Una pallottola per Roy: Gesù guerrigliero dell’indipendenza (1975) 1

di Carlo Modesti Pauer

(Prima parte)

Introduzione

 Per domandarsi chi è Gesù, mettendo da parte l’insegnamento tramandato dai suoi sedicenti custodi e vicari, occorre una mente educata alla scepsi radicale. Affinché essa sia fertile, su un tema così particolare e imprudente, è necessaria una crisi profonda della teologia cristiana e in particolare cattolica.

Il contesto storico nel quale si delinea una prima lettura di Gesù sottratta al paradigma dogmatico, è quello dell’Umanesimo dove proprio l’idea di una centralità dell’Uomo schiude la possibilità di osservare il Principio del cristianesimo nel suo lato “carnale”. Come accade nelle riflessioni più intime di Marsilio Ficino, quando paragona Cristo a Socrate in una lettera ad Antonio Serafico del 1457. Per il filosofo toscano, Gesù è un “maestro di sapienza” al quale egli non attribuisce alcun carattere divino.

Il passaggio successivo che apre le porte della Modernità, entro le quali si affaccia lo sguardo sul Gesù semplicemente umano, è un insieme di eventi che minano l’Autorità teologica e la validità della Bibbia, ovvero il problema del Nuovo Mondo (con i suoi “misteriosi” abitanti) e la proposta di radicale riforma presentata da Lutero nelle 95 tesi. In questo fertile terreno per la libertà di pensiero che costringe Roma a reazioni rabbiose di varia natura, culminanti nell’orrendo rogo del domenicano Giordano Bruno e seguite dallo scandalo provocato da un gigantesco massacro fratricida quale fu la Guerra dei Trent’anni, il pensiero critico si fa sempre più largo tra le macerie dell’ortodossia. È ancora in uno scambio epistolare che troviamo riflessa l’esclusiva umanità di Gesù, leggendo quanto scrive nel 1676 l’ebreo Spinoza all’amico Henry Oldenburg sull’idea di Dio fattosi uomo: “non mi sembra meno assurdo che se qualcuno mi dicesse che il cerchio ha assunto la natura del quadrato”. La decisa negazione spinoziana[1], al di là delle ovvie implicazioni teologiche, più in generale evidenzia l’autonomia di pensiero che si va affermando nel dibattito filosofico, il quale ormai liberato dall’argine teocratico esonda in nuove diramazioni epistemologiche caratterizzanti la Rivoluzione scientifica nel XVII secolo. La mordacchia imposta a Bruno non ha funzionato.

La ricaduta culturale di questi eventi trova la sua strada nei metodi d’indagine delle accademie scientifiche che dilagheranno nel Seicento, in rottura con il sapere dogmatico tomistico proprio delle istituzioni universitarie del tempo e sintonia con quel che accade tra il 1610 – quando Galilei vede le prime quattro Lune di Giove (Medicea Sidera) – e il 1789 – dove la Rivoluzione scientifica nei nostri manuali scolastici cede il passo a quella politica (Rivoluzione francese) capace di rovesciare la piramide antropologica dell’umanità – è sorprendente. L’evidenza di essere parte di un passaggio della storia senza precedenti, è tale negli intellettuali che il riferimento alla luce dopo l’oscurità diventa un luogo comune. Illuminare il buio significava rompere con la concezione cristiana della Storia, provvidenziale ed escatologica, sviluppando un orientamento naturalistico che la svincola dall’angusto recinto teologico, collocandola sotto lo sguardo cronologico, dove la misura del tempo è il ciclo delle vite e dei fatti umani all’interno di uno scenario scandito dalla nascita, la crescita e la decadenza di popoli, stati e civiltà.

Appare fatale l’esplosione in Francia della Querelle des Anciens et des Modernes, la disputa culturale nella quale si fronteggiano tra estetica e politica gli “antichi”, sostenitori della insuperabile tradizione greco-romana, e i “moderni” che ne dichiaravano la storicità, rivendicando la necessità di un adeguamento della letteratura e dell’arte ai nuovi valori del presente. Un dibattito stimolante in cui lo storico e filosofo Pierre Bayle, si inserisce nel 1684 fondando la rivista letteraria Nouvelles de la République des Lettres per dare voce agli studi scientifici e alle analisi critiche secondo lo spirito “illuminista”. Nel numero di aprile, egli stesso si pronuncia a favore di un metodo rigoroso nella ricerca storica: “Ci si vanta di essere estremamente illuminati in questo secolo: eppure, forse non si è mai avuto più audacia di inventare favole”. Il Bayle filosofo, denuncia con queste parole la mancanza di uno statuto epistemologico nella disciplina perché permangono giustificazioni dogmatiche, asserzioni pretestuose, a sostegno di una narrazione storica volta all’autoconservazione della cultura francese sotto la cappa clericale dell’Ancien Régime. Non è un caso se la rivista sia pubblicata mensilmente ad Amsterdam per aggirare la censura. Contemporaneamente, il Bayle storico dà prova del suo programma metodologico lavorando al ponderoso Dictionnaire Historique et Critique (sarà pubblicato nel 1697) e poi, addolorato per la morte del fratello mentre era detenuto dopo la revoca dell’Editto di Nantes, elaborando nel 1686 i Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ. Nel testo, il metodo storico praticato da Bayle non si sofferma sulla figura di Gesù ma indaga il significato delle sue parole (in particolare Lc 14, 23[2]) mostrandone la manipolazione successiva; nella breve premessa – infatti – introduce il lettore alla “confutazione delle ragioni particolari di cui s’è servito Sant’Agostino per giustificare le persecuzioni [dei pagani]” e dunque la guerra santa (bellum iustum[3]). Lo studioso non opera entro il campo della disputa sull’ermeneutica, la sua piena modernità è nella volontà di dimostrare con il metodo storico l’uso politico della teologia, ovvero evidenziare l’invenzione cristiana dell’ermeneutica stessa per mano del vescovo d’Ippona. Questo, infatti, aveva imposto l’ovile teorico nel quale l’ermeneutica era un’arte del comprendere, privandola alla radice della possibilità d’un valore oggettivo liberato dalle intenzioni soggettive racchiuse nell’Essere cartesiano.

La questione razionale in ambito teologico (ovvero l’annosa questione fides et ratio) procede spedita, diventa il centro dell’impianto filosofico di G.W. Leibniz e benché polo costituente della teodicea (cui s’opporrà la celeberrima confutazione kantiana), ciò non sarà mai d’ostacolo al pensiero del poliedrico studioso tedesco, il quale in veste di storico – sulla scia di Bayle – rigetta l’ermeneutica agostiniana per la conoscenza della Bibbia. Il Libro, da sempre fonte della storia antica dell’umanità, secondo Leibniz deve essere letto con metodo critico, ossia le informazioni contenute dovranno essere verificate sugli esiti dell’antiquaria, attingendo alle relative e all’epoca assai fortunate pubblicazioni: lessici o repertori di materiali sistematicamente ordinati per tipologia o per argomenti (per es. L’antiquité expliquée en figures di Bernard de Montfaucon, diviso in sezioni: mitologia, culti, antichità private, militari, funerarie). La storiografia diventa così “adulta”, emancipandosi verso una ricerca che adotta anche per la vicenda umana il metodo scientifico. Il primo snodo disciplinare, vede proprio l’antiquaria prendere la via dell’archeologia moderna sull’onda d’interesse per gli scavi di Ercolano e Pompei (della prima metà del XVIII sec.), divenuta uno tsunami culturale dopo il ritrovamento (19 ottobre 1752) della ponderosa e straordinaria “biblioteca” contenuta nella Villa dei papiri (in realtà di Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare). Contemporaneamente, il concetto stesso di Tempo subiva una radicale rivoluzione dal momento che l’età della Terra abbandona la dipendenza dai surreali calcoli biblici[4], per accogliere le tesi della nascente geologia. Sei anni dopo la scoperta della Villa, il fisico scozzese James Hutton è il primo scienziato a mettere da parte le Sacre Scritture e a ipotizzare su basi “materialiste” che il nostro Pianeta è molto più antico e il “tempo geologico” ha un’estensione tale da superare di molto quanto l’uomo aveva fin lì immaginato. Ancora timidamente, nel 1778 George-Louis Lecrerc, Conte di Buffon, proporrà 74832 anni (occorrerà più di un secolo per pensare in termini di miliardi), tuttavia anche se prolungato di “soli” 70mila anni il Tempo è ormai sottratto al dominio arbitrario del Libro.

In questa nuova cornice culturale, e come Leibniz lungi dal sospetto d’ateismo, il pastore luterano Hermann S. Reimarus lavora fino alla morte – che lo coglie nel 1768 – a un saggio sul Cristo delle scritture dal titolo Apologie oder Schutzschrift für die vernünftigen Verehrer Gottes (Apologia di coloro che adorano Dio secondo ragione) nel quale affiora per la prima volta in maniera nitida il concetto di Gesù storico. L’opera non è pubblicata dall’Autore in vita (a causa dell’ancora vigente censura), sarà conosciuta in versione completa solo nel 1814 ma alcuni frammenti sono anni prima resi noti da Gotthold E. Lessing col titolo Wolfenbüttler Fragmente eines Unbekannten (Frammenti di Wolfenbüttler di un ignoto, 1774-78). È probabile che gli eredi di Reimarus, abbiano messo a disposizione di Lessing alcune parti di una prima versione a condizione che fosse preservato l’anonimato dell’autore. Il filosofo sassone, in virtù dei dirompenti argomenti contenuti nei Fragmente, si trova così proiettato in un’accesa disputa dove il suo principale avversario è il teologo e pastore di Amburgo Johann Melchior Goeze. Il loro aspro scontro dialettico, si comprende bene ricordando che in contemporanea alla pubblicazione degli articoli di Lessing sulla sua rivista di Storia e letteratura, era esplosa una delle più importanti controversie politico-religiose del Settecento: la polemica sulla traduzione razionalista del Nuovo Testamento del teologo eterodosso Karl Friedrich Bahrdt, pubblicata con il titolo Neueste Offenbarungen Gottes in Briefen und Erzählungen (Recenti rivelazioni di Dio in lettere e narrazioni, 1773/74) e costata l’espulsione dall’università, oltre alla irrisione in uno scritto satirico del giovane Goethe.

Le posizioni critiche di Reimarus divulgate da Lessing, contenevano affermazioni argomentate dall’analisi razionalista delle Scritture e in particolare mostravano che alla prova di una lettura ragionata del Nuovo Testamento, questo ne usciva gravido di contraddizioni. Reimarus nega l’esistenza dei miracoli, contesta l’integrità morale dei personaggi biblici, accusa gli apostoli di aver falsificato la storia e l’insegnamento del Maestro, dimostra infine l’incoerenza dei racconti sulla risurrezione che è perciò rifiutata insieme alla filiazione divina di Gesù. Alla fine del XVIII secolo è ormai possibile – e irrinunciabile – la discussione sulla Bibbia con la lente del metodo storico-critico, avviando così la ricerca sulla vita di Gesù come uomo del suo tempo, in opposizione al Cristo della fede custodito e difeso dalle gerarchie ecclesiastiche.

Quello che segue è un vero e proprio boom editoriale, la nascita di un genere per cui alla fine del XIX secolo si contano decine di Vite di Gesù, scritte dai punti di vista più diversi e non di rado connotate da intenti sensazionalistici. In una bipartizione grossolana si possono dividere le produzioni in: solidali e avversarie del cristianesimo; una scissione dove in filigrana appare anche la contrapposizione tra ortodossia di Roma e teologie della Riforma.

Dopo essersi cimentato egli stesso con il genere, dando alle stampe Das Messianitäts und Leidensgeheimnis. Eine Skizze des Lebens Jesu (La vita di Gesù. Il segreto della messianità e della Passione, 1901), nel 1906 Albert Schweitzer pubblica Von Reimarus zu Wrede, che rivede nel 1913 con il titolo Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (Storia della ricerca sulla vita di Gesù). È la prima approfondita analisi critica in cui si ripercorrono oltre cento anni di pubblicazioni sul Gesù storico, pubblicazioni che continueranno nel XX secolo e a cui si aggiungeranno periodicamente nuovi studi storiografici, mentre più in generale evolvono il metodo e la disciplina della Storia (e consorelle) che anche su Gesù consentiranno nuove visioni.

In questo quadro, nel 1975 esce a Montreal Jésus guerrier de l’indépendance di Raoul Roy, pubblicato in Italia da Mursia con il titolo Gesù guerrigliero dell’indipendenza. Un’interpretazione in chiave rivoluzionaria della figura di Gesù Cristo (1979).

[1] M. Heidegger riprenderà il concetto affermando: «Una “filosofia cristiana” è ancora più assurda di un cerchio quadrato. Quadrato e cerchio concordano almeno nell’essere figure geometriche, mentre fede cristiana e filosofia rimangono abissalmente diverse» (M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1994, p. 644).

[2] «E il signore disse al servo: ‘Va’ fuori per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, affinché la mia casa sia piena’» [corsivo ns.]. La pericope è un pilastro dell’evangelizzazione. La locuzione latina «compelle intrare» di Luca, diventa (con Agostino e Tommaso) la giustificazione per l’uso della violenza contro gli “eretici” e financo il supporto teologico alle conversioni forzate degli Indios praticate dai missionari nel Nuovo Mondo. Il concetto lucano, di plateale influenza paolina, è radicalmente in contrasto con il (vero) monito gesuano: «Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi» (Mt 10,14), che mostra il rifiuto evidente di qualsivoglia forma di coercizione. Poco sopra (Mt 10,5) appare evidente il Gesù ebreo affatto interessato alla prospettiva universale di Paolo, si legge infatti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele». Bayle, il cui fratello è vittima dell’intolleranza, affronta il brano di Luca per sgretolarne il brutale significato.

[3] Si veda su questo alla nota 17.

[4] Nel 1650 James Ussher, prelato irlandese studioso della Bibbia e della storia del Cristianesimo, aveva diffuso i risultati ottenuti dalle sue “ricerche” integrando considerazioni storiche, conoscenze sui cicli astronomici e diverse fonti di cronologia biblica. Datò così la Creazione nel pomeriggio del 22 Ottobre 4004 a.C. e il Diluvio Universale trovava la sua collocazione nell’anno 2349 a.C. La Terra aveva dunque 5654 anni.

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