L’anno è il 1918 e l’armistizio è alle porte, ma nessuno al fronte può ancora saperlo. Verrà ricordato come l’anno della vittoria, la fine della Prima Guerra Mondiale; anche se, a discapito del trionfo nazionale, “Campo di battaglia” di Gianni Amelio mette in scena la miseria, la disperazione e la povertà che ha caratterizzato quel periodo.
Una guerra che in quegli anni nessuno ha fino in fondo compreso, tanto chi era al fronte quanto chi non ha imbracciato le armi; in questo historic drama ciò che emerge è che quel grande conflitto mondiale non fu altro che “un campo di battaglia” che il governo italiano e lo Stato regio dichiararono al loro stesso popolo.
Quanto è grande il sacrificio che stai facendo se qualcun altro ti costringe a farlo? Per rispondere a questa domanda serve esplorare i numerosi campi di battaglia che Amelio dirige sotto il suo vigile occhio da veterano.
C’è la trincea, con tutti quei corpi ammassati, il freddo e condizioni di miseria che vanno al di là della nostra immaginazione.
C’è l’Italia, da nord a sud, un Paese frammentato, i cui cittadini parlano a malapena la stessa lingua. Attraverso la molteplicità dei dialetti si capisce la provenienza di ogni personaggio e il suo status sociale ed economico, mentre chi ha avuto accesso all’istruzione, ovvero i medici, sono gli unici a parlare tra loro in italiano.
C’è l’ospedale, con le sue stanze claustrofobiche e reparti affollati, dove operano Stefano (Gabriele Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), due medici che condividono un legame inspiegabile ma apparentemente profondo, nonostante abbiano visioni molto diverse sulla corretta interpretazione del giuramento di Ippocrate in tempo di guerra. Stefano ferocemente attaccato al dovere patriottico e profondamente sprezzante per i disertori. Giulio brutalmente consapevole dell’ipocrisia di mandare giovani uomini verso una morte molto probabile.
Lavora con loro anche l’infermiera Anna (Federica Rosellini) che rappresenta un altro campo di battaglia, con il suo corpo e il suo essere donna, che le ha impedito di diventare medico, a causa del sessismo istituzionale che ha ostacolato la sua brillante carriera.
Non c’è nessuna vittoria in questo lungometraggio, c’è ben poco da vincere quando si tratta di guerra, anche se i due protagonisti provano in qualche modo a tirare la sorte e l’empatia dalla loro parte, ancora una volta ai lati opposti di un tavolo al cui centro sta la moralità e l’etica. Stefano combatte chi imbroglia e per procurato malessere cerca di sottrarsi al ritorno al fronte. Giulio, invece, è sempre più spinto ad aiutare i suoi pazienti a tornare a casa. Anche se, in molti casi, ciò significa mutilarli o renderli, con il loro consenso, più malati di prima.
Entrambi sono consapevoli delle loro scelte, ognuno avvalora le proprie tesi e nessuno dei due viene rappresentato come “il cattivo”, anche se inevitabilmente si arrogano il diritto di esercitare un potere ingiustificato sulle vite del prossimo, con tutte le conseguenze che ne derivano. Non è facile decidere chi abbia ragione o torto in questa storia.
“Campo di battaglia” porta a tutti gli effetti un forte messaggio contro la guerra, cercando dei punti di continuità con la situazione odierna, introducendo per esempio la rappresentazione di un’epidemia, la Spagnola nel 1918.
«Questo è un film non di guerra, ma sulla guerra», racconta in conferenza stampa un accorato Gianni Amelio. «Le immagini a cui ci siamo assuefatti in tv, così usurate, oggi sembrano quasi irreali, ne vediamo troppe. La guerra, però, è anche vedere un gommone che affonda. Non siamo in grado di ragionare, subiamo le emozioni». Il film, come poi sottolinea anche uno dei protagonisti, Alessandro Borghi, è effettivamente una riflessione sul giusto e sbagliato, sul bene e male, a che cosa (ai nostri occhi) vogliamo davvero credere, riguardo il senso di responsabilità.