Veneto: se il rientro a scuola diventa campagna elettorale

La scuola italiana esce dal problema Covid con le ossa rotte. Grande assente dei tavoli tecnici, dei discorsi presidenziali , protagonista di pochi documenti ufficiali e molte dirette facebook ministeriali, sembra interessare poco. Non crea PIL, non produce guadagno immediato, è emanatrice diretta di un lavoro culturale che sembra non interessare più a nessuno. Bambini se ne fanno pochi. Le madri non sono ritenute essenziali per la produzione. Risulta difficile anche costruire, attorno alla scuola, un terreno di lotta: è materia complessa, gatto di molti padroni, dai dirigenti scolastici, agli enti locali, provinciali, regionali e nazionali. Difficile, ai tempi della pandemia, individuare un avversario a cui sottoporre istanze di rivendicazione. Sono forse i comuni, cui competono asili nido e una parte delle scuole dell’infanzia, ma non tutte e , soprattutto, non obbligatorie? O le provincie, cui competono gli edifici delle scuole secondarie? O la regione, cui competono i Cfp? O i dirigenti, spesso in reggenza su più istituti?

Che la scuola italiana fosse malata anche senza pandemia, era già chiaro. Il Covid potrebbe invece rappresentare un’opportunità per ripensarla, renderla veramente veicolo di giustizia e crescita sociale. Per la sperimentazione didattica, per un modello di scuola diffusa, dove nessuno resta indietro. Per farlo ci vorrebbero testa, cuore, coraggio. Che oggi mancano.

Nel mezzo di queste riflessioni –  e del nulla istituzionale che ha rappresentato in questi mesi il pensiero su bambini e bambine, ragazzi e ragazze – è uscito martedì 7 luglio il manuale operativo per il rientro a scuola a settembre di studentesse e studenti veneti, dai 3 ai 18 anni. Presentato a Venezia, è opera del lavoro congiunto della regione Veneto e dell’ufficio scolastico regionale. «Siamo i primi in Italia», dichiara l’assessora regionale all’istruzione Donazzan. Specifica subito, però, che si tratta di una cassetta degli attrezzi, da usare in massima libertà e autonomia. In poche parole: io le presento in grande stile, così faccio campagna elettorale; dopodiché, affari dei dirigenti scolastici, anche perché attualmente non esiste un protocollo sanitario nazionale per la riapertura.

 In attesa dell’annunciato ‘cruscotto’ ministeriale, che avrebbe dovuto dare indicazioni in materia di spazi, distanziamento, tempo scuola e organizzazione della didattica, la Regione Veneto ha voluto dare prova dell’autonomia tanto cara a Zaia e si è messa a capofila del tavolo di coordinamento con Ufficio scolastico regionale, Anci, Upi, Direzione della prevenzione, Comitato tecnico scientifico regionale e sindacati. Associazioni e comitati di genitori, docenti e studenti, non pervenuti: evidentemente qui conta chi ha un titolo, non chi la scuola quotidianamente la fa, la vive o, eventualmente, la subisce.

Il manuale si divide in due parti: una più tecnica, che spiega nella pratica il distanziamento e ipotizza la gestione di aule con una media di 20 alunni per classe (ma dove??)e delle scansioni orarie; una con considerazioni “altre”, ripresa dalle linee guida nazionali e dai documenti del MIUR, sulla didattica.

Il documento risulta comunque fortemente adeso alle linee guida ministeriali, con dei risvolti preoccupanti per quel che riguarda le scuole superiori: studenti giudicati più autonomi e quindi, in soldoni, capaci di rimanere eventualmente a casa da soli.

«Dalla situazione di emergenza possiamo ricavare importanti stimoli per fare innovazione nella didattica, valorizzando esperienze di coordinamento, compresenza, alternanza, che istituti e docenti già conoscono e hanno già messo in campo», sottolinea Palumbo, a capo dell’USR Veneto.

Ma a 7 mesi dal lockdown, si potrà ancora parlare di emergenza? Compresenza, alternanza delle classi, “business games”, ore da 40 minuti, hanno davvero un valore formativo? Del resto, formare gruppi classe più piccoli non si può: non ci sono docenti, non ci sono soldi, per cui cambia tutto per non cambiare niente. Si parla dell’uso amplificato dei docenti del potenziamento, tuttofare che evidentemente hanno studiato per tappare buchi e risolvere le emergenze; e si introduce per le superiori la cosiddetta didattica “blended”. Riportando testualmente: Modalità blended (in caso di insufficienza di spazi e organico)

1) classe parte in presenza, parte collegata da casa, con inversione periodica;

2) turnazione settimanale di classi intere, suddivise in più spazi secondo le modalità illustrate sopra;

3) gruppo classe diviso in due con didattica capovolta, ovvero preparazione a casa durante una settimana e poi

confronto e verifica la settimana successiva in presenza (e inversione dei gruppi);

4) alcuni alunni della classe in modalità on line, a seconda dei problemi di trasporti o di connettività, a

turnazione.

E ancora: Nella scuola del secondo ciclo, grazie all’età degli allievi e alla loro crescente autonomia operativa, sono possibili, con i necessari adattamenti, tutte le esperienze già citate per il primo ciclo di istruzione rispetto alle competenze chiave, anche in termini di compiti assegnati direttamente agli alunni, individualmente o in gruppi di lavoro. In questo grado di scuola possono essere portate a regime le migliori esperienze condotte nella DAD con il supporto delle tecnologie, anche in precedenza esperite. Didattica a distanza non significa necessariamente videolezione in sincrono o in differita. Nei momenti in presenza in aula possono essere avviati argomenti che vengono affidati alla ricerca e all’approfondimento autonomo degli studenti, per essere poi ridiscussi, sistematizzati, ricondotti a modello e teoria in aula, con l’apporto esperto del docente e il contributo della classe.

Le migliori esperienze condotte nella didattica a distanza? Fermi tutti. L’abbiamo fatta, è stata utile, ma basta così. Basta! C’è bisogno di tornare in presenza. Le ricerche per conto proprio si fanno già, i progetti si fanno già, la scuola ha bisogno di altro. Un’infermeria, ad esempio. Sapere cosa succede se c’è un caso di Covid, o banalmente se i bambini hanno un raffreddore. Tutti a casa al primo starnuto?

La situazione ha un che di paradossale. Avete provato, nelle ultime settimane, ad entrare in una scuola? Sembra di essere in pieno lockdown, viene difficile anche andare a ritirare i propri libri; mentre subito fuori le persone si assembrano nei bar e nelle piazze.

Così come è stato per i movimenti ambientali e pacifisti, neanche per la scuola ci sono “governi amici”. Abbiamo perso, negli ultimi 10 anni, almeno 8 miliardi in tagli. Abbiamo visto la classe politica trasformare la scuola pubblica in un’azienda. E, ora che le assomiglia, che i programmi sono stati tagliati, il pensiero critico ridotto a zero, le aziende aprono ad ogni costo e le scuole, ad ogni costo, chiudono?

Il disegno di rientro pensato per il Veneto farà scuola, e non sarà nemmeno il peggiore. Il Covid diventerà, se non ci opponiamo, la scusa perfetta per la privatizzazione, l’ingresso dei privati nel pubblico come già è stato per la sanità, la diminuzione delle ore, un sapere sempre più parcellizzato e utile a creare precari obbedienti.

Ci aspetta un autunno caldo, e non certo per la febbre. Da mesi genitori, docenti e studenti si stanno organizzando in un movimento, Priorità alla Scuola, che va diffondendosi città per città. Siamo stati bravi, siamo stati a casa, abbiamo mantenuto le distanze, isolato i più giovani. Ora è tempo di lottare per il diritto all’istruzione, pubblica e in presenza, e di chiedere il conto di quello che ci è stato tolto. Anche con la mascherina, va bene. Per chi lotta per la giustizia sociale, non è certo una novità.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento