Nel giorno dello sciopero climatico globale del 19 marzo 2021, il nodo trevigiano di Fridays For Future ha organizzato una lezione in piazza sul tema della giustizia ambientale. Sono seguiti gli interventi del Comitato No Maxi Polo di Casale, Quarto e Roncade che si oppone alla cementificazione di vaste aree di suolo verde per la costruzione di magazzini Amazon. L’iniziativa ha così sottolineato le connessioni tra il riscaldamento climatico globale e le vertenze locali per la difesa del territorio e contro la precarizzazione del lavoro. Alice Dal Gobbo e Lorenzo Feltrin, che hanno tenuto la lezione, propongono qui una restituzione dei loro interventi.
Riproduzione socio-ecologica, crisi, transizione
(Alice Dal Gobbo)
I temi della riproduzione sociale ed ecologica, della crisi e di una necessaria trasformazione verso la sostenibilità sono particolarmente urgenti nel contesto della crisi pandemica e di un capitalismo che, fortemente colpito, si muove verso una ristrutturazione radicale. Non che essi siano una novità di questa fase, tuttavia emergono come in un vero e proprio “concentrato” che esprime con forza le contraddizioni interne al capitalismo contemporaneo, offre opportunità per pensare la lotta contro la sua distruttività e futuri alternativi. Per fare ciò, è anche importante interrogare le forme e le strategie di questa ristrutturazione, le forme di “governamentalità” direbbe Foucault: sarà infatti fondamentale nel futuro prossimo saper valutare e anche respingere le versioni di “transizione verde” che verranno (stanno già venendo) proposte in seno al capitale e allo stato.
Seguendo le analisi marxiane e la teoria della riproduzione sociale, si identifica lo “spazio” della produzione come quello dove si produce direttamente valore, lo spazio del “lavoro”, della produzione di merci. Invece, la riproduzione è lo spazio dove la forza lavoro si rigenera a livello sia individuale che collettivo; il termine ha a che vedere inoltre con la riproduzione complessiva del sistema. Quindi per esempio il lavoro di cura, il lavoro domestico, ma anche il welfare, l’educazione, la salute, la socialità, ecc. rientrano nell’ambito della riproduzione. Ma è il caso di parlare di riproduzione socio-ecologica, invece che soltanto sociale, nel senso che si può far rientrare in questo spazio di riflessione anche tutta quell’ “attività” portata avanti dal e nel mondo non umano – la rigenerazione e la produzione di vita tout court.
C’è poi da dire che questi due concetti non esistono né indipendentemente l’uno dall’altro né a prescindere dal capitale come rapporto sociale. Produzione e riproduzione sono di fatto parte di una totalità, le loro forme si costituiscono mutualmente. Uno dei tratti caratteristici del capitalismo è la subordinazione strutturale della riproduzione alla produzione. La produzione di merci volta alla valorizzazione e al profitto ha la priorità in un sistema il cui fine ultimo è la crescita del valore. Tutto il resto viene svalutato, reso meno importante sia da un punto di vista materiale che simbolico, considerato “secondario”. Pensiamo per esempio al “valore” sociale che si attribuisce al lavoro salariato e alla scarsa considerazione del lavoro di cura, portato avanti principalmente da soggetti femminilizzati e razzializzati. Ciò vale anche per la “natura” e le sue capacità rigenerative: che sono date per scontate, viste come degli oggetti poco importanti, manipolabili, utilizzabili.
Più è svalutata la riproduzione, più la si può sfruttare e appropriare a piacimento. O almeno, così pare, perché ciò che ne risulta sono invece delle dinamiche così distruttive che si configurano come delle vere e proprie contraddizioni in seno al capitale stesso. Per esempio, con la crisi ecologica si comincia a delineare una contraddizione tra il capitalismo e le dinamiche di riproduzione del vivente – e ciò potrebbe minare le basi stesse dell’accumulazione.
Ora, nella crisi pandemica questo si vede benissimo e a molti livelli. Nelle cause: sappiamo che zoonosi e salti di specie sono direttamente collegati sia al degrado ecosistemico sia alle forme distruttive di relazione inter-specie (per esempio allevamenti intensivi e mercificazione della fauna selvatica). Nella diffusione: le lunghe catene del valore che supportano l’economia globalizzata sono stati dei vettori potentissimi, che hanno poi “incontrato” dei sistemi sanitari e di welfare pesantemente indeboliti da decenni di politiche neoliberali dove il profitto ha fatto da padrone rispetto ai bisogni concreti della popolazione mondiale. Nella gestione: in cui subito si è sacrificata la socialità, la relazione con l’ambiente urbano e rurale, le relazioni, l’educazione… e si è preservato come fosse quasi sacro quel lavoro produttivo che poi è il luogo principale del contagio. Tutte queste dinamiche mi sembrano accomunate dal filo rosso della svalutazione dell’ambito riproduttivo a favore di quello produttivo: tutto ciò che non “serve” direttamente a creare profitto può essere sacrificato (la natura non umana, i corpi e il loro godimento non consumistico delle relazioni, la salute, ecc.).
Tuttavia, è chiaro che tale svalutazione diventa di per sé fattore di crisi: è infatti innegabile che la Covid-19 sia stato un duro colpo all’economia globale che si è trovata, a causa di un “piccolo” virus, a ristrutturare le proprie dinamiche di valore, lavoro, consumo e anche soggettività. Crisi però non significa necessariamente crollo. Anzi, si fa spazio per il nuovo che emerge, ossia per nuove forme di accumulazione. È in questo quadro che è importante ragionare sul tema della transizione ecologica. Da ciò che si è appena detto si deduce abbastanza facilmente quanto importante sia ripensare le relazioni tra umano-non umano, produzione e riproduzione, “sviluppo” e co-abitazione. Il capitale si sta preparando a dare una propria versione di questa riformulazione e in ciò sarà anche molto importante affinare le armi della critica, perché ci si troverà a dover confutare discorsi e pratiche che verranno spacciati come parte di un progetto comune verso la “sostenibilità”.
Se guardiamo alle modalità in cui già in questi giorni si delineano i progetti di “ripartenza” è abbastanza evidente che la logica della “transizione verde” proposta non solo dal governo italiano ma più in generale europeo (e oltre) si colloca ancora dentro l’ambito di svalutazione della riproduzione delineato prima. Infatti, si privilegia una trasformazione dell’economia che sia capace di portare crescita economica, ma il benessere delle persone e dei territori passa sempre in secondo piano. Si fanno passare come “verdi” progetti e tecnologie che non lo sono (le grandi opere prima fra tutte la TAV, l’idrogeno, il gas naturale… perfino il nucleare!): vi vediamo all’opera dinamiche “coloniali” in cui si impongono sui territori e sulle persone che li abitano progetti che non porteranno loro alcuna prospettiva di vita buona (anzi al contrario) e non abbatteranno nemmeno le emissioni; si tratta per la gran parte di tecnologie di dominio sul non-umano, che hanno come unico obiettivo di fondo quello di supportare la continuazione dello sfruttamento “con un volto verde (e umano)”. Si investe nelle (false) promesse della digitalizzazione a favore delle grandi multinazionali dell’ICT ma non nella sanità e nella salute territoriali, si reprimono coloro che lottano per vivere in luoghi meno inquinati, più aperti e accessibili, più vicini ai bisogni e ai desideri concreti di chi li abita.
Nel frattempo, la crisi sanitaria ha portato ad una condizione di precarietà ancora superiore a quella che già prima si registrava. Ciò crea le condizioni perché questa transizione ingiusta e largamente falsa possa imporsi con maggiore facilità su popolazioni e territori sempre più ricattabili. Da un lato, l’aspettativa è che soggetti indeboliti dallo stato di cose presente siano maggiormente adattabili alle promesse di un’economia che si pretende in espansione. Dall’altro, promesse di una nuova crescita e prosperità potrebbero diventare giustificazione per l’imposizione di progetti diversamente indesiderati. Tuttavia, sta anche diventando evidente per tutte e tutti che questo sistema è sempre più incapace di includere, di essere all’altezza delle proprie promesse: la sua crescita equivale piuttosto ad una sempre maggiore diseguaglianza, precarietà e sacrificio per la gran parte dei soggetti sociali e non. Amazon mi pare essere un esempio lampante di tutto questo, ma se ne parlerà dopo…
Si apre allora lo spazio per delle rivendicazioni radicali che sappiano cogliere nel segno di queste contraddizioni e che sappiano anche articolarsi come diverse istanze di un’unica rivendicazione contro le forme di organizzazione socio-ecologica del capitalismo e delle sue forme di valore e accumulazione. La riproduzione è uno spazio centrale in questo senso perché rivendica la centralità della vita, della convivenza e della co-abitazione inter-specie come primaria rispetto al profitto. Però non si tratta di una questione slegata da quella della produzione e del lavoro. Lottare per spazi riproduttivi comuni, non mercificati e non precari significa non solo formare le basi per una cura del comune a livello sociale ed ecologico insieme: è anche una delle premesse per rivendicare forme di lavoro meno nocive, meno precarie, meno svalorizzabili. Forse allora il linguaggio di cui le mobilitazioni sociali per il clima e l’ambiente potrebbero appropriarsi non è tanto quello della “transizione” ma quello della trasformazione: per un futuro socio-ecologico giusto, equo, libero.
Ambientalismo di classe e sviluppo tecnologico (Lorenzo Feltrin)
Questo intervento affronta in estrema sintesi due nodi: il rapporto tra cosiddette lotte sociali e lotte ambientali e la relazione tra sviluppo tecnologico, lavoro e ambiente. Concluderò discutendo l’espansione di Amazon nei nostri territori come esempio concreto di entrambe le tematiche.
Nel senso comune, la giustizia sociale e quella ambientale sono due istanze separate e spesso in contrapposizione tra loro: la prima riguarda la distribuzione della ricchezza e i diritti sul posto di lavoro, mentre la seconda ha a che fare con la distribuzione dei costi del degrado ambientale e il diritto a vivere in territori salubri.
Uno sforzo di andare oltre questa contrapposizione è rappresentato dall’ “ambientalismo del lavoro” (labour environmental studies). Questa prospettiva parte dall’osservazione che, per quanto i lavoratori e le lavoratrici siano spesso rappresentati come arretrati sui temi ambientali, essi sono tra i gruppi sociali meno responsabili per il degrado ambientale e più colpiti dallo stesso. È così dimostrato come i lavoratori siano necessari all’ambientalismo e viceversa, giacché un ambientalismo elitario sarà sempre perdente oltre che politicamente dannoso. Tuttavia, questa prospettiva si basa su una concezione di classe piuttosto angusta, facente riferimento esclusivamente al mondo del lavoro salariato e alle mobilitazioni sul posto di lavoro, soprattutto attraverso i sindacati.
Più recentemente, la prospettiva dell’ambientalismo working class – influenzata dall’ecofemminismo – ha proposto un’espansione del concetto di classe lavoratrice, delle sue forme organizzative e dei suoi terreni di lotta. Tale espansione include anche il lavoro riproduttivo e quello non salariato, le lotte territoriali e le relative varietà di forme organizzative. Per questo preferisco usare l’anglicismo “working class”, giacché l’italiano “classe operaia” rimanda esclusivamente al lavoro di fabbrica. Per come lo intendo, l’ambientalismo working class si basa su una tripla espansione concettuale che riguarda: classe, lavoro e interessi di classe. Tale espansione è volta a formulare una politica che metta in discussione il dilemma ambiente-lavoro caratteristico della società capitalista.
La working class è definita non dallo sfruttamento ma dall’esproprio, dalla mancanza di proprietà e controllo di significative magnitudini di mezzi di produzione. Essendo impossibile determinare nettamente dove sia la soglia del “significativo”, il territorio conteso che ne risulta è la classe media, in cui la linea di classe passa attraverso singoli individui. Per vivere, gli espropriati devono procurarsi denaro per comprare i mezzi di sussistenza sul mercato, cosa che di solito si fa lavorando. La working class è dunque fatta di coloro che subiscono la compulsione a lavorare per vivere, anche se spesso non riescono a trovare stabili compratori della loro forza lavoro.
Il lavoro, nel capitalismo, è costituito da tutte le attività subordinate direttamente o indirettamente all’accumulazione di capitale. Ciò include dunque sia il lavoro produttivo che quello riproduttivo, alla stregua di quanto spiegato da Alice.
Gli interessi working class, infine, possono essere concepiti come riguardanti sia il punto di produzione (il posto di lavoro) che il punto di riproduzione (i territori). È tutt’altro che mia intenzione mettere in discussione l’importanza degli interessi basati sul posto di lavoro (livelli salariali, sicurezza, ecc.). Anzi, una redistribuzione della ricchezza tramite più salario per meno orario aiuterebbe a ridurre il ricatto lavoro-ambiente riducendo la stessa necessità di creare nuovi posti di lavoro con produzioni nocive. Tuttavia, è anche necessario tener presente che i lavoratori e le lavoratrici non svaniscono dopo aver varcato i cancelli delle fabbriche. In realtà, ritornano nei propri territori e ne respirano l’aria, che spesso è tanto più inquinata quanto più basso è il reddito medio del quartiere. In altre parole, anche le lotte territoriali hanno una dimensione di classe, resa evidente dal fatto che i territori economicamente svantaggiati tendono a essere quelli più colpiti dalla nocività.
La tripla espansione concettuale appena delineata permette di andare oltre una visione della classe sproporzionatamente maschile e bianca com’era quella della grande industria, oltre una concezione dell’interesse di classe incardinata sulla difesa del posto di lavoro, e oltre una lettura delle mobilitazioni territoriali svuotata dalla dimensione di classe. Questo quadro teorico è volto quindi a costruire alleanze tra gruppi diversamente collocati nel sistema genere-razza-classe.
Tuttavia, la separazione tra produzione e riproduzione è una caratteristica reale del capitalismo, che si traduce strutturalmente non solo in “vite separate”, il cui tempo è scandito dalla divisione tra le due sfere, ma anche in “lotte separate”, in cui le rivendicazioni territoriali e quelle sul posto di lavoro seguono percorsi e priorità divergenti. Questo genera le tipiche contraddizioni dovute al ricatto occupazionale. L’ambientalismo working class è quindi un progetto di negazione politica e materiale della separazione tra produzione e riproduzione, che mira a far convergere le lotte sul posto di lavoro e quelle territoriali attraverso piattaforme complessive, che si pongano l’obiettivo di superare il dualismo che separa giustizia “sociale” e giustizia “ambientale”.
Un altro aspetto particolarmente interessante del rapporto tra lavoro e ambiente è quello dello sviluppo tecnologico. Andrew Feenberg ha individuato tre categorie di approcci teorici alla tecnologia moderna: strumentali, essenzialisti (o sostanziali) e critici.
Secondo la prospettiva strumentale, la tecnologia è costituita da mezzi neutrali rispetto ai fini per i quali vengono utilizzati. In questo quadro, non ci sono tecnologie buone o cattive, buoni o cattivi sono i fini verso cui possono essere indirizzate. Questo è il senso comune liberale, prevalente nelle nostre società. Tuttavia, anche le interpretazioni tradizionali di Marx sono collocabili in questa categoria. Infatti, esse prevedono uno sviluppo tecnologico lineare delle “forze di produzione” – dettato da criteri universali di razionalizzazione ed efficienza – che presto o tardi diventerà incompatibile con le “relazioni di produzione” del capitalismo. A tal punto, tutto il potenziale delle tecnologie sviluppatesi nella società capitalista sarà direttamente liberato per la costruzione del socialismo. Le stesse tecnologie prima usate per fini capitalisti saranno usate, di più e meglio, per fini socialisti.
La prospettiva essenzialista è il contrario speculare e romantico di quella strumentale. Qui la tecnologia non è neutrale perché è essenziale ad essa una certa strutturazione della vita, la quale implica necessariamente le gerarchie sociali esistenti e il dominio dell’umanità sulla natura. I mezzi si trasformano in fini svuotando di senso l’esistenza, trasformandoci in ingranaggi di una macchina che gira a vuoto. Esempi di questa posizione sono Adorno e Horkheimer della Scuola di Francoforte, ma soprattutto pensatori conservatori come Max Weber o Martin Heidegger. Quest’ultimo aderì al nazismo e il suo pensiero è un’importante influenza anche dell’eco-fascismo contemporaneo.
Infine, secondo la prospettiva critica, non si dà una traiettoria di sviluppo tecnologico unica e inevitabile. Le tecnologie sviluppate nella nostra società riflettono i rapporti di potere in essa esistenti. Poiché l’economia della società capitalista è mossa dal profitto, le tecnologie che vengono sviluppate mirano in primo luogo a garantire la competitività di mercato delle aziende, anche a costo di rendere il lavoro alienante e l’ambiente compromesso. Le relazioni di produzione non riflettono in modo deterministico lo stadio di sviluppo delle forze di produzione: tra i due elementi c’è invece un rapporto dialettico di co-costituzione sospinto dalle lotte socio-ambientali. Di conseguenza, la lotta per cambiare i rapporti di potere nella società è anche una lotta per una tecnologia qualitativamente diversa. Esempi di questa prospettiva sono Herbert Marcusee molti altri autori del marxismo antiautoritario (in Italia il pioniere dell’operaismo Raniero Panzieri, negli Stati Uniti Harry Braverman, David Noble e la loro labour process theory), il pensiero ecologico di Murray Bookchin o André Gorz e autrici eco-femministe come Carolyn Merchant.
L’ambientalismo di classe è dunque caratterizzato anche da un approccio antagonista e trasformativo alla tecnologia capitalista, che punti verso la possibilità utopica di lottare per una tecnologia altra, compatibile con la riproduzione sostenibile della vita sul pianeta.
L’offensiva di Amazon nel Nord Est esemplifica le connessioni tra gli elementi appena discussi. Essa, infatti, minaccia sia la qualità di vita sui territori che i diritti sul lavoro. L’impatto ambientale dei magazzini già costruiti e di quelli progettati sta nella cementificazione di milioni di metri quadri di suolo verde e nell’aumento delle emissioni di gas serra indotto dalla consegna just in time di merci provenienti dai quattro angoli del mondo. L’attacco alle condizioni di lavoro si manifesta in un’automazione tutt’altro che neutrale, che comporta il ciclo continuo (con il conseguente obbligo di lavorare di notte e nei fine settimana), la sorveglianza capillare della forza lavoro e la maggiore ricattabilità dei lavoratori. A questo si aggiunga l’uso massiccio di contratti interinali in deroga al contratto nazionale di settore e la scandalosa elusione fiscale da parte della multinazionale di Seattle.
Questo non è solo un problema dei dipendenti Amazon, perché il meccanismo della concorrenza tenderà a generalizzare il modello Amazon a tutto il settore della logistica e a distruggere posti di lavoro sia nella logistica che nella distribuzione.
Per questo, nella provincia di Treviso, lo sciopero della logistica del 26 marzo si collegherà alla vertenza territoriale contro i possibili maxi poli Amazon a Casale sul Sile e Roncade. È questo un tassello dell’ampio mosaico di lotte che affronteranno la ristrutturazione capitalista in preparazione, che tenterà di far passare dietro l’illusione della transizione ecologica un approfondimento multi-dimensionale delle disuguaglianze, funzionale alla riproduzione di un sistema insostenibile.