Patrick Winn, Narcotopia, Adelphi Edizioni, Milano 2024, 503 pp., 30€
La Birmania, o Myanmar, è uno di quei territori periferici che appare per brevi momenti sugli schermi dei media occidentali, salvo poi sparire dentro coni d’ombra lunghi anni.
E nel momento in cui si scrivono queste righe, tra le colline e le valli del paese si combatte e si muore.
Quattro anni fa un movimento democratico di studenti delle città, represso ferocemente, si è saldato con le etnie delle province gelose della propria autonomia.
Sono quasi millequattrocento giorni che una giunta militare golpista cerca in modo folle e feroce di mettere capo a una guerra civile che essa stessa ha provocato e di cui non ha alcuna possibilità di vittoria.
Le innumerevoli milizie ribelli conquistano costantemente avamposti, controllano la gran parte del territorio del paese e sono ormai ben rodate nella pratica bellica.
Ai generali al governo resta il potere della tecnica, una manciata di chilometri quadrati e qualche pista di volo da dove sganciare bombe sulle città e poter fuggire quando sarà il momento.
Della guerriglia non si parla, delle etnie in lotta nemmeno, non si parla della Giunta né dei suoi crimini contro l’umanità. Il popolo birmano consuma il suo dramma nell’ombra.
Però ricordiamo tutti molto bene l’immagine della tiktoker che balla in live mentre alle sue spalle sfrecciano i suv neri delle forze armate che si apprestano a chiudere il decennio di regime elettorale, deponendo e arrestando il governo di Aung Saan Suu Kyi (forse l’unico volto del paese a cui si sia mai data un po’ d’attenzione da queste parti) per riprendere la lunga pratica di dittatura militare.
Bizzarrie dell’epoca dei social media.
Triste fama, battezzata dalla propaganda della “guerra alla droga” che da decenni miete vittime invisibili in giro per il globo.
La Birmania è infatti un tassello fondamentale del cosiddetto “Triangolo d’Oro”: un territorio che comprende ampi brandelli di Laos e Thailandia, negli anni principale produttore di eroina, poi metanfetamina e oggi truffe online. Praticamente un’infinita ed esecrabile miniera d’oro.
È la zona di confine con la Cina, il territorio montano delle tribù Wa, il laboratorio dove prese il via la grande invasione dell’Eroina. Tra contadini poverissimi e campi di papaveri da oppio su terre aride.
Il popolo Wa si presta facilmente alla creazione del cattivo della storia: genti incolte e bellicose, abitanti luoghi inospitali, con alle spalle la discutibile abitudine di tagliare la testa ai vicini.
Eppure se per anni sono stati i produttori del novanta per cento dell’eroina prodotta nel mondo, questo è stato merito della CIA, i portavoce del mondo libero che per difendere la libertà non esitano a rovesciare napalm sulla gente e stringere le mani di boia e macellai.
Negli anni ’50 i tentativi di seminare disordine, destabilizzare e infiltrarsi nella giovane Repubblica Socialista Cinese avevano come esecutori bande di espatriati reazionari, armati e finanziati dai servizi statunitensi e se la contropartita era di aiutarli per anni a produrre e trasportare eroina, anche usando gli aerei americani, anche vendendola ai soldati americani che combattevano in Vietnam, guadagnandosi la prima grande generazione di tossicodipendenti, poco male.
Il verticalizzarsi di un’economia locale sulla produzione di oppio finì per intrecciare tentativi d’emancipazione, lotte di potere e dipendenze strutturali.
Il territorio Wa, nella ricerca della sua autodeterminazione non è mai riuscito, nonostante i numerosi tentativi, a sganciarsi dal suo ruolo di centro della droga, finendo per superare il giro di boa del terzo millennio vestendo i panni di un ambiguo narcostato in perenne crisi interiore: né comunità politica né cartello.
Questa la genesi e lo sviluppo sommario che la propaganda della “guerra alla droga” ha cercato di censurare per dipingersi come forza del bene eretta a difesa del mondo.
Patrick Winn, giornalista d’inchiesta specializzato nel Sud Est asiatico, che negli anni ha sondato i recessi bui dell’area, ha ricostruito questa storia ridandole giustizia, strappandola al cono d’ombra e allo stigma.
Reportage, racconto storico, indagine giornalistica sono strumenti messi a lavoro nel costruire una narrazione a tutto tondo, avvincente quanto puntuale, dove il moralismo e l’orientalismo lasciano il passo alle parole dei protagonisti, unici a vivere davvero il peso delle vicende e ovviamente soli a essere esclusi da qualsiasi altra presa di parola.
Winn, come il sig. Marlow di Lorenz (o il capitano Willard di Coppola), risale attraverso sentieri tracciati dagli anfibi delle truppe imperiali del “mondo libero” ne saggia le tracce lasciate e osserva, attraverso la boscaglia, le figure dei nativi, che via via perdono il loro stato di spettri, creature proprie della botanica più che della cultura, per divenire umani a pieno titolo.
In questo disvelamento cadono le maschere della morale ed emerge la lotta per la sopravvivenza delle comunità, l’intreccio di interessi cinici che procede incurante sulle teste degli uomini e delle donne che ne subiscono le conseguenze.
C’è una galleria di eroi tragici, di antagonisti irriducibili, di idealismi ottusi e slanci generosi; ingredienti degni di ogni epopea ma privi d’astrattezza, anzi, fatti completamente di carne e sangue, ultraterreni nel loro movimento storico.
Anche in questa Narcotopia, il colonnello Kurtz alla fine del viaggio, lungi dall’essere un mostro, è il doppio, il riflesso straziato di un universo piegato su sé stesso, appeso tra i feticci di una cultura morente e le scorie di un futuro alieno che ingloba i mondi al suo margine, li include, ma solo in posizione subordinata e perennemente condannabile.
La penna di Winn rimettendo loro la voce, salva gli ultimi delle vette birmane e assume così il dovere etico e politico dei narratori.
Questo Kurtz collettivo, che ora parla e sgrana le sue verità, è il popolo Wa, osceno perché accusatorio nella sua stessa forma di vita, che non fa che rovesciare l’anatema mostrando come, in ogni cuore di tenebra, il male non viene dal basso dove si procede a tentoni, ma dall’alto di chi illumina e stabilisce la forma delle cose.