Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia

di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da un punto di vista politico ritenevano necessario un rovesciamento istituzionale mediante l’esercizio della forza, piuttosto che tramite il gradualismo riformista.

«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) circoscrive il perimetro di studio alle componenti specificamente “politiche”, non affrontando i movimenti e le strutture fluide (per esempio l’autonomia operaia), le formazioni militari della partigianeria dissidente (Bandiera rossa, Stella rossa) e le organizzazioni armate degli anni settanta (Brigate rosse, Prima linea ecc.). Il saggio contesta il paradigma della “sessantottogenesi”, quello che vedrebbe nascere la sinistra rivoluzionaria nel corso del biennio 1968-69. Francescangeli sostiene infatti che non vanno trascurati i presupposti, che hanno una storia antecedente di venticinque anni e che pur in forma molto minoritaria avevano strutturazione organizzativa. Il sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, ma non può esser concepito come il suo anno zero. Si spiega così l’attenta periodizzazione che suddivide gli anni che vanno dal 1943 al 1978 nella «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). La prima fase a sua volta è suddivisa negli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (1943-1948), del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955), della destalinizzazione (1956-1960), dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964). La seconda fase è suddivisa negli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968), della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974), del declino e della “violenza diffusa” (1975-1977), del terremoto politico-organizzativo, cioè del ritorno alla marginalità da parte della sinistra rivoluzionaria (1978).
Un altro grande pregio del libro, oltre alla sua scorrevolezza (per nulla scontata, visto la natura articolata del tema), è l’utilizzo di una mole impressionante di fonti: bibliografiche, emerografiche, documentarie e soprattutto “fiduciarie”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di informatori infiltrati che ci restituiscono il profilo del soggetto analizzato da una prospettiva feconda e spiazzante: la rete dell’intelligence di stato si rivela sorprendentemente vasta, interna e spesso costituita da amici e conoscenti.

E veniamo ai protagonisti della narrazione. Si parte dagli anarchici, divisi negli anni ’40 tra individualisti e organizzatori, cioè disposti a intervenire sia nel Comitato di liberazione nazionale che nella Cgil. Secondo un rapporto del Pci raggiungono le 30 mila unità concentrandosi nelle città di Milano e Carrara. Negli anni ’50 alcuni settori si avvicinarono alla dissidenza comunista e attraverso varie metamorfosi contribuirono a fondare sia la filocinese Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi) che Lotta comunista, un’organizzazione che fondeva «oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale».

I militanti «internazionalisti» si riorganizzarono a partire dal 1942-43 cercando di mettere in pratica l’insegnamento di Amedeo Bordiga: «considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.» Il Partito comunista internazionalista si divise presto in due organizzazioni omonime: una “attivista”, sostenitrice dell’intervento nelle lotte operaie, e l’altra “attesista” che «giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.»

Dal canto loro i trockisti presenti nel Psiup giudicarono la sua linea politica subalterna al Pci stalinista e nel 1947 condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza scissionista del Partito socialista dei lavoratori italiani (chiamati scherzosamente “piselli” dalla sigla Psli e in seguito denominatisi Partito socialdemocratico italiano). Quando divenne palese l’orientamento moderato e filo-atlantista di questa formazione i trockisti se ne separarono e inaugurarono una tattica di “entrismo”, principalmente nel Pci, parallelamente alla costituzione di un’organizzazione esterna: i Gruppi comunisti rivoluzionari (IV internazionale). L’arrivo del sessantotto disgregò velocemente tutta l’area: alcune componenti (per es. l’associazione Falcemartello di Aldo Brandirali) finirono per fondare l’organizzazione stalino-maoista Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota con il nome del suo diffusissimo giornale “Servire il Popolo”; altre contribuirono alla nascita di Avanguardia operaia, un gruppo milanocentrico che fuse istanze maoiste, guevariste e operaiste in chiave antistalinista, arrivando a organizzare tra i 7 mila e i 12 mila militanti.

Alla base della diffusione del maoismo ci fu la rottura, consumatasi tra il 1960 e il 1964, tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica. Il contendere riguardava la “coesistenza pacifica” con il capitalismo e aveva come suo versante ideologico la difesa della figura di Stalin. Se all’inizio la simpatia verso la Cina attecchì principalmente nelle fila staliniste più ortodosse, con l’inizio della Rivoluzione culturale anche molti settori antiautoritari iniziarono ad apprezzare il maoismo. Le organizzazioni di stretta osservanza “emmelle” (marxiste-leniniste) ebbero un breve, ma intensissimo periodo di crescita, arrivando a contare molte migliaia di militanti e oltre un centinaio di sezioni. Ciò nonostante si caratterizzarono per una frammentazione dai tratti surreali: si arrivarono a censire fino a tre Partiti comunisti d’Italia (marxisti-leninisti)!

Il gruppo più influente e numeroso della sinistra rivoluzionaria italiana fu Lotta continua. Esso sorse alla fine degli anni sessanta dalla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e massa. Nonostante la comune provenienza operaista, i “partitisti” di Potere operaio sostenevano il rifiuto del lavoro, declinato in termini di radicale conflittualità salariale, e la costruzione di un partito leninista che avrebbe dovuto guidare il proletariato all’insurrezione; di contro Lotta continua esaltava la spontaneità, l’autorganizzazione, la democrazia assembleare con l’obiettivo di sviluppare il contropotere operaio. Il successo di questa formazione (150 sedi, una forza militante di 10-15 mila unità che secondo i servizi segreti poteva arrivare a 50-60 mila considerando l’area simpatizzante) è attribuito da Francescangeli alla capacità di «adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica… il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura».

Di matrice diversa, proveniente dal togliattismo di sinistra, è invece il gruppo del Manifesto, strutturatosi nel 1970 dopo la radiazione dal Pci e attestatosi su una sintesi «elitarioleaderistica» tra tradizione comunista, maoismo antistalinista e filosofia di Francoforte. Fusosi con il Partito di unità proletaria nel 1974, parteciperà con cartello elettorale di Democrazia proletaria alle elezioni amministrative del 1975. Infine, va annoverato il caso unico della trasformazione in organizzazione politica della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. L’esito di questa anomalia unitaria fu la nascita di un gruppo denominato genericamente Movimento studentesco (e poi Movimento lavoratori per il socialismo), sostenitore di una riedizione tardiva della strategia stalinista dei fronti popolari. Questa organizzazione «assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come “pericolo principale” e […], conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella “borghese-progressista” un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti “estremiste” della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere».

Alla fine di questa analisi approfondita, bilanciata, mai pedante, anzi godibile sia per lo storico di professione che per il lettore interessato, Eros Francescangeli mette il dito in una piaga etico-politica per niente estranea al discorso scientifico: «il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il “ritorno al privato” o la “politica con altri mezzi” non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie ‘altre’), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina.»
Sono considerazioni che lo storico svolge riferendosi al personale dirigente di Lotta continua, quando fu chiaro che l’agognata rivoluzione non era più all’ordine del giorno. Tuttavia, la fecondità del ragionamento non va limitato a un singolo gruppo politico, ma generalizzato sociologicamente: anche le organizzazioni rivoluzionarie sono sottoposte agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei propri funzionari, alla riproduzione delle proprie strutture e dei propri redditi. Il materialismo storico, insomma, va applicato anche ai materialisti storici.

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