La lezione online di Raul Zibechi, tradotta ed editata da Elia Lacchin Giangasperi dell’Associazione Yabasta!ÊdîBese!.
«Ciao a tutti e tutte, il mio nome è Raul Zibechi, vivo a Montevideo in Uruguay, sono giornalista, teorico politico e militante, e accompagno processi di lotta e organizzazioni sociali», inizia così la lezione online del teorico sudamericano che dichiara in seconda battuta che escluderà dalla sua riflessione la parte scientifico/sanitaria. In realtà, ci sono alcune caratteristiche di questa emergenza sanitaria che rendono la situazione alquanto particolare.
La prima è che questa pandemia arriva in un momento di profonda crisi sistemica, in un periodo nel quale si nota una transizione dell’egemonia occidentale verso quella orientale, più concretamente dall’egemonia degli Stati Uniti all’egemonia cinese.
Non ci troviamo davanti ed un’emergenza sanitaria qualsiasi, allo stesso modo non si tratta di un momento storico qualsiasi. Non possiamo non notare che i quattro paesi che hanno fronteggiato meglio la pandemia sono asiatici: Giappone, Corea del Sud, Cina e Singapore.
In Cina si sono ammalate ottanta mila persone e ci sono stati poco più di tremila morti, in un paese che conta milioni di abitanti.
Anche in Giappone e in Corea non c’è stata una vera e propria chiusura delle città. Si potrebbe anche dire che in Cina, considerando quanto è estesa, ci si è trovati davanti ad una situazione particolare: infatti, in una provincia che conta 60 milioni di abitanti, con una città di undici milioni, tutto è stato chiuso, isolato, fabbriche incluse, ricevendo, però, l’assistenza del resto del paese.
Il Giappone e la Corea sono nazioni con un’estensione decisamente minore, paragonabile agli stati più piccoli che compongono il Sud America; nonostante ciò non sono comunque arrivati ad imporre la chiusura dei confini. E qui entrano in gioco vari elementi, David Harvey dice che si tratta di quattro paesi – Giappone, Corea del Sud, Cina e Singapore -, che pur essendo liberali o pro-occidentali, non hanno tuttavia dei regimi neoliberisti.
In questo caso lo Stato gioca una carta molto importante: ad esempio la Corea del Sud ha fatto 25 mila test al giorno, fino ad arrivare ad avere centinaia di migliaia di test. La popolazione analizzata era così tanta che hanno potuto individuare con velocità i luoghi dove i nuclei di positività al virus si centralizzava, riuscendo così, in base a quei numeri, a prendere misure adeguate di isolamento, reclusione, domicilio e tipologie di cure varie.
In Sud America non è stato così: sono stati fatti solo duecento test al giorno, determinando così un deficit enorme, che ha portato a non sapere quante persone fossero poi realmente contagiate. In Brasile ci sono duemila casi positivi riconosciuti ma si calcola che in realtà potrebbero essere milioni. Questo solo per evidenziare il contrasto tra Oriente e Occidente, per confermare che l’Occidente si trova in mezzo ad una profonda crisi: non si è riusciti a fermare l’ondata del coronavirus e ora ci sono più morti in Spagna o in Italia che in Cina, nonostante la popolazione sia venti volte minore.
La popolazione spagnola si aggira intorno a 47 milioni di persone e ci sono più morti che in Cina, capirete da voi che c’è qualcosa che non quadra. Ad ogni modo quel che è chiaro è che c’è uno “spostamento di egemonia da Occidente a Oriente”; una tendenza che ha avuto un’impennata a causa del Covid-19, ma che era già iniziata da tempo e che non sappiamo quando esploderà definitivamente.
Ho qui davanti un libro di Immanuel Wallerstein, “Capitalismo storico e movimenti contro il sistema”, scritto nel 1994. Nell’articolo “Pace, stabilità e legittimazione” scrive: “Il periodo dal 1990 al 2025/2050 sarà molto probabilmente di poca pace, poca stabilità e poca legittimazione. Tutto ciò sarà dovuto probabilmente al tramonto degli Stati Uniti come potenza egemonica del sistema mondo. Ma soprattutto alla crisi del sistema mondo in quanto tale”.
Questo è un elemento importante da considerare. Un altro elemento viene messo in campo da Jose Maria Lassalle, professore di origine spagnola specializzato in filosofia del diritto.
Egli sostiene che la crisi attuale rischia di infettare le libertà personali. Rischia di abituarci a vivere in un contesto di eccezioni normalizzate che ci induce a pensare che per affrontare i rischi della globalizzazione (la pandemia è uno dei rischi della globalizzazione), sono accettabili patti autoritari che non ammettano discussioni.
Questo è importante perché è il secondo aspetto che voglio toccare, infatti è molto probabile che da questa pandemia si esca come dalla guerra civile colombiana. Una società con un trauma centrale, il cui fulcro non sono né le vittime né la paura ma è l’autoritarismo.
Perciò è possibile che da questa pandemia le classi dominanti, che già spingono verso quella direzione, finiscano per generare una società sempre più verticale, gerarchica e autoritaria. Quest’uomo, il signor Lassalle, Segretario di Stato per la cultura dal 2004 al 2011 e per la società dell’informazione e l’agenda digitale dal 2016 al 2018, ha scritto un libro che si chiama “Ciberleviatan” un saggio politico in cui analizza una possibile realtà distopica, in cui la rivoluzione digitale spazza via insieme la rivoluzione francese e quella industriale.
Sostiene che potrebbe esserci un problema con le classi medie e fa notare che la salute pubblica è la priorità e che quando viene minacciata fa entrare in campo la sicurezza che predomina sulla libertà, che ha perso la sua dimensione pubblica per confinarsi in quella privata.
Come a dire che nello spazio privato possiamo certo essere liberi, ma non in quello pubblico.
E dice di più: “Viviamo in una società di classi medie debilitate nelle loro resistenze emozionali di fronte alle avversità”: ma come mai questo è importante? Perché questa nozione della classe media? Perché questa coscienza della classe media?
Estesa ovunque, la classe media è il mondo da imitare anche da parte dei settori popolari ed è questa stessa classe media a reclamare sicurezza. Perché il poco che ha raggiunto e accumulato non lo vuole perdere, perché anche se vive precaria, continua ad ogni modo a vivere un gradino sopra al resto della popolazione.
Perciò è interessante notare come questo stesso settore della classe media la cui cultura impregna tutta la società cerchi di assumere e imporre ai più una sorta di logica della sicurezza. Lassalle evidenzia il fatto che la salute è imparentata con la sicurezza e questo è molto importante per paesi come il nostro, dove la salute è diventata carne da macello e la sicurezza è diventata centrale. Perciò abbiamo un secondo tema che è l’autoritarismo, la tendenza verso una società verticale che sta dominando oggi nel mondo.
E perché questo è importante?
Perché se usciamo da questa crisi con i movimenti sociali e popolari indeboliti e i movimenti del capitale più liberi, gerarchizzati e autoritari, entreremo in una situazione per la quale l’emancipazione, la liberazione dei popoli, la giustizia sociale saranno di volta in volta strade meno percorribili.
Possiamo uscire da questa crisi con un equilibrio più o meno simile a quello che avevamo prima o stiamo andando inevitabilmente verso una condizione di sbilancio a favore della classe dominante?
Cosa succedeva prima?
Fate caso al fatto che la pandemia viene dichiarata pochi giorni dopo l’8 marzo, dopo che insieme con milioni di donne e uomini nel mondo siamo scesi in piazza contro il patriarcato, ma non solo, siamo scesi in piazza con un processo di resistenza al capitalismo, al neoliberismo, in un processo di enfasi per la lotta antirazzista e anticoloniale. Nella misura in cui il femminismo e i popoli originari mettono sotto accusa patriarcato e colonialismo automaticamente si indebolisce il capitalismo.
La pandemia sorge in uno dei momenti in cui si sta sperimentando uno schema sociale per il mondo che indebolisca i concetti di stato-nazione e di élite dominante.
Se gli stati-nazione si indeboliscono, il potere delle élite dominanti si aggrappano allo Stato usandolo come strumento per controllare chi sta più in basso e per mantenersi attraverso quello stesso controllo nel “luogo” del potere.
Vanno evidenziati questi due fattori interessanti: lo spostamento di egemonia da Occidente verso Oriente e una tendenza alla caduta dei due pilastri del capitalismo, ossia il patriarcato e il colonialismo.
Va osservato che i principali paesi dell’Occidente, indipendentemente dal fatto che abbiano un governo di destra o di sinistra, inizialmente hanno vacillato.
La Cina ha deciso di combattere la pandemia radicalmente, Corea e Giappone hanno avuto altri atteggiamenti che vanno però verso lo stesso destino, mentre i grandi paesi americani, Messico, Brasile, Stati Uniti, direi di più anche Italia e Spagna (la Germania la lascerei a parte) hanno vacillato, andavano e venivano. Bolsonaro vuole tenere le scuole aperte, non chiude i ristoranti e le imprese perché glielo chiedono i suoi amici impresari, perché non dà valore all’importanza della pandemia e non vuole usare la spesa pubblica per mantenere i milioni di persone che non potranno lavorare.
Pensate che in Brasile sono cinquanta milioni le persone che lavorano senza contratto, mentre in Colombia è circa la metà della popolazione lavorativa.
Chi sosterrà questi venditori abusivi o ambulanti, chi sosterrà tutto il precariato quando l’economia si paralizzerà?
Quale risposta gli darà lo stato?
In Brasile a chi non ha un contratto pagano circa 40 dollari mensili, 1 dollaro al giorno per un’intera famiglia.
Cosa accadrà in Colombia? E in Ecuador? Confinare la gente a casa ma non poter provvedere a quelli che una casa non ce l’hanno… L’America Latina non è l’Italia o la Spagna, dove gli stati hanno risorse e sono una minima parte quelli che lavorano in maniera irregolare. Da noi la maggior parte dei lavoratori non è tutelata da un contratto, galleggia nel precariato, non possiede un sindacato che la difenda, non ha alcuna certezza sulla disoccupazione; da questo si capisce che la parte della popolazione più debole verrà amputata. Dobbiamo accorgerci che siamo nudi in America Latina davanti a questa pandemia.
L’amputazione è dovuta al debilitamento dello stato nazione e alla condizione di incertezza delle élite, alla scelta che si effettua tra seguire l’esempio cinese o seguire l’esempio di Trump.
Trump si preoccupa dell’economia, chiaro, è un milionario e un imprenditore. In Italia la confederazione dell’industria, piuttosto presente all’interno del paese, ha imposto al governo, in una condizione per cui tu non puoi uscire per strada se non per fare la spesa, che le imprese restino aperte con gli operai che lavorano, perciò la mia domanda è: di cosa parliamo?
Viviamo tutti allo stesso modo la pandemia o no?
Confiniamo una parte della popolazione perché si protegga, chi se lo può permettere, e per gli altri ci va bene che siano carne da ospedali o da cimitero: gli impiegati e le impiegate, gli operai e le operaie.
In questa situazione si trovano le élite del mondo protette da paesi che hanno preso decisioni molto lucide. Nel caso dell’Argentina, che ha un’economia soprattutto precaria, il governo di Alberto Fernandez ha preso decisioni ragionevoli, a dispetto di altri paesi, come il Messico, che si suppone siano governati dal centro sinistra ma non hanno fatto niente. Il presidente del Messico Lopez Obrador si fa vedere con una stampa della Vergine sostenendo che la Vergine ci proteggerà dalla pandemia, mentre milioni di persone non sanno cosa fare.
Questi due fenomeni che vedo su scala globale ci portano a pensare che i settori popolari si trovano in una condizione alquanto complessa, da qui il terzo e ultimo aspetto che vorrei toccare: i movimenti e i popoli in movimento.
La situazione è molto complessa, le classi dominanti disegnano davanti a noi un panorama di dominio dato dalla militarizzazione: chiuderci nelle nostre case, chi ce l’ha, e che ciascuno si arrangi come può mentre poliziotti e militari controllano le strade.
Questo è quel che sta accadendo in Ecuador, in Cile, in Uruguay, questo è quel che sta accadendo da tutte le parti.
I movimenti sono paralizzati, non possono fare manifestazioni o proteste né svolgere attività pubbliche, tantomeno riunioni, ma se ci riuniamo su internet lo stato se ne accorge e se proviamo a organizzare qualche attività cercherà di bloccarla.
Perciò io credo che questo ci imponga una profonda riflessione, allo stesso modo possiamo osservare che ci sono popoli che si sono già preparati per questo ma che adesso si trovano comunque in difficoltà. Lo zapatismo da cinque anni ci invita a parlare delle conseguenze del capitalismo e del collasso civile che ci troviamo addosso ora, a cui ciascuno ha risposto in un modo o nell’altro. Io credo che i popoli – nello specifico quelli originari: afro, indigeni o contadini – che hanno terra e acqua si trovino in una situazione con più opportunità.
Noi nelle città che faremo?
Ci chiuderemo nelle nostre case, dipendendo dalla polizia perché ci permetta di uscire, vivendo grazie ai nostri risparmi o a nostri redditi, e se li non abbiamo come viviamo?
Questo ci impone una sfida molto forte in una situazione piuttosto precaria ma soprattutto nuova. Io dico che ora il mondo in cui viviamo è un campo di concentramento a cielo aperto e che in questo campo di concentramento non valgono la democrazia né le elezioni, di fatto molti mandati verranno prorogati e probabilmente per abbastanza tempo, ma se non valgono i diritti, cosa possiamo far valere oggi?
Il diritto di riunirsi, di manifestare, la libertà di pensiero, cosa vale oggi?
Perciò io credo che vivere ora ciascuno nella propria casa, collegato al proprio internet sia disfunzionale ad uno sguardo lungimirante. Bisogna lavorare sul territorio con i nostri vicini e le nostre vicine, all’interno dei nostri spazi per organizzarci. Sono tante le necessità che abbiamo: non ci sono mascherine, non c’è alcool in gel, nei quartieri popolari spesso non c’è acqua potabile, non ci sono alimenti, tutto questo dobbiamo procurarlo e deve venire dalle attività popolari, dai movimenti che esistono nei nostri territori, ricordandoci che questa organizzazione non può essere molto aperta. Se siamo in un campo di concentramento le guardie del campo non possono accorgersi di quel che stiamo pensando o facendo, devono pensare che siamo tranquilli e che stiamo bene, ma dobbiamo comunque essere organizzati.
Non possiamo dare visibilità alle nostre organizzazioni e a me sembra che se facciamo vedere quel che abbiamo intenzione di fare ci neutralizzeranno quando vogliono.
Perciò dobbiamo organizzarci principalmente sul territorio, con i nostri vicini e anche con le persone che non conosciamo bene perché molte volte anche se viviamo in un luogo da molto tempo non abbiamo una relazione né stretta né buona con il nostro vicinato; l’indifferenza è una delle peggiori bestie di questo momento.
Però dobbiamo organizzarci, organizzarci e fare iniziative, piccole: condividere e sapere quello che abbiamo, magari in un gruppo comunque piccolo, un massimo di venti persone. Qui il sindacato non serve, può servire in altri momenti ma non in questo, può servire come appoggio logistico, però non come base organizzativa territoriale. Riunirci perché magari c’è una maestra che può aiutare con i bambini, o qualcuno che lavora nella sanità che può fornire conoscenze o sapere dove recuperare medicinali. Quel che voglio dire è che in questo momento, se consideriamo che ci troviamo in un campo, in quello stesso campo di concentramento, è importante agire esercitando quel che ancora conosciamo della libertà pubblica, prendere decisioni collettive, riunirci con gli altri e le altre. Fare dei passi concreti verso una situazione che migliori la condizione in cui ci troviamo.
La cosa peggiore che possiamo fare è chiuderci da soli in casa. Questa pandemia non è una parentesi che è iniziata ora e che si chiuderà quando scelgono di annullare le misure: no, questo è un nuovo periodo storico, che è arrivato per restare.
Alberto Fernandez, presidente dell’Argentina, sta parlando di un picco dei positivi a maggio; in Italia si parla di fine dello stato di emergenza per la fine di luglio.
Queste misure dureranno mesi, tre, quattro, cinque, sei, poi le toglieranno, però probabilmente le rimetteranno per un altro motivo o proprio per lo stesso: perché qualcuno che si contagia di nuovo, nella misura in cui il capitale scopre che può continuare ad accumulare tenendoci rinchiusi, questo è un affare.
Dobbiamo pensare territorialmente, autonomamente e organizzarci per vivere con sguardo lungimirante.
Insisto, la situazione generata dalla pandemia è arrivata per restare.
Dobbiamo essere previdenti, organizzarci nei quartieri, dal basso, con tranquillità, senza far vedere troppo quel che facciamo, però essendo efficaci, confidando nei nostri vicini anche se non votano o votano al contrario di ciò in cui noi crediamo.
Ho conosciuto una delle donne più attive che ho visto, che propone una visione popolare e collettiva ed è una persona di destra; è capitato anche che i compagni che espongono bandiere e manifesti di sinistra stanno aspettando ordini nelle loro case senza prendere alcuna iniziativa, vale a dire che l’ideologico qui non è centrale, io guardo la gente come si comporta, e da lì deduco se posso fidarmi o meno.
Termino sintetizzando: transizione egemonica, che si traduce in una condizione di forte instabilità, indebolimento degli stati nazione e militarizzazione come risposta a questo indebolimento. Viviamo in un campo e all’interno di questo campo dobbiamo organizzarci, sopravvivere, organizzare la vita e la libertà collettiva, capire che con ciascuno solo in casa non si può superare questa situazione, che per superarla bisogna unirsi con altri e altre e agire collettivamente, lavorando sul territorio in base alle necessità più impellenti.
Questo non è un ricettario ma soltanto una riflessione a voce alta, ai compagni e alle compagne di “desde abajo” e a chi sta ascoltando questa trasmissione, grazie mille, continuiamo a tenerci in contatto per tutto il tempo a seguire.