di Filomena “Filo” Sottile *
1. Fascia protetta
È un copione già visto. Una persona trans appare in tivù e immediata si scatena la bufera.
«È una assoluta vergogna la irresponsabilità, la insensibilità, la condotta del servizio pubblico radiotelevisivo. Mentre tutta l’Italia sta chiusa in casa per le note vicende [emergenza coronavirus NdR.], su Rai Uno, la rete di maggiore ascolto, in piena fascia protetta va in onda una lunga trasmissione che spiega il cambiamento di sesso e questioni connesse.»
Sono parole di Maurizio Gasparri, la sua voce fa parte del coro che ha stigmatizzato la presenza di Giovanna Cristina Vivinetto sui teleschermi. La storia che Vivinetto prova a tratteggiare nei 24 minuti a sua disposizione è tutt’altro che sovversiva e anzi la giovane pare assumere acriticamente la diagnosi di disforia di genere (in Italia è necessaria per avere accesso a interventi chirurgici e cambio anagrafico), non mette in critica il dispositivo del genere né il binarismo, non parla esplicitamente di discriminazione nei confronti delle persone trans, non addossa alcuna responsabilità alla società per le sofferenze cui riesce fugacemente a fare cenno. Il conflitto pare essere tutto interno alla persona: nelle sue parole è solo una questione privata. A guardare l’intervista in controluce si intravede una sceneggiatura familistica che all’interno del nucleo famigliare si risolve con un lieto fine.
Allora il problema dov’è? Cosa potrebbe turbare il pubblico della rete che fu la più democristiana di tutte?
Le persone giovani, la loro tutela. Sembra che esporle alla testimonianza di una persona trans, al racconto della sua transizione, le possa turbare. Vorrai mica che sappiano che esistono le persone trans, che si può essere persone trans?
Non si tratta di un caso isolato, la preoccupazione per un possibile contagio trans è piuttosto diffusa. A gennaio la preside di una scuola superiore di Pisa aveva vietato la partecipazione di un’attivista trans, Dalia Smeraldi, a un’assemblea studentesca perché mancava il contraddittorio. Come se nell’esperienza di vita di una persona, nel suo senso di sé, ci fosse qualcosa da contraddire.
Nel paese reale c’è chi pensa che debba funzionare così: le persone trans, se proprio non possono fare a meno di esistere, devono stare zitte e, se proprio è inevitabile che parlino pubblicamente, che gli si vieti la fascia protetta, si metta in sovrimpressione un bollino rosso, un «parental advisory», si accompagnino le loro parole con le urla di qualcuno: «Occhio, bambini, questa cosa non si fa! Questa cosa è sbagliata!». Vogliamo mica che le persone più giovani si ammalino anche loro, che “diventino trans”?
I corpi e le menti dei bambini e delle bambine sono da sempre terreno di scontro. Per lo Stato, la mentalità borghese e i dirigisti di ogni sorta rappresentano una scommessa, un investimento sulla persistenza dello status quo. Come fosse plastilina si cerca di modellarne i pensieri e le strutture cognitive affinché tutto continui a procedere per il meglio, perché i rapporti di potere vigenti fra classi, generi, “razze” rimangano immutati.
L’idea di fondo è che le persone giovani non siano affatto persone, ma oggetti plasmabili da usare alla bisogna, fogli bianchi da scrivere, vasi da riempire, senza carattere, senza desideri e senza aspirazioni e che per tanto vanno instradate e addestrate all’obbedienza.
Qui a nordovest l’abbiamo visto diverse volte (vedi qui, qui per esempio). Quando persone minorenni fanno parte di una comunità in lotta, è facile ignorare che possano avere un anelito di giustizia, è più facile accusare i loro genitori di educarle all’illegalità o di utilizzarle come scudo umano: «Figurati se sono capaci di pensare con la propria testa». Le persone giovani sono invece lodate quando confermano gli stereotipi di genere, sfoggiano il rosa e l’azzurro, imparano a caricare un corteo e, “spontaneamente”, producono il cartellone #andràtuttobene. Questo sarebbe il modo di educarle alla scelta, alla critica, alla consapevolezza.
Le persone trans lo sanno bene. In questo paese, quasi tutte sin dalla primissima infanzia si sono sentite dire che «questo è da maschio, quello è da femmina», che dovevano stare nei ranghi del genere assegnato alla nascita, che ogni deviazione si configurava come una grave infrazione al sistema. La prima battaglia che le persone trans si trovano a combattere è quella contro l’indottrinamento binario e sessista che ricevono fin dai primi giorni di vita. È l’acqua in cui nuotiamo, la diamo per scontata e non ci chiediamo di cosa sia composta fino al momento in cui non diventa tossica per le nostre esistenze.
2. Disforia
Sulla quarta edizione del DSM, il manuale diagnostico più diffuso in psichiatria e psicoterapia, avevamo un «disturbo dell’identità di genere», ora invece siamo solo persone disforiche. Il dizionario Treccani dice che per disforia si intende
«[Un’] alterazione dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione, spesso associata ad ansia e a comportamento impulsivo.»
Depressa, irritata, ansiosa, impulsiva. Come altro può sentirsi una persona minacciata nella sua identità, nel senso di sé, alla quale fin dall’infanzia è stato detto che deve fare a meno delle sue inclinazioni dei suoi piaceri, che deve limitare la ricerca e l’espressione di sé per rispettare i confini imposti dal genere?
In questo senso sì, siamo persone disforiche, ma «non è una malattia», è l’effetto della pressione sessista, del binarismo, dell’oppressione eteropatriarcale. Nessuno si senta assolto. Ci sono delle responsabilità sociali nel disagio che spesso ci portiamo dietro.
Le persone trans che decidono di intraprendere un percorso di transizione medica per avere accesso alla terapia ormonale sostitutiva (TOS) e/o al cambio anagrafico e/o a interventi chirurgici – isterectomie, mastectomie, vaginoplastiche, mastoplastiche additive, eccetera – sono vessate da una legge binaria e coercitiva nella concezione che, abbinata al protocollo applicato dalla quasi totalità delle strutture ospedaliere, rende i percorsi irti di ostacoli. Gli specialisti che diagnosticano la nostra disforia spesso si nutrono dei peggiori stereotipi di genere: «da piccola giocavi con le macchinine e le draghe, allora sì, puoi diventare maschio; se dici di non sentirti femmina, perché porti i capelli lunghi? ti piace mettere la gonna, allora puoi diventare femmina; Ma se non ti piacciono i maschi perché vuoi una vagina?». Aspettiamo che qualche persona trans volenterosa raccolga l’intero stupidario delle cose che ci sentiamo dire.
Le relazioni con cui ci presentiamo al tribunale che decide dei nostri corpi e dei nostri documenti sono spesso infarcite di espressioni patologizzanti e informazioni (tipo l’orientamento sessuale) del tutto ininfluenti ai fini del quesito. Sono scritte per convincere i giudici che ci è capitato in sorte un corpo sbagliato e che dopo la sentenza saremo felici e non ci suicideremo.
Come se dopo la sentenza entrassimo in un mondo che non discrimina le persone trans e non rende loro la vita difficile. Vivinetto stessa l’ha provato sulla sua pelle: a ottobre scorso è stata lincenziata in quanto persona trans. Proviamo ogni giorno a sottrarci a mobbing, bullismo, insulti, pestaggi, assassinii. E non sempre ci riesce. Discriminazione e violenza nei confronti delle persone trans esistono e sono strutturali.
Si sono alzate molte voci a dirlo: le persone nere, migranti, povere, disabili, detenute, rom, di genere non conforme e, più in generale, tutte quelle oggetto di discriminazione ogni giorno, quelle a cui non spetta «una buona vita» nello stato di «normalità», ora che siamo nella bagna dell’emergenza coronavirus se la passano peggio. La crisi accelera i processi, aumenta il gap, rende più difficoltosa l’esistenza.
3. Come ce la passiamo?
Due giovedì fa mi è squillato il telefono. All’altro capo una voce registrata dice che la mia visita endocrinologica è stata spostata a data da destinarsi. Se ho capito bene il messaggio premo il tasto 1, se desidero riascoltarlo (uguale identico) premo il tasto 2. Si trattava del mio controllo trimestrale e dell’incontro in cui avrei dovuto ricevere la mia «relazione», il documento grazie al quale potrei cambiare i miei dati anagrafici se il giudice in mano a cui capita me ne dà l’autorizzazione.
Cambiare i documenti non è un vezzo, ma una necessità stringente in un sistema sociale che fatica a riconoscere le persone trans. Sul registro di classe del corso professionale che seguo mi chiamo «Fil», è il compromesso che sono riuscita a strappare fra il nome con cui sono socializzata e il nome con cui sono stata registrata alla nascita. E sul mio curriculum vitae che nome scrivo? E come posso sfuggire al genere assegnato ogniqualvolta mi trovo in una situazione in cui fanno fede i documenti? Quando mi spetterebbe uscire se vivessi a Canonica d’Adda?
La mia convinzione etica e politica dice che nessun essere vivente dovrebbe essere schedato da uno Stato ma, me lo confermano altre persone trans, dopo aver ottenuto il cambio dei dati anagrafici l’accesso al lavoro e altre mille situazioni si semplificano un po’. Mi ero fatta il conto che al termine del corso avrei mandato a cuor leggero dei curriculum con su scritto Filomena. Non sarà così. Tanto più che anche i tribunali marciano a rilento e un processo come il mio non è certo una priorità.
Sono solo una delle tante. Sento fratelli, sorelle, sibling, le persone trans con cui sono in contatto quotidiano: anche i loro percorsi sono interrotti.
La mia transizione medica è seguita da SpoT, lo sportello trans dell’associazione Maurice di Torino. Contatto Christian Ballarin che ne è il referente e gli chiedo se il telefono dello sportello squilla, se ci sono persone che chiamano e cosa chiedono. La prima cosa che mi dice è che non ci sono nuovi contatti.
– Evidentemente, si rendono conto della situazione, nessuna persona nuova chiede informazioni per cominciare il percorso.
L’apertura mi colpisce, perché quell’«ora non è il momento» è risuonato nella mia testa un miliardo di volte nei lunghi anni prima che mi decidessi a intraprendere la mia transizione. So che devastazione ha prodotto in me quel farsi da parte.
Poi passiamo a parlare dei percorsi di transizione. Quelli gestiti da SpoT non sono del tutto fermi. Le persone che animano lo sportello provano a gestire tutto ciò che è possibile a distanza. È il caso di altre strutture piccole, tipo Sat, lo sportello trans di Verona e Padova. Invece il Cidigem, mi dice Christian, il centro ospedaliero che segue le persone in transizione a Torino, ha rimandato tutti gli incontri.
– Ci sono persone che in questi giorni aspettavano di avere la prescrizione per la TOS…
Dovranno pazientare ancora. Anche qui mi immedesimo molto. Ogni giorno d’attesa è una tortura quando speri di cambiare il corpo che il dispositivo binario e patriarcale ti ha insegnato a odiare.
– Poi sai, i medici di base sono oberati e a volte non è facile ricevere le ricette per gli ormoni.
E qui Christian mi racconta di un piccolo gesto di solidarietà: una persona trans rimasta senza farmaci che ne recupera una scatola intera da un’altra che ne ha d’avanzo.
Gli ormoni non sono esattamente farmaci salvavita, se non per le persone che si sono sottoposte a interventi di rimozione delle gonadi, ma spesso diventano un ausilio importantissimo per l’equilibrio psichico di chi sceglie di farne uso. Quando a metà marzo ho intuito che piega avrebbe preso la situazione, mi sono procurata la quantità di farmaci che mi permettesse di arrivare fino a fine aprile, memore dello stato di profondo disagio in cui sono precipitata le due volte che mi è capitato di rimanere senza. Mi sono sentita un’accaparratrice. Esperienze simili però sono capitate ad altre persone che conosco.
Dopodiché Christian e io passiamo a parlare delle convivenze nocive e pericolose. Ci sono persone trans che vivono con familiari che non ne accettano e non ne rispettano l’identità di genere, per loro, al pari delle donne che vivono con partner violenti “restare a casa” non è una situazione di tutto riposo.
Più tardi ne parlerò anche con Gigi Malaroda, uno dei volontari del gruppo di ascolto messo in piedi dal Maurice in queste settimane. Mi dice che hanno pensato il servizio soprattutto per adolescenti e per chi vive una relazione violenta.
– Fosse anche una sola chiamata, si dimostrerebbe che ce n’è bisogno.
E poi mi tratteggia i contorni di un caso preso in carico durante il suo turno: una ragazza lesbica che in questi giorni subisce le vessazioni dei genitori che hanno scoperto la sua relazione con una compagna di classe.
– Questa ragazza ci chiama da fuori regione, significa che non ha trovato o non è a conoscenza di nessun servizio del genere sul suo territorio
In coda alla chiamata Christian e io ci chiediamo quanto durerà ancora questa situazione e quanti e quali ripercussioni economiche e sociali avrà. A questo punto Christian mi chiede:
– Lo sai che hanno annullato il pride di Torino?
– In che giorno doveva essere?
– Il 20 giugno. Dice che si farà un flash mob diffuso per la città.
– Dai balconi? Col tricolore?
– Speriamo di no.
A queste considerazioni fatte al telefono manca ancora qualcosa.
Uno: come mette in luce Maurizio Cecconi in questo articolo, l’emergenza toglie ogni ulteriore freno a liquami che sembra non passino mai di moda: dio, patria, famiglia. Ma di che famiglia parliamo? Di quella eteropatriarcale, ovvio. Le comunità queer sono piene di relazioni “irregolari”, non per questo meno forti o importanti di quelle canoniche. Sono moltissime le persone che l’emergenza ha privato dei loro affetti perché non vivono abitualmente nella stessa casa.
Due: trovare occupazioni stabili e garantite per le persone trans è molto complesso: una buona fetta di noi si dibatte fra disoccupazione e precariato selvaggio, senza parlare di chi si mantiene con il lavoro sessuale, il che significa trovarsi senza reddito e senza la possibilità di richiedere sussidi di alcun tipo.
Tre: c’è ancora la questione della salute mentale: molte persone trans a causa dell’oppressione patriarcale, della difficoltà di affermare se stesse in una società così escludente, sono psichicamente più fragili e hanno sofferto o soffrono di ansia e depressione. La reclusione, l’isolamento e la maniera assurda in cui il governo sta gestendo la questione non fa che aggravare la condizione di queste persone.
4. Nulla di eccezionale
Su un aspetto l’emergenza non ha nulla di eccezionale e ricalca perfettamente la cosiddetta – e tanto invocata in questi giorni – «normalità». I rapporti sociali, le politiche dello Stato, le «autoregolamentazioni del mercato» continuano a essere tagliate su misura su quello che viene percepito come «essere umano normale» – uomo, adulto, bianco, eterosessuale, cisgender, abbiente, normodotato, a piede libero – sulle sue necessità e i suoi bisogni.
Che necessità ha di una struttura pubblica in cui abortire un tale individuo? E di fare una passeggiata? E di ragionare sulle priorità di accesso alle cure? Di mettere in discussione il sistema economico? Le discriminazioni di genere? L’eteropatriarcato? Il razzismo? Nessuna. Nessuna necessità. E quindi, da questa sua posizione di privilegio, può invocare la sobrietà, la pazienza, la virtù, la responsabilità. E anzi, si sente nel pieno diritto di sbirrarvi se vi vede trasgredire alle misure.
Ed ecco che interviene la bassa manovalanza in divisa, i tutori dell’ingiustizia. Ti fermano e possono rovistarti nella spesa per accertarsi che tu abbia acquistato solo l’indispensabile o sanzionarti per una boccata d’aria nei limiti consentiti. Si è detto che regna l’arbitrio, ma non è così: il metro di paragone che assolve o condanna è quello della norma borghese e segue precisi parametri di classe, genere e razza e in base a quelli valuta e soppesa ogni tuo atto.
Le misure di emergenza tolgono spazio e peso a chi già ne aveva meno, erodono i diritti che sembravano acquisiti, mostrano in maniera lampante chi è dispensabile, sacrificabile sull’altare della ragione di Stato. L’unità nazionale, il fronte comune emergenziale, la guerra al virus diventano la mannaia che amputa il corpo sociale dei pezzi ritenuti superflui. Ogni giorno di più c’è qualcuno che ti dice di cosa hai veramente bisogno e di cosa puoi fare a meno in questo momento. E lo fa invertendo i termini della questione e improvvisandosi ventriloquo di soggetti senza (a cui si è sottrata) voce. È come quando gli antiabortisti prendono le parti del feto, i transfobici menzionati all’inizio prendono le parti delle persone più giovani o i governanti ti proibiscono di correre per tutelare chi si trova in terapia intensiva.
È un fenomeno spiegato bene nel terzo capitolo di Le promesse dei mostri di Donna Haraway (DeriveApprodi, 2019) e calza a pennello: così come la pretesa di difendere il feto o «i bambini» serve a sviare l’attenzione, a evitare di mettere in discussione le logiche patriarcali ed eterosessiste che sottendono la società, allo stesso modo prendersela con chi ha necessità di abortire o di visite endocrinologiche serve a nascondere sotto il tappeto che il sistema sanitario era già al limite del collasso a causa della devastazione sistematica portata avanti negli ultimi tre decenni. Quello che sta avvenendo da fine febbraio in questo paese non ha nulla di eccezionale, è solo la conseguenza e la drastica accelerazione delle politiche discriminatorie, classiste, razziste, neoliberiste messe in opera negli anni precedenti.
Non andrà tutto bene. Ci tocca assumere il ruolo delle guastafeste, scoperchiare per bene vasi di Pandora troppo stipati, enumerare tutte le ingiustizie, riconoscere le disuguaglianze, osservare l’effetto del sovrapporsi dei piani di oppressione e ripartire da qui per evitare di tornare alla normalità. Il re è nudo e lo si vede da diverse prospettive, è la normalità il problema.
–
* Filomena “Filo” Sottile, discendente di persone siciliane, è nata e cresciuta in provincia di Torino nei tardi anni ’70. Batte palchi e piazze da oltre due decenni nei panni della punkastorie. Ha pubblicato un romanzo, racconti, articoli su viandanze, piante, transfemminismo, questioni No Tav. Ha scritto per Giap, Carmilla e Alpinismo Molotov. A giugno uscirà per Eris edizioni La mostruositrans, il suo primo pamphlet. Ha un blog: filosottile.noblogs.org