Venti anni di resistenza al capitale globale       

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di Alberto Zoratti (Fair Watch – fra i facilitatori della Società della Cura)

Nella metà degli anni novanta Jeremy Brecher e Tim Costello, due sindacalisti americani, scrissero un saggio che negli anni a venire sarebbe diventato un riferimento all’interno del nascente movimento dei movimenti.

Il loro: “Contro il capitale globale, strategie di resistenza” metteva già al centro concetti che fino a quel momento erano rimasti ai margini della discussione e della riflessione antiliberista.

Termini come “globalizzazione”, “mondializzazione” si diffusero in modo capillare, alimentando e dando senso a tutte le forme di attivismo, resistenza, conflitto che in quegli anni stavano rovinando la festa ai piazzisti del neoliberismo, allora considerato dalle élite l’unica forza trasformativa delle società, rimasta in piedi dalle macerie del  muro di Berlino.

La sindrome TINA, “There Is No Alternative”, era il mantra ripetuto e spinto in ogni dove, riprendendo quell’aforisma oramai divenuto famoso per cui “una bugia ripetuta cento, mille, un milione di volte diventerebbe verità” .

Era il periodo della nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che vide la luce nel 1994 alla fine di un round negoziale che durò ben sette anni, ma anche del miraggio clintoniano del liberismo con una certa sfumatura sociale a cui si associò il socialismo europeo, da Jacques Delors in poi, per cui solo il mercato avrebbe potuto soddisfare le promesse di crescita e benessere illimitato che da tanti anni stava alimentando una narrazione oramai diventata comune.

Brecher e Costello dimostrarono, dati alla mano, i limiti di quella visione, identificando la globalizzazione come un grande Gulliver, che si sarebbe potuto fermare e legare a terra proprio come fecero i lillipuziani, collaborando e cooperando, a prescindere da differenze e appartenenze di sorta.

Quella intuizione prese corpo nelle strade di Seattle nel dicembre del 1999, dove centinaia di migliaia di persone presero parola e piazza:  ambientalisti assieme agli operai delle acciaierie, contadini assieme ad attivisti, fermando una ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che avrebbe dovuto lanciare il Millennium Round, un ciclo negoziale che avrebbe dovuto segnare il passaggio al nuovo secolo consolidando le magnifiche sorti progressive del neoliberismo.

Il movimento dei movimenti nasce simbolicamente dal Paese traino delle politiche neoliberiste, e il confronto con la guardia nazionale mandata in forze a ristabilire l’ordine dimostrerà come quel conflitto fosse, di fatto, già arrivato a toccare i gangli vitali del sistema politico ed economico.

Quella esperienza attraverserà le strade di mezzo mondo, passando per Bologna per il No Ocse, per Praga durante il Summit di FMI e Banca Mondiale nel settembre del 2000, approdando sulle sponde del Mar Ligure nel luglio del 2001, presentandosi in una forma che non si era mai vista nella storia dei movimenti italiani e internazionali.

Un coordinamento di centinaia di realtà, dai più piccoli comitati alle reti globali, che decise di circondare un vertice che aveva di fatto recluso una città intera, con container messi di traverso sulle strade e con grate alte oltre cinque metri, a delimitare un dentro e un fuori.

Una piccola élite di Capi di Stato, protetti all’inverosimile in una fortezza inespugnabile, e centinaia di migliaia di persone fuori, a dar voce a oltre sei miliardi di persone, considerate dal gotha dell’economia mondiale come semplici spettatori di una rappresentazione di forza e supponenza.

Da quelle strade il conflitto non prese solo le forme più conosciute, della resistenza di piazza alla repressione, ma anche quelle della rilettura dal profondo del paradigma della globalizzazione neoliberista, analizzate e smontate in quattro giorni di Public Forum dove la società civile mondiale previde le crisi che si sarebbero susseguite nel corso degli anni, costitutive di un sistema insostenibile e ineguale.

A partire dal disastro climatico, che vide nel fallimento di Copenaghen nel 2009 l’incapacità della governance mondiale di essere all’altezza della più grande sfida di tutti i tempi, ma anche la crisi economico finanziaria del 2006, conseguenza di decisioni irresponsabili che, ad esempio, liberalizzarono lo scambio di prodotti derivati, portando la ricchezza virtuale e speculativa a oltre 400 mila miliardi di dollari, contro un prodotto interno lordo mondiale che sfiorava, a quel tempo, i sessanta mila miliardi.

Politiche scellerate che posero le basi per la speculazione sulle materie prime agricole, con picchi nei prezzi alla borsa di Chicago su frumento, mais e soia che buttarono sul lastrico milioni di piccoli produttori, ma anche la scelta di spostare l’estrazione del valore sui prodotti naturali e sui beni comuni come acqua, carbonio, foreste.

Il mondo si è via via trasformato in un immenso asset, su cui speculare e raccogliere miliardi di dollari in profitti, grazie alla potenza del fast-trading e degli algoritmi che permettono di investire in pochi millesimi di secondo grandi quantità di denaro.

La pandemia di Covid è figlia legittima di quella visione, che ha messo il mercato al centro indebolendo tutti i presidi di tutela, prevenzione, protezione della salute e dei diritti, e dimostrando, a partire dall’impoverimento dei sistemi sanitari per arrivare alla questione brevetti, come il neoliberismo sia, di fatto, la rappresentazione plastica dell’insostenibilità di un’ideologia fatta sistema.

Nonostante tutto ciò, questi anni di disastro economico e sociale rischiano di essere una discontinuità temporanea a un percorso che andrà avanti business-as-usual, basterebbe guardare alla risposta dei Paesi che, pur con un maggior interventismo in economia, stanno ristabilendo gli interessi delle élite che contano, a cominciare dalla riproposizione dei parametri di Maastricht in Europa, per arrivare all’accelerazione sui trattati di libero commercio e sulle privatizzazioni, passando per una sempre maggiore precarizzazione del mondo del lavoro grazie alle nuove forme di flessibilità, dallo smart working alla logistica.

Il ventennale del G8 di Genova, che arriva dopo un anno di riattivazione delle reti della società civile a cominciare dalla Società della Cura, (convergenza di movimenti sociali, organizzazioni e semplici cittadini e cittadine), è una finestra di opportunità che diventa ineludibile nella ridefinizione dei rapporti di forza sociali ed economici.

E’ necessario riattualizzare quelle analisi che facemmo a Genova vent’anni fa, rilanciare un’agenda di movimenti che guardi all’autunno come nuova stagione di lotta, rinsaldare collegamenti, dialoghi, convergenze che dimostrino come l’intersezionalità dei temi sia l’unica risposta complessa a un sistema economico che cerca di semplificare all’osso, ponendo il mercato al centro del vivere umano.

E’ questa la sfida di Genova 2021, sia per chi vent’anni fa era nelle piazze sia per chi, oggi, si affaccia per la prima volta sulla scena politica e sociale. Potrà essere un nuovo momento fondativo, che porta con sé l’eredità di quel luglio 2001. Starà a noi, donne e uomini di questo tempo, saperne cogliere le opportunità rilanciando verso un futuro che, di necessità, dovrà nascere su basi radicalmente diverse.

Photo Credits:

“WTO protesters on 7th Avenue, 1999” by Seattle Municipal Archives is licensed under CC BY 2.0

“Sommet G8 Gênes 2001” by Jeanne Menjoulet is licensed under CC BY-ND 2.0

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 47 di luglio-agosto 2021:  “20 anni di lotta e di speranza

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