppure espresse in periodi diversi, da similari meccanismi di mutazione e selezione. Analogamente le scienze si sono trovate di fronte sia a variazioni di caratteristiche biologiche, pur nell’ambito di homo sapiens, sia alla scoperta di variazioni culturali che, con la globalizzazione sono condannate a scomparire. È dunque impensabile pensare all’umano senza tenere conto che, oltre alle sue caratteristiche genetiche, le nuove generazioni ereditano una serie di elementi filosofici, scientifici, tecnici, linguistici e artistici sempre maggiore che costituisco un patrimonio ereditario che, a oggi, ha reso unico l’umano. “Il dispositivo corporeo è da sempre la più palpabile garanzia d’identità per l’essere umano, e il suo legame più immediato con la natura. È ben vero, infatti, che esso è sede di fenomeni tipicamente umani, di pratiche simboliche, di ritualità e relazioni; ma è altrettanto vero che partecipa della sostanza e della qualità del mondo all’uomo. […] Il corpo è essenzialmente un costrutto culturale, che viene vissuto dall’uomo secondo modalità immaginarie: esso patisce sempre, quindi, una determinazione sociale e tecnologica, e perciò, in ultima analisi, storica”[3]. Nel 1997, assieme ad Antonio Caronia, avevamo iniziato un’analisi di come la fantascienza contemporanea, il filone autoproclamatosi cyberpunk, fosse il linguaggio più efficace per descrivere le radicali trasformazioni che stavano travolgendo l’umano a seguito di una immersione radicale in un ambiente digitale ad alta interazione, con tecnologie protesiche associate a un sistema di memorizzazione e distribuzione dell’informazione estremamente evoluto e globale. Il saggio che ne era seguito, intitolato Houdini & Faust, a una lettura di oggi soffre di una serie di imprecisioni terminologiche proprio riguardo a termini quali uomo, umano, natura, artificiale. Erano parole che stavano mutando, prendendo atto che “tutta la storia dell’uomo si lascia descrivere come la storia della progressiva artificializzazione del suo corpo”[4], anzi eravamo convinti che l’umano fosse simbolicamente nato nel momento stesso in era avvenuto il transito tra l’assolutamente naturale e il primo artificiale. Non sappiamo se è stato l’uso di una pietra per offendere o difendersi da un aggressore, l’osso usato come clava immaginato nel film 2001: Odissea dello spazio di Stanley Kubrick o un’altra “riprogrammazione” di un oggetto casualmente a disposizione, ma la nascita dell’umano non può che essere coincisa con un’azione protesica, con l’uso di un oggetto come estensione e potenziamento del pugno o altro di simile. Questo utilizzo di oggetti per aumentare e migliorare la sopravvivenza di un individuo e del suo gruppo è stato probabilmente copiato e tramandato, estinto e riscoperto molte volte, fino a quando il meccanismo di eredità culturale descritto da Cavalli Sforza ha preso il sopravvento per diventare un’informazione ereditabile, e quindi permanente, nell’esistenza pratica degli umani. Se rileggiamo Marshall McLuhan relativamente all’invasione digitale e protesica, due aspetti dell’evoluzione tecnologica che non sono separabili ma intimamente connessi, constatiamo come ogni tecnologia disponibile non sia altro che un potenziamento e una specificazione di un’attività umana, e nulla delle tecnologie sviluppate e diffuse in ogni epoca può essere considerata come non umana o a-umana. “Tutti i media, dall’alfabeto fonetico al computer, sono estensioni dell’uomo che gli causano cambiamenti profondi e duraturi e trasformano il suo ambiente. L’estensione è un’intensificazione, un’amplificazione di un organo, un senso o una funzione, e dovunque essa abbia luogo il sistema nervoso centrale sembra originare un torpore auto-protettivo dell’area affetta, isolandola e anestetizzandola così dalla consapevolezza cosciente di ciò che le sta accadendo”[5]. Il progresso scientifico e i dispositivi diffusi a livello di massa hanno ha prodotto un progressivo avvicinamento tra l’umano e le tecnologie da lui prodotte, fino a portarlo in quella condizione che McLuhan descriveva come “un organismo che indossa il cervello furi dal cranio e i nervi fuori dalla pelle”[6]. Era il 1964, e quella che potremmo definire una visione originale della sociologia e dell’antropologia già preannunciava un mondo in un cui il concetto stesso di umano sarebbe stato posto in discussione, quasi provocatoriamente ad affermare che, a partire dalla sua origine nella valle del fiume Omo in Etiopia, fosse la prima volta che collettivamente e interdisciplinarmente si dovesse ragionare su cosa veramente volesse dire essere umani. Un’urgenza che era dettata dall’accelerazione folle con cui le tecnologie avevano iniziato a entrare nel corpo, rendendolo più forte e resistente, più longevo, più performante, più aggressivo, quindi potenziando l’aspetto fisico dell’umano, la sua durata, nell’idea che l’umano fosse una macchina bio-meccanica, ma, contemporaneamente, ampliando la sua sensorialità attraverso la disponibilità istantanea dei contenuti di banche dati globali, diffondendosi nelle reti, interagendo a distanza, comunicando istantaneamente in ogni punto del pianeta, ma anche manipolando, flettendo e falsificando la realtà come mai era riuscito a fare.

Riccardo Gramantieri offre con questo saggio un contributo al dibattito interdisciplinare che riesce a inquadrare l’arco temporale di un fenomeno culturale che spesso, e sbagliando, si è voluto collocare temporalmente negli ultimi decenni, quando l’accumularsi di tecnologie digitali e bio-meccaniche uscite dai laboratori e diffuse a livello di massa sono diventate elementi fondamentali della nuova quotidianità. La manifestazione in atto è il punto terminale di un complesso tragitto dell’immaginario che, a oggi, era ancora da definire completamente, anche se è stabilito che sia stata la fantascienza a costituirsi come laboratorio intellettuale in cui l’identità dell’umano ha sperimentato letterariamente la sua mobilità, l’accompagnarsi allo sviluppo della società in un legame imprescindibile. Gli anni Ottanta del Novecento sono stati caratterizzati da un lavoro collettivo sulla narrativa di fantascienza che cercava di comprendere il rapporto tra le produzioni dell’immaginario e le trasformazioni antropologiche provocate dal diffondersi di nuovi media, media da intendersi secondo la definizione di McLuhan, cioè il complesso delle tecnologie e non solo quelle della comunicazione, come invece è diventato patrimonio del linguaggio comune. Uno dei primi interventi è stato il breve saggio di Caronia intitolato Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale[7], uscito in prima edizione nel 1984 per l’editore Theoria, a cui sono seguiti altri due successivi ampliamenti con le edizioni Shake (2001, 2008). Caronia metteva in relazione la storia dei tentativi di sviluppare automi meccanici sempre più sofisticati con la fantascienza che prendeva origine dal Frankenstein di Mary Shelley, proseguiva nella narrativa popolare dei pulp statunitensi per poi evolversi nei modelli sempre più complessi di Philip K. Dick, Cordwainer Smith, Alice Sheldon e Samuel R. Delany. Uno degli elementi di novità dell’approccio usato ne Il cyborg da Caronia consisteva nel comprendere che la capacità elaborativa che produceva l’immaginario non era peculiarità esclusiva degli autori dotati di una maggiore qualità letteraria ma poteva essere presente anche nelle produzioni più semplici e immediate che potevano essere facilmente essere bollate di scarsa qualità letteraria. Non si trattava però dell’approccio sociologico introdotto da Umberto Eco in Apocalittici e integrati, che si rivolgeva ai prodotti di consumo o di evasione, ma che sembrava essere specifico della fantascienza e dei suoi meccanismi, e della sua specifica competenza di elaborazione attorno al rapporto tra l’umano e la macchina, tra l’umano e le strutture di potere che si avvalevano della tecnologia per reprimerlo, tra l’umano e i confini esterni e interni che gli si paravano davanti. Tra i molti interventi collettivi italiani che affrontano la fantascienza e il suo rapporto con le discipline della cultura, la Rivista di antropologia contemporanea ha dedicato un fascicolo monografico al rapporto tra antropologia e fantascienza; nell’intervento di apertura intitolato “Le meraviglie del possibile” viene introdotto il “desiderio di altrove”, tratto dall’intervista a Wu Ming come “nozione che ingloba un’idea di utopia e alterità possibile, in senso che è certamente politico ma va anche oltre, investendolo di dimensioni intellettuali ed esistenziali più ampie” [8], riconoscendo alla fantascienza quella peculiarità che James G. Ballard aveva sintetizzato definendola la letteratura del Ventesimo secolo.

Gramantieri dimostra quali radici profonde siano innervate nell’immaginario della modernità, per successivamente maturare negli elementi costituenti dell’immaginario della postmodernità, percorrendo un itinerario a ritroso su come un intero dizionario scientifico si sia progressivamente ibridato con la letteratura, seguendo in autonomia proprie strade che dai laboratori d’avanguardia dei primi dell’Ottocento sono transitate nei circoli intellettuali progressisti e conservatori per approdare, infine, alle rutilanti invenzioni immaginarie dell’epoca dei pulp statunitensi. È in questa esperienza editoriale che, assieme alla divulgazione scientifica, la narrativa poliziesca, l’esotico e il sovrannaturale, il romanzo d’avventure, l’epopea dello sviluppo industriale e civile statunitense, la fantascienza si sviluppa fino a diventare uno degli elementi portanti della cultura di massa del mondo occidentale. È una cultura che si associa a una profonda evoluzione del lavoro, sempre più a contatto con la macchina, sia per gli aspetti di produzione nelle assembly line, sia nell’evoluzione delle competenze artigianali in conoscenze tecniche specializzate necessarie nella ricerca e sviluppo come nella sempre maggiore richiesta di manutenzione degli impianti industriali. È un rapporto ambiguo e contraddittorio che vede la nascita di un proletariato industriale metropolitano, con un suo progetto di rivendicazioni salariali e sociali, che raccoglie paure, tensioni e speranze, un magma che la nuova classe dei tecnici, dei progettisti e degli studenti introietta, forse fraintende, ma che inizia a diventare egemone nell’immaginario dell’intero Novecento. Già nel 1931, un autore pulp di discreto successo, iniziava a raccontare la storia del professor Jameson, l’ultimo sopravvissuto della razza umana che, grazie a un intervento alieno che gli inserisce il cervello in un involucro metallico, lo rende immortale e in grado di viaggiare nel cosmo[9]. Così iniziava una serie articolata di racconti firmata da Neil R. Jones, nota come la serie degli Zoromi, e pubblicata sulla rivista Amazing Stories che, assieme ad altri esempi, contribuisce a diffondere verso milioni di lettori l’idea del cyborg e di un possibile futuro di interfacce e protesi. È una sensazione che molti stavano probabilmente provando all’interno delle nuove produzioni a base tecnologica in rapida diffusione, sperimentando con la lettura, una attività non più elitaria ma di massa, un rafforzamento delle emozioni che riguardavano la riduzione della distanza tra macchine e umani. La lunga vita dell’idea postumana, la complessa rete di scritture immaginarie scovate, classificate e correlate da questo lavoro di Gramantieri, che offre testi e connessioni inediti nel dibattito sul postumano, nell’idea condivisa di una condizione connaturata nella stessa evoluzione di homo sapiens, offre materiali e provocazioni per quell’aspetto che è chiamato trans-umanesimo, ovvero la possibilità di una rideterminazione dei rapporti di dominio che gli umani hanno costituito nei confronti dell’intero mondo, degli animali, delle pianti e degli oggetti. Secondo Ballard, in ogni epoca, la fantascienza è “l’unica forma letteraria che guardi in avanti. Tutte le altre forme in cui si esprime la letteratura sono rivolte al passato. Il loro carattere contraddistintivo è la visione retrospettiva, mentre la fantascienza utilizza il futuro per interpretare il presente piuttosto che attraverso il passato. Il vocabolario usato dalla fantascienza è quasi totalmente composto da elementi orientati al futuro, come le scienze, le tecnologie, lo sviluppo della politica, dei problemi sociali, della pubblicità e così via”[10]. Non deve quindi stupirci se nella fantascienza, all’interno del suo lavorio con cui affronta l’estrema mutabilità e le potenzialità del presente, ci offra visioni apparentemente contraddittorie che vanno a popolare un immaginario complesso in cui si intrecciano tensioni, speranze, disillusioni e paura, utopia e distopia, oppressione e rivolta, frustrazione e riscatto. È l’emergere nel quotidiano di prospettive radicali e di alterità in grado di modificare le esistenze rapidamente e senza controllo che porta a immaginare narrazioni devianti rispetto allo stato di cose presenti. Per questo motivo il diffondersi della “nuova carne” stimola prospettive di super umanità, di immortalità, di potenziamento fisico e psichico, di dominio del cosmo attraverso biologia radicale, trapianti e protesi, ma anche di una modifica del paradigma dell’umanesimo, visto che gli stessi progetti di potenziamento possono essere applicati ad animali, piante e oggetti. Una serie di creazioni artificiali ha travagliato l’immaginario, come automi, robot, replicanti, androidi, simulacri, intelligenze artificiali, ognuno di loro riproduceva, specializzava e potenziava una caratteristica umana, aiutando e sostituendo gli umani in disciplinate attività di produzione e guerra, ma anche indisciplinandosi, fino a darsi progetti propri e autonomi e, a volte, opporsi e combattere l’umano. La visione di Philip K. Dick è nota e descrive un mondo in cui macchine ed esseri artificiali assumono un aspetto umano e “sono animate da qualche sinistro proposito”[11], mentre gli umani, snaturati da un subdolo sistema dittatoriale e consumista, sono alienati fino a sminuire la propria vitalità e perdere la loro più preziosa caratteristica, l’anima. Per Dick, un mondo in cui esseri artificiali si evolvono fino a simulare una grottesca umanità e gli umani sono confusi e hanno perduto quella loro eccezionalità che gli proviene dalla volontà divina è un mondo orribile, è una distopia, ma la sua visione umanistica e conservatrice, per quanto eccezionalmente coniugata nei più importanti romanzi della fantascienza, si è incrinata di fronte alla critica “ironica ed empia” del pensiero femminista di Donna Haraway. Haraway prende molto seriamente il contributo della fantascienza all’interno del dibattito politico, proprio perché intende contestare radicalmente “le tradizioni religioso-secolari ed evangeliche della politica statunitense, non escluso il femminismo socialista”[12], scegliendo un punto di vista empio, blasfemo, verso quelle che sono considerate origini culturali incontestabili di un’integrità dell’umano, o dell’uomo, termine con cui la cultura del patriarcato intende comprendere umani maschi e femmine. Un’integrità dell’umano che evoca inevitabilmente una creazione originale e un’immutabilità da preservare. Allora una visione culturalmente empia consente di mettere il cyborg al centro di una realtà che non deve garantire un’ortodossia alle passate origini ma di una progettualità futura che sia ibrida, sporca, empia, ironica, creativa, capace di tenere insieme aspetti incompatibili. Dichiarando che “il confine tra fantascienza e realtà sociale è un’illusione ottica”[13], Haraway sembra suggerirci che discutere di politica, di filosofia e di antropologia attraverso la fantascienza può condurre a soluzioni innovative e capaci di superare “la tradizione del capitalismo razzista e fallocentrico”[14], un’idea che poneva l’umano (e in generale l’uomo) nella posizione privilegiata di appropriarsi della natura, dominare e sfruttare gli esseri e gli oggetti che ne fanno parte, mentre una figura come il cyborg (quello che noi stiamo, volenti o nolenti, diventando) è un individuo eterodosso di un mondo post-genere che non deve ubbidire a nessuna delle categorie della tradizione, ma creare da sé il proprio progetto individuale e collettivo. La condizione trans-umana può consistere nella riflessione su un mondo in cui oggetti e componenti vegetali e animali entrano nell’organicità dell’umano, al di là delle consuete esperienze dell’alimentazione, della respirazione e delle ulteriori interazioni classiche, modificandone singolarmente le funzionalità, l’aspetto, le percezioni, l’emotività, il pensiero, mentre oggetti, animali e piante assumono caratteristiche umane come un’intelligenza che può funzionare sul modello umano come secondo altri modelli. Leghissa propone di considerare questo processo come un’evoluzione possibile verso una serie di scelte etiche orientate a creare un rapporto da pari tra le diverse specie che “dovrebbe spingere l’uomo a intrattenere un diverso rapporto con l’animale”[15] (e con gli altri abitanti vegetali e minerali del pianeta). Una modifica, in analogia a quanto prefigurato nel Manifesto cyborg di Haraway, destinata a scardinare un ordine economico, politico ed etico che oggi identifichiamo nel patriarcato e nella sua applicazione delle gerarchie come metodo. Autrici come Ursula Le Guin e Alice Sheldon sono state le più efficaci critiche sia del determinismo biologico sia della scontatezza dei ruoli che caratterizzano il mondo globalizzato dal progetto occidentale, proponendo tra le più vivaci e impressionanti visioni altre, defamiliarizzando la realtà quotidiana in cerca di quei “vizi di forma” così significativi per Primo Levi e che sono stati alla base della sua straordinaria fantascienza.

Questo saggio è l’introduzione al volume di Riccardo Gramantieri, Presagi di Postumanesimo. Dal romanzo vittoriano all’epoca dei Pulp, Mimesis, pp. 568, euro 38,00 stampa.

[1] G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014

[2] L.C. Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2004 – 2016 p. 1

[3] A. Caronia e D. Gallo, Houdini e Faust: Breve storia del cyberpunk, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 98

[4] A. Caronia e D. Gallo, op. cit., p. 98

[5] M. McLuhan, Intervista a Playboy, Franco Angeli, Milano 2013

[6] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano 2002, p. 68. Nell’edizione citata troviamo: “la tecnologia elettromagnetica richiede dall’uomo una docilità profonda e la quiete della meditazione, come s’addice a un organismo che ha ora il cervello fuori del cranio e i nervi fuori della pelle.” Si è preferito proporre una differente traduzione del testo originale.

[7] A. Caronia, Il cyborg: saggio sull’uomo artificiale, Shake, Milano 2008. Da diverso tempo penso che, forse, oggi Caronia avrebbe accettato di modificare il sottotitolo in Saggio sull’artificializzazione dell’umano.

[8] F. Dei, F. Dimpflmeier e F. Vietti, “Le meraviglie del possibile: antropologia e fantascienza”, in Rivista di antropologia contemporanea vol. 1, gennaio-giugno 2023, il Mulino, Bologna 2023, p. 6

[9] N. Z. Jones, “Il satellite di Jameson”, in I. Asimov (a cura di), Alba del domani: La fantascienza prima degli ‘Anni d’oro, Nord, Milano 1976

[10] J. G. Ballard, “1968: Uncredit. Munich Round Up. Interview with J.G. Ballard”, in S. Sellars and D. O’Hara. Extreme Metaphors: Interviews with J.G. Ballard 1967-2008, Fourth Estate, London 2012, p. 11

[11] P.K. Dick, “L’androide e l’umano”, in L. Sutin (a cura di), Philip K. Dick. Mutazioni: Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano 1997, p. 225

[12] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, in Manifesto Cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 39

[13] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. p. 40

[14] D. Haraway, “Un manifesto per Cyborg: Scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo secolo”, op. cit. 41

[15] G. Leghissa, “Premessa”, in G. Leghissa (a cura di), La condizione postumana, aut aut 361, gennaio-marzo 2014, il Saggiatore, Milano 2014, p. 7

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento