Ghebreyesus Hailu; L’ascaro. Una storia anticoloniale; Tamu Edizioni; Napoli; 2023; 140 pp. 15€
1912. Trattato di Losanna. L’Impero Ottomano, nel suo inarrestabile declino cede la Cirenaica e la Tripolitania all’Italia, monarchia stracciona alla ricerca di gloria e posti al sole.
Una guerra rapida e brutale, durata poco più di un anno, per un territorio che di fatto non fu mai pacificato né governato. Tanto da richiedere un’attiva e feroce presenza militare continuata.
La “campagna di pacificazione” della Libia fu, nei fatti, la costante principale dell’attività italiana nella regione: una stagione pluridecennale di massacri e devastazioni che colpì soprattutto le popolazioni civili nel tentativo di sottrarre legittimità alle forze ribelli locali.
Quella della Libia, non dissimilmente dal resto dell’avventura coloniale italiana, è una delle tante storie rimosse e mistificate di questo paese, maestro nell’invidiabile e reprensibile arte di nascondere sotto il tappeto non solo mucchi di polvere ma cumuli di cadaveri.
Le colonie restano nei manuali scolastici come una naturale appendice della Penisola, come non fossero state conquistate a colpi di cannone e baionetta ma in una bonaria scampagnata esotica.
Tutti hanno detto (continuano a dire) “ma noi gli abbiamo fatto le strade”, ben pochi hanno chiosato “per farci passare gli autoblindo e addobbarle di insorti impiccati”.
Un secolo di sanguinosa cialtroneria: Mussolini e la spada dell’Islam, Montanelli con la sua negretta, Gheddafi e le escort a Villa Panphili, la generale e sconsolata scrollata di spalle davanti alla tragica dissoluzione dello stato libico dopo l’ennesimo generoso piano occidentale.
Tutto attorno, una cappa di propaganda prima, di silenzio dopo.
Una rimozione perpetua che permette di non fare mai i conti col passato, che traghetta le peggiori pratiche e figure da una fase all’altra della storia. Ancora di più, una rimozione che intossica la l’autonarrazione nazionale e legittima questo bieco e osceno presente.
La leggerezza con cui (non) guardiamo alla storia coloniale è la leggerezza con cui ci permettiamo di blaterare di deportazioni in paesi terzi e di cauzioni per chi non ha documenti; è la sciatteria morale con cui perpetuiamo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dell’obbligo di un paese formalmente laico. È l’indifferenza con cui accettiamo qualsiasi dispositivo repressivo venga applicato sulle frange deboli della popolazione e la vena d’indolenza con cui poi accogliamo quello stesso dispositivo replicato sulla nostra pelle.
Passato coloniale e dominio del presente non sono un binomio valido solo per la Francia o gli Stati Uniti, sono un vincolo ancora più stretto quando non è messo a problema ed è accettato nel suo angolo mistificatorio.
È solo in tempi relativamente recenti che si è costruito un filone d’indagine che ha mosso penne e cervelli nello scavo per una rilettura del passato coloniale italiano. La ricerca storica e antropologica degli ultimi due decenni ha posto il problema su questa narrazione sbilenca e mistificatoria, mentre il fiorire di una letteratura postcoloniale e dei figli della diaspora ha fatto emergere una presenza negata: quella linea del colore afroitaliana di cui si finge l’inesistenza per continuare a raccontarsi la favola della bianchezza italica (tra l’altro alquanto dubbia vista da fuori).
È a questo genere di letteratura, anche se in una posizione abbastanza particolare, che appartiene il volumetto recentemente editato da Tamu Edizioni, frutto anch’esso di un’opera di scavo.
A scrivere però non è un “afrodiscendente” in lotta con la propria storia, ma direttamente un figlio della colonia alle prese con la propria realtà.
L’autore, Ghebreyesus Hailu, è un eritreo che si forma nei primi decenni del ventesimo secolo; ed è un uomo di chiesa, ovvero un letterato, uno dei pochissimi colonizzati a cui è concesso un certo grado d’istruzione e la possibilità di muoversi tra la realtà indigena e quella della metropoli. Il suo occhio è un punto d’osservazione privilegiato e particolare che getta luce nuova sulla realtà del tempo, ma anche sui meccanismi generali della colonizzazione.
L’ascaro è un brevissimo romanzo il cui protagonista è un giovane soldato eritreo arruolatosi nelle forze coloniali, unica altra possibilità di ascesa sociale insieme al suddetto percorso ecclesiastico, che partecipa alle spedizioni per la pacificazione dei territori libici.
Eccola un’altra figura tipica dei manuali scolastici, con il fez e le fasce al ginocchio, naturalizzata al punto d’essere uno dei tanti reparti del regio esercito. Eppure quella degli ascari è una storia di segregazione e violenza razziale: soldati impossibilitati a una carriera militare, costretti alle condizioni più dure, ai lavori peggiori, al ruolo di carne da macello.
Sono loro a sostenere gran parte del sangue versato, ma sono anche coloro che agli ordini del padrone compiono rappresaglie e non si esimono dai massacri di civili.
Tequabo, il protagonista, è proprio uno di questi ascari eritrei che si imbarca dalla sua terra natia, conquistata dagli italiani, e va a conquistare un’altra terra, per conto dei suoi padroni, bevendo dalla fonte della loro propaganda e nutrendosi dalla borsa dei loro denari, per realizzare troppo tardi di essere stato ingannato, di non essere altro che uno strumento di morte senza valore.
È, come nota il traduttore, a suo modo la storia di un viaggio, come molte sono le storie di viaggio che hanno costruito l’epica bianca della colonizzazione. Ma è un viaggio di segno opposto, un viaggio al negativo: il peregrinare non porta glorie né conquiste, non porta a scoprirsi “veri uomini”; è una traiettoria discendente fatta di morte insensata, di sete e di maltrattamento, al cui termine ci si scopre tutt’altro che uomini, ma bestie senza altra storia e compito che quello di obbedire al padrone, crepare per esso se necessario e accontentarsi di non essere nemmeno sepolti.
Ciò che emerge con forza non è solo la realtà dell’oppressione, ma il suo piano ambiguo, le sue zone d’ombra. I popoli colonizzati non sono stati gli attori passivi che attendevano l’arrivo della civiltà bianca, come vorrebbe il mito occidentale; ma nemmeno dei monolitici e fieri resistenti come vorrebbe certa retorica postcoloniale.
Sono stati elementi degli stessi popoli oppressi a collaborare all’oppressione dei propri e di altri territori: la macchina coloniale non si limita a calpestare, ma disgrega le comunità, distorce la realtà, inghiotte i suoi sottoposti per trasformarli in suoi agenti.
È per questo che, come notava qualcuno, ogni percorso di liberazione nazionale è un percorso di guerra civile, in cui il popolo ridisegna sé stesso non solo in contrapposizione con il colono, ma con i suoi propri elementi di compromesso che ne minano l’autodeterminazione.
La stesura de L’Ascaro è terminata nel 1927, è un’opera in presa diretta che sfugge alla ricostruzione nostalgica e che alla sua uscita, diversi anni dopo, è divenuta un classico della letteratura tigrina, come il suo autore è stato uno degli uomini cruciali per la rinascita culturale d’Eritrea, nonostante il suo nome resti sconosciuto al pubblico italiano, a ennesima riprova della capacità di rimozione del Bel Paese.
Eppure è una storia che merita di essere riscoperta per la sua capacità di irrobustire la coscienza anticoloniale di questo paese, ancora estremamente esile; ma ancora di più perché è una di quelle narrazioni che lo fa ridando voce e quindi giustizia a chi, nell’ambiguità che vige tra vita individuale e vissuto storico, ha attraversato un dominio che impone il mutismo ai subalterni, per continuare a replicare i propri orrori.
Torna valido oggi più che mai l’assunto per cui è l’emergere della voce di chi è ridotto al silenzio a dischiudere spiragli di verità altre e di possibilità che evadano da un mondo ridotto ad un ghetto.