Un articolo di Belén De Los Santos e Gabriel Vera Lopes, pubblicato l’11 febbraio 2024 su jacobinlat.com e tradotto in italiano da Emma Purgato.
La causa palestinese non rappresenta solamente una lotta per la difesa dei diritti umani più fondamentali, ma una delle lotte anti imperialiste più importanti della nostra epoca.
Il 29 dicembre 2023 il Sudafrica ha messo alle strette non solo Israele, ma tutto l’Occidente. Per la prima volta, un Paese del Sud Globale ha accusato Israele di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (CIG) di aver violato la Convenzione per “la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”. Le immagini sono a disposizione a chiunque le voglia cercare: intere città ridotte in macerie, corpi avvolti in sacchi bianchi ammucchiati fuori da un ospedale, madri in ginocchio su quegli stessi sacchi che si chiedono come il mondo possa permettere un simile orrore.
Attraverso la denuncia, il Sudafrica cerca di dimostrare, di fronte al massimo tribunale dell’ONU, che gli incessanti attacchi di Israele su Gaza rappresentano atti di genocidio secondo la definizione posta dalla stessa Convenzione, e come le sistematiche dichiarazioni pubbliche delle massime autorità rappresentanti lo Stato di Israele dimostrino il suo intento genocida, ovvero l’evidenza della volontà deliberata di distruggere il popolo palestinese.
In questo quadro, venerdì 26 gennaio la CIG è giunta ad una prima delibera: in base alle schiaccianti prove raccolte, ha ritenuto che le argomentazioni del Sudafrica dimostrino, se non altro, la necessità urgente di intervenire in aiuto alla popolazione di Gaza. Per questo motivo sono state approvate una serie di misure di emergenza con lo scopo di preservare i diritti umani dei palestinesi all’interno della Striscia, mentre si procede ad esaminare i meriti dell’accusa.
In altre parole, il Tribunale Mondiale respinge la difesa di Israele e ammette la plausibilità del genocidio, decidendo di continuare con gli accertamenti, in quanto considera verosimili e pertinenti i capi d’accusa presentati. Sebbene la sentenza possa arrivare a risolversi anche dopo anni, è evidente come raggiungere un risultato come quello ottenuto rappresenti in sé un fatto storico. Non era mai successo, in nessun tribunale internazionale, che un paese appartenente al cuore dell’Occidente venisse indagato per genocidio.
Israele al banco degli imputati
Da decenni lo Stato di Israele viene segnalato per le sue sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Al contempo, si conserva un ampio storico di risoluzioni ONU incompiute. Questa sarà tuttavia la prima volta in cui il Paese si troverà costretto a rispondere legalmente delle sue azioni.
La coraggiosa denuncia presentata dal Sudafrica tira in causa tutta la “comunità internazionale occidentale” e il “mondo basato sul diritto” che Israele dice di difendere. Appena è stata presentata la denuncia, lo Stato di Israele ha annunciato che avrebbe impugnato il caso considerandolo una “diffamazione di sangue” (in riferimento alle false accuse utilizzate per perseguitare la comunità ebraica). Immediatamente, Washington e Londra si sono affrettate a definire l’accusa come “infondata” e “un’assurdità”.
Tuttavia, la grande maggioranza dei giudici che compongono il massimo tribunale dell’ONU è lontana dal considerare “infondata” la denuncia. Ancora meno “un’assurdità”. Durante la lettura della sentenza, la presidente della Corte Joan E. Donoghue ha spiegato, con un discorso durato oltre 45 minuti, le ragioni che danno motivo di credere che il popolo palestinese possa star subendo un genocidio.
Donoghue ha segnalato come ciò che sta succedendo a Gaza rappresenti una “vera e propria tragedia umanitaria”, e ha denunciato la situazione “particolarmente disperata vissuta dai bambini e le bambine nella Striscia”, aggiungendo che “un’intera generazione di bambini sta venendo traumatizzata, e impiegherà anni a riprendersi; migliaia sono stati assassinati, mutilati, o resi orfani. Centinai di migliaia stanno venendo privati di qualsiasi educazione. Il loro futuro è in pericolo, ci saranno conseguenze a lungo termine e durature”.
Immagini dell’orrore
Le cifre non riescono a dare un’idea dell’orrore che si sta vivendo a Gaza. “Un inferno sulla terra”, ripetono i locali e gli osservatori internazionali. Ogni giorno che passa, centinaia di persone vengono assassinate, colpite da bombe che cadono anche nelle zone “sicure”, mentre cercano rifugio in una scuola o un ospedale, o mentre sono in una fila eterna per avere qualcosa da mangiare. Nel frattempo, milioni sono obbligati a fuggire sempre più lontano per sopravvivere. In poche occasioni l’umanità è stata testimone dal vivo e in diretta di simili barbarie. L’”unica democrazia del Medio Oriente” siede su fiumi di sangue innocente.
Ad oggi [11 febbraio 2024, ndr], lo Stato di Israele ha assassinato più di 27.400 persone in Palestina. Si stima che almeno 12.000 di queste fossero bambini e bambine. Ci sono inoltre più di 8.000 persone scomparse sotto le macerie, almeno 66.600 feriti e 1.93 milioni di sfollati. [Al momento della traduzione, 20 febbraio 2024, il bilancio è di almeno 28.663 morti e 68.395 feriti (Ansa), ndr]. L’Organizzazione Mondiale della Sanità calcola che 1 nucleo familiare su 4 sia in condizioni “catastrofiche”, a rischio di inedia, mentre più della metà delle abitazioni palestinesi è stata distrutta dagli attacchi. I bombardamenti sistematici contro ospedali palestinesi, sommati all’embargo imposto dallo Stato di Israele contro la Striscia di Gaza, hanno fatto sì che il sistema sanitario raggiungesse il completo collasso, arrivando ad operare al di sopra del triplo delle sue capacità.
Nonostante ciò, i principali mezzi di comunicazione occidentali si sono limitati, nel migliore dei casi, a mantenere un silenzio complice. E chi prova a riportare l’orrore vissuto nel proprio territorio, in molti casi paga con la vita: in 120 giorni di assedio sono stati assassinati più di 120 giornalisti. L’“unica democrazia del Medio Oriente” ha prodotto un “danno collaterale” di un giornalista morto al giorno.
Secondo l’Articolo 2 della Convenzione sul genocidio, viene considerato un atto di genocidio non solo l’uccisione di persone con l’obiettivo di distruzione totale o parziale dei membri di un gruppo nazionale, etnico o religioso, ma anche l’imposizione deliberata di condizioni di vita pensate per distruggere fisicamente il gruppo. Per questo, al di là dello spaventoso numero di morti, anche la distruzione delle condizioni che rendono possibile la vita a Gaza deve essere considerata in sé un atto genocida. Non si tratta di danni collaterali, né di eccessi: sono fasi di un piano sistematico.
I labirinti del diritto internazionale
Da un punto di vista legale, perché le azioni menzionate in precedenza possano essere considerate ai sensi delle disposizioni della Convenzione sul genocidio, è necessario provare l’esistenza di un “intento genocida”. A tale scopo, nell’estesa e minuziosa denuncia di 84 pagine presentata dal Sudafrica, ne sono state inserite 10 di dichiarazioni pubbliche realizzate da autorità israeliane che rendono conto dell’esplicita volontà di distruggere il popolo palestinese.
I discorsi d’odio, e il linguaggio disumanizzante utilizzato contro i palestinesi dalle autorità dello Stato di Israele sono parte della politica statale da decenni. In uno dei suoi ultimi lavori, l’organizzazione Law for Palestine, che si occupa di raccogliere informazioni sulla situazione in Palestina relative alla Legge Internazionale, ha compilato un archivio contenente più di 500 istanze di incitamento al genocidio da parte di autorità israeliane.
Facendo eco a questa segnalazione, anche la Corte ha riconosciuto l’utilizzo di un linguaggio disumanizzante nei confronti del popolo palestinese, includendo nella sentenza alcune dichiarazioni significative, come quella del Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, che ha assicurato di star combattendo contro delle “bestie”, o quelle del Ministro delle Infrastrutture e dell’Energia, che ha affermato che i palestinesi “non riceveranno una goccia d’acqua né una batteria fino a quando non saranno scomparsi dalla faccia della terra”.
A tale riguardo, la Corte Internazionale di Giustizia ha accettato sei delle nove misure provvisorie proposte dal Sudafrica. Questi provvedimenti sono vincolanti, e ne è stata ordinata l’applicazione immediata. L’obiettivo è evitare l’attuazione di un possibile genocidio mentre il tribunale indaga sui fatti. In questo contesto, la Corte ha richiesto allo Stato di Israele l’applicazione di tutte le misure possibili per prevenire non solo l’uccisione di palestinesi nella Striscia di Gaza, ma anche qualsiasi danno fisico e psicologico sulla popolazione, e l’imposizione di condizioni che mettano a rischio la vita degli abitanti, per fare alcuni esempi. Inoltre, secondo le disposizioni della Corte, Israele dovrebbe adottare provvedimenti urgenti ed efficaci per garantire l’erogazione di aiuti umanitari alla popolazione palestinese.
Dopo la pubblicazione della sentenza, buona parte della stampa occidentale ha fatto notare come la Corte non abbia ordinato esplicitamente un cessate il fuoco come richiesto dal Sudafrica. Tuttavia, la CIG ha obbligato lo Stato di Israele a rendere conto nel giro di un mese delle misure messe in campo per ottemperare agli ordini del tribunale. Israele dovrà quindi esporre le azioni intraprese per prevenire l’orrore che fino ad oggi ha imposto a Gaza.
Ciononostante, i giorni successivi al verdetto sono stati particolarmente sanguinosi. Lo Stato di Israele ha intensificato le sue operazioni ed attacchi non solo all’interno della Striscia di Gaza, ma anche nei territori occupati in Cisgiordania. In passato Israele non si è mai preoccupato di soddisfare le disposizioni della legge internazionale, e nulla suggerisce che questa volta si comporterà diversamente.
La sentenza della Corte non obbliga solamente Israele ad ottemperare a quanto prescritto, ma anche il complesso dei paesi firmatari della Convenzione sul genocidio a garantire il compimento degli obblighi disposti. A tale riguardo, la risoluzione del massimo tribunale fa riferimento all’Articolo III della Convenzione, in cui figura il crimine di complicità nel genocidio. Questo aspetto determina che, qualora venisse verificato che il popolo palestinese stia subendo un genocidio, qualsiasi paese o entità che collabori con lo Stato di Israele possa essere indicato come suo complice.
Le principali potenze occidentali hanno sempre sostenuto Israele. Dal 1948 all’inizio del 2023, lo Stato di Israele ha ricevuto oltre 158.000 milioni di dollari dagli Stati Uniti, tra i quali figurano 124.000 milioni in aiuti militari. Questo supporto non ha fatto altro che aumentare dopo il 7 ottobre, arrivando a un punto tale per cui il presidente Biden ha promesso di continuare ad inviare denaro “fino all’eliminazione di Hamas”. Oltre all’appoggio militare, Stati Uniti ed Inghilterra hanno sistematicamente posto il veto a qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che andasse a contrastare Israele.
Il Sudafrica è quindi riuscito ad ottenere una sentenza che punta direttamente contro il cuore dell’Occidente, esponendo l’eclatante ipocrisia delle principali potenze del Nord Globale che difendono e promuovono un massacro alla luce del sole, volendosi autoproclamare allo stesso tempo leader del “mondo libero”.
Quando lo sceriffo è amico del criminale
L’avvocato esperto di diritti umani Francis Boyle assicura che, mentre è probabile che Israele non porti a termine gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia, la sentenza “apre la porta a una serie di misure possibili nel campo del diritto internazionale”. Boyle è stato il primo ad ottenere una sentenza favorevole del Tribunale Mondiale per crimini inclusi nella Convenzione sul genocidio, nell’ambito del processo contro la Yugoslavia del 1993.
“Come per qualsiasi altro procedimento legale, ci si rivolge al giudice per ottenere una sentenza. Tuttavia, non è il magistrato ad eseguirla, ma lo ‘sceriffo’”, spiega Boyle. “Ai sensi della Carta dell’ONU, lo ‘sceriffo’ è rappresentato dal Consiglio di Sicurezza. Se gli USA e il Regno Unito pongono il veto a qualsiasi provvedimento di esecuzione contro Israele all’interno del Consiglio – cosa che accade sistematicamente -, il Sudafrica potrebbe portare la sentenza all’attenzione dell’Assemblea Generale dell’ONU per esigere la sua attuazione”.
Boyle segnala che, qualora si verificasse una situazione simile, le conseguenze potrebbero essere “abbastanza serie” per Israele, in quanto l’Assemblea Generale potrebbe sospendere la partecipazione dello Stato. “La stessa misura è stata adottata contro il regime criminale di apartheid in Sudafrica, e di nuovo contro la Yugoslavia”, illustra l’avvocato.
A sua volta, l’Assemblea Generale potrebbe invitare gli stati membri ad adottare sanzioni economiche di fronte alla mancanza di rispetto di Israele, e ammettere la Palestina come stato membro dell’ONU con pieni diritti, dato che attualmente detiene solamente il ruolo di stato osservatore. “I voti a favore dell’ammissione della Palestina ci sono”, assicura Boyle. “Mentre Israele e i sionisti in tutto il mondo desiderano distruggere la Palestina, ed infliggere sul popolo palestinese una seconda Nakba, la sua inclusione nell’ONU è fondamentale per proteggerla”.
Nei territori occupati
C’è la possibilità che la strategia argomentativa della difesa dello Stato di Israele subisca un nuovo ribaltamento nelle prossime settimane. Nel 2022, la Commissione internazionale indipendente di Inchiesta sui Territori Palestinesi Occupati, istituita dall’ONU, ha affermato in un report di fronte all’Assemblea Generale di avere “motivi ragionevoli” di considerare l’occupazione israeliana illegale secondo il diritto internazionale. Le ragioni sarebbero legate alla permanenza e alle politiche di annessione de facto dei territori occupati.
Sulla base di questo rapporto, l’Assemblea Generale ha sollecitato la CIG a pronunciarsi in modo non vincolante sulla questione. Il parere consultivo verrà reso pubblico lunedì 19 febbraio. Hassan Ben Imran, esperto di diritto internazionale e membro del consiglio direttivo dell’organizzazione Law for Palestine, assicura che qualora la Corte Mondiale considerasse – come ha fatto la Commissione in precedenza – l’occupazione israeliana illegale, ciò comporterebbe il collasso definitivo della principale argomentazione brandita tanto da Israele quanto dai suoi alleati e promotori: il diritto all’autodifesa.
“Questo significa che Israele non potrebbe appellarsi al diritto di autodifesa, in quanto starebbe occupando illegalmente i territori in questione. La mera presenza militare israeliana all’interno dei territori palestinesi rappresenterebbe il persistere di un’aggressione, un uso illegale della forza, non un atto di autodifesa. Dal punto di vista legale, Israele smetterebbe di essere l’aggredito, e diventerebbe l’aggressore”, spiega.
Strategie di distrazione
Appena è stato reso noto il verdetto del 26 gennaio, il Primo Ministro israeliano di estrema destra Benjamin Netanyahu si è affrettato a mettere in atto una strategia mediatica che ha come obiettivo spostare l’asse del dibattito internazionale. Si è immediatamente riferito alla sentenza come un “vile tentativo di negare a Israele il suo diritto fondamentale all’autodifesa”, definendo le misure imposte dalla Corte una “evidente discriminazione contro lo stato ebraico”.
Il riferimento alla discriminazione contro lo “stato ebraico” non è frutto di ingenuità. L’interezza della difesa dello Stato di Israele si basa sulla premessa che qualsiasi critica venga posta alle sue politiche equivalga ad un attacco antisemita contro il popolo ebraico. Tuttavia, la strategia di Netanyahu non si è fermata alla critica della sentenza della Corte. Due giorni prima che la CIG si pronunciasse, Tel Aviv aveva distribuito ai suoi alleati un presunto rapporto dell’intelligence in cui sosteneva di aver compilato delle prove che dimostrerebbero come 12 persone impiegate all’Agenzia Onu per i Rifugiati in Palestina (UNRWA) avrebbero partecipato agli attacchi contro Israele. Una denuncia che coinvolgerebbe solo lo 0.0009% dell’organizzazione, che conta 13.000 collaboratori palestinesi a Gaza.
Non si tratta di un attacco azzardato: punta il dito contro un’agenzia il cui ruolo è promuovere lo sviluppo umanitario dei rifugiati palestinesi. L’UNRWA è stata istituita nel 1949 su mandato dell’Assemblea Generale, in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Attualmente assiste più di 5,6 milioni di palestinesi distribuiti tra i territori occupati, inclusa Gerusalemme, e i campi profughi in Siria, Libano e Giordania. Non si tratta del primo attacco di Israele contro l’Agenzia: dall’inizio dell’offensiva, ha ucciso più di 150 impiegati ONU, e ha bombardato 145 sedi UNRWA, 50 delle quali sono state completamente distrutte.
Convenientemente, le accuse dello Stato di Israele contro l’UNRWA sono state rese note lo stesso giorno della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia. Questa strategia punta a deviare l’attenzione dalle questioni realmente importanti. Ignorando gli avvertimenti dell’insieme degli organismi internazionali rispetto alle conseguenze tragiche che si sarebbero potute innescare, diversi paesi – tra cui Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Giappone e Australia – hanno immediatamente annunciato la sospensione dei finanziamenti all’Agenzia.
Questa crudele decisione ha reso ancora più disperata la già tragica situazione palestinese. Qualora la campagna di definanziamento non fosse invertita, l’UNRWA si vedrebbe obbligata ad arrestare le sue attività alla fine del mese corrente [febbraio 2024, ndr]. Per i 2,3 milioni di abitanti di Gaza, questo significherebbe rimanere soli in una situazione sempre più critica rispetto a quella esposta nella sentenza della CIG. La questione riguarda inoltre la totalità della popolazione palestinese che vive in campi profughi fuori da Gaza, e costituisce quindi senza dubbio una nuova istanza di reato di punizione collettiva.
Lo scorso mercoledì 30 gennaio, il portavoce dell’OMS Christian Lindmeier ha dichiarato che “l’attività criminale non può rimanere impunita. Tuttavia, in questo momento la discussione rappresenta una distrazione rispetto a quanto sta succedendo ogni giorno, ogni ora, e ogni minuto a Gaza”. La denuncia contro l’UNRWA, quanto meno nell’immediato, ha come obiettivo aggirare la penalizzazione mediatica legata alla sentenza della Corte, subordinando ulteriormente la sopravvivenza degli abitanti di Gaza.
Tuttavia, l’obiettivo è più ampio: attaccando la credibilità dell’UNRWA, una delle principali fonti di informazioni delle Nazioni Uniti per quanto riguarda la situazione umanitaria a Gaza, lo Stato di Israele punta a colpire la base delle prove a cui fa riferimento la sentenza della Corte di Giustizia Internazionale. In sostanza, Israele e i suoi alleati sparano apertamente contro le evidenze presentate contro di loro.
La solidarietà del Sud
Se una cosa è certa, si tratta del fatto che nessuna sentenza di un tribunale internazionale da sola cambierà la situazione in Palestina, specialmente se si tiene conto dell’impotenza dimostrata dagli organismi internazionali nel momento in cui era necessario farsi rispettare, incluso rispetto alle richieste presentate dalle loro proprie agenzie sui territori.
Tuttavia, proprio in questo contesto contano le azioni dei popoli nel mondo, in particolare la solidarietà del Sud Globale. È stato appunto il Sudafrica, un paese del Sud Globale, ad aver puntato il dito contro i crimini di Israele e dei suoi alleati occidentali – reati che si verificavano sotto gli occhi di tutti -, mentre i paesi centrali in più occasioni non hanno fatto altro che appoggiare le atrocità di Israele.
Nonostante la criminalizzazione dei governi e il silenzio complice dei mezzi di comunicazione, l’immensa mobilitazione a favore della Palestina è riuscita a smuovere le coscienze di milioni di persone in tutto il mondo. La causa palestinese non rappresenta solo una lotta per la difesa dei diritti umani più fondamentali, ma una delle lotte anti imperialiste più importanti della nostra epoca.
In questo braccio di ferro, l’America Latina ha la possibilità di giocare un ruolo particolarmente importante. La pressione che questi paesi possono esercitare non solo su Israele, ma su tutto il sistema giuridico internazionale, è vitale perché l’Occidente si assuma le responsabilità sancite per e con il popolo palestinese. La stessa storia dell’America Latina e dei Caraibi è una storia di sofferenza e scontro con i sopprusi del Nord Globale. Le lotte contro i crimini dell’imperialismo costituiscono parte della storia dei popoli del mondo. In ogni bandiera palestinese che sventola, in ogni Kufiya, si annida il nome di tutti e ciascuno dei popoli oppressi.