Di Francesco Lombardi, Circolo MDF Brescia e Karl Krähmer, Circolo MDF Torino
Di fronte alle sempre più frequenti notizie in Italia di condizioni di lavoro e paghe inaccettabili, in questi mesi la sinistra italiana sembra aver finalmente riscoperto una delle sue ragioni d’essere: la lotta per una maggiora uguaglianza sociale. PD e Movimento 5 Stelle stanno finalmente portando avanti la proposta di un salario minimo1, strenuamente opposta dalla destra di governo2. Per quanto un salario minimo (oltre ad essere la normalità in Europa) sia una condizione fondamentale per un riconoscimento dignitoso del lavoro di tutte e tutti e perciò una richiesta da sostenere, da una prospettiva di decrescita ciò non basta, per le complesse relazioni tra disuguaglianze di reddito, giustizia sociale e ambiente. Per questo nel dibattito sulla decrescita si sta discutendo anche la proposta di un reddito massimo, sulla base del principio della sufficienza.
Scriveva Aristotele nella Politica (libro IV):
Ora, siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo, è evidente che anche dei beni di fortuna il possesso moderato è il migliore di tutti, perché rende facilissimo l’obbedire alla ragione, mentre chi è eccessivamente bello o forte o nobile o ricco, o, al contrario, eccessivamente misero o debole o troppo ignobile, è difficile che dia retta alla ragione […] Quelli che hanno in eccesso i beni di fortuna, forza, ricchezza, amici e altre cose del genere, non vogliono farsi governare né lo sanno […] mentre quelli che si trovano in estrema penuria di tutto ciò, sono troppo remissivi. Sicché gli uni non sanno governare, bensì sottomettersi da servi al governo, gli altri non sanno sottomettersi a nessun governo ma governare in maniera despotica. Si forma quindi uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e di gente che disprezza, e tutto questo è quanto mai lontano dall’amicizia e dalla comunità statale, perché la comunità è in rapporto con l’amicizia, mentre coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada. Lo stato vuole essere costituito, per quanto è possibile, di elementi uguali e simili, il che succede soprattutto con le persone del ceto medio.3
Il ragionamento di Aristotele si fonda su uno dei principi cardine del pensiero greco classico, la mesòtes, intesa come senso della misura e dell’equilibrio, lontananza dagli eccessi. Aristotele lo applica nella sua teoria filosofica dello Stato, che costituisce l’anima della Politica. Per il filosofo greco lo Stato (il modello di riferimento è quello della polis greca) nasce da individui che, in vista di un bene superiore, decidono di creare una comunità; su questo presupposto Aristotele parla dunque di «comunità statale», cioè di uno Stato basato su rapporti di amicizia: «coi nemici non vogliono avere in comune nemmeno la strada». La presenza di legami forti tra cittadini è la condizione necessaria per il buon vivere di una comunità; ma il buon vivere (cioè il vivere finalizzato al conseguimento del bene) non può realizzarsi se la composizione sociale della popolazione si polarizza nelle sue classi estreme, nei ricchi e nei miseri, perché la divergenza rende il conflitto inevitabile («gente che invidia e gente che disprezza») e conduce alla dissoluzione della comunità, quindi alla catastrofe. Da qui la necessità che la distribuzione della ricchezza e delle fortune nella comunità sia il più possibile omogenea. Ciò avviene se è presente un forte ceto medio, contraddistinto da un possesso moderato e sobrio dei beni di fortuna.
Una saggezza, quella greca, che l’attuale mondo capitalistico dell’accumulazione illimitata sembra non tenere più in considerazione. Ciò è dovuto anche a fattori storici: nei trent’anni gloriosi di furiosa crescita economica del secondo dopoguerra nel mondo occidentale sembrava che le disuguaglianze si potessero eliminare verso l’alto, cioè che tutta la popolazione potesse semplicemente diventare ricca e sempre più ricca e per diverso tempo in effetti si è formata una classe media mondiale con un benessere materiale in forte e continuo aumento4: i genitori potevano essere convinti che ai figli le cose sarebbero andate meglio. L’illusione però che questo processo potesse semplicemente continuare all’infinito e rendere ricch* tutt* ormai può essere data per perduta, prima per la crisi degli stati sociali con il neoliberismo, e oggi anche per la questione ambientale che mostra con ogni evidenza i limiti dell’attività umana.
L’intoccabilità delle leggi di mercato ha reso inesorabile l’aumento delle disuguaglianze sociali, sempre più profonde e intollerabili. Secondo il rapporto Oxfam La disuguaglianza non conosce crisi,5 nel 2021, a livello mondiale, complice la contemporanea incidenza di più crisi sovrapposte (pandemia, guerra, inflazione, crisi climatica) si è assistito a un fenomeno che non avveniva da 25 anni: sono aumentate simultaneamente e drasticamente sia l’estrema ricchezza sia l’estrema povertà. Da una parte, infatti, l’aumento dei prezzi alimentari ed energetici ha portato a un aumento dell’11% dell’incidenza della povertà estrema (massimo 2,15 dollari al giorno); dall’altra, l’immissione nell’economia globale di migliaia di miliardi da parte di governi e banche centrali ha fatto lievitare il prezzo delle attività finanziarie, di proprietà di poche persone. Senza contare che buona parte della ricchezza relativamente diffusa nel Nord globale si basa sull’appropriazione ingiusta di risorse dal Sud globale6 In questo modo l’1% più ricco della popolazione a livello planetario ha incamerato il 63% dell’incremento di ricchezza netta globale nel biennio 2020-2021.
Se focalizziamo l’attenzione sull’Italia, la situazione non è molto diversa. Sempre secondo Oxfam, alla fine del 2021 il 20% più ricco degli italiani deteneva il 68,6% della ricchezza nazionale. Nel periodo 2000-2021 la quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco è cresciuta del 3,8%, mentre la quota della metà più povera si è ridotta del 4,1%. Tale fenomeno, oltre ad essere moralmente intollerabile, è anche socialmente ed ecologicamente insostenibile, perché non può che alimentare il conflitto e minare le basi per il buon vivere della comunità.
Il problema purtroppo non si limita a questo: oltre alla questione sociale bisogna considerare quanto incide la ricchezza degli individui a livello ambientale. I cambiamenti climatici e la sproporzione dell’attuale sfruttamento delle risorse del pianeta ci obbligano a tenere conto anche dell’impatto che le nostre vite hanno sull’ecosistema e, anche in questo senso, ricchi e poveri non danno lo stesso contributo. Secondo il recente studio di Lucas Chancel, Global carbon inequality over 1990–2019,7 nel 2019 il 10% più ricco della popolazione mondiale ha emesso il 48% delle emissioni totali di carbonio. La grande disomogeneità nella distribuzione dei redditi, unitamente alla presenza dell’estrema ricchezza, pone quindi un problema non solo in termini di sostenibilità sociale ed etica, ma anche ambientale: uno stile di vita collettivo che compromette le condizioni climatiche e la disponibilità futura delle risorse naturali non può certo dirsi orientato al bene comune.
Pertanto una comunità statale che miri a porre condizioni stabili per una convivenza civile delle sue componenti sociali non può sottrarsi a una politica che abbia come obiettivo non solo l’eliminazione dell’estrema povertà, ma anche dell’estrema ricchezza. Se pensiamo alla polemica attuale in Italia sul salario minimo, rileviamo come l’oggetto della discussione rappresenti solo una parte del problema complessivo. È senz’altro condivisibile che una forma di salario minimo sia fondamentale come tutela verso lo sfruttamento e in difesa della dignità di chi lavora; ma, se non si introduce anche un argine superiore ai redditi, il problema rimane irrisolto, perché resta imperturbato il processo di accumulazione dei ricchi e quindi la crescita incontrollata dell’impatto ambientale umano – di cui sono in primis di nuovo le persone più povere a soffrire – un trend che non possiamo permetterci di assecondare ulteriormente.
La scarsa considerazione di cui gode nel dibattito pubblico l’idea di un reddito massimo si riflette anche nella letteratura specializzata, da questo punto di vista piuttosto scarna. Le proposte più elementari si basano su forme di tassazione che prevedono a un’aliquota tendente al 100% per redditi oltre una certa soglia fissata per legge. Proposte simili hanno trovato anche qualche applicazione reale nel corso della storia: nel 1942, in seguito alla battaglia di Pearl Harbor, il Congresso americano discusse la proposta del presidente Roosevelt di un’aliquota del 100% per coloro che, al netto delle tasse, rimanessero con più di 25’000 dollari (circa 375’000 dollari attuali) di reddito annuale; il risultato della discussione parlamentare fu un’aliquota del 94% per redditi superiori ai 200’000 dollari attuali,8 una decisione politica il cui effetto maggiore fu la formazione di una potente classe media e una forte riduzione delle disuguaglianze nei decenni successivi.
Una proposta alternativa è stata presentata da Alan Cottey nell’articolo Technologies, Culture, Work, Basic Income and Maximum Income9 (2013): il modello descritto da Cottey, identificato con l’acronimo AIL (Asset and Income Limits) rifiuta il meccanismo tipico della tassazione a fini redistributivi. Il presupposto è che esiste un limite sia alla ricchezza personale posseduta da ciascun individuo (data dalla somma di tutte le sue proprietà), sia agli introiti che un individuo può ricevere dalle diverse forme di reddito. Ogni forma di accumulazione illimitata è illegittima. Il modello AIL prevede dunque che ad ogni individuo siano associati due conti bancari: un conto patrimoniale (asset account), e un conto deposito (holding account). Il conto patrimoniale contiene le proprietà della persona, che può usufruirne in libertà, a patto di rimanere nei limiti sopra citati; se la persona accumula della ricchezza in eccesso, questa è convogliata nel conto deposito, che appartiene ad un’istituzione di garanzia che ha il compito di amministrare tali ricchezze in modo sostenibile e a favore della collettività, per poi restituirle alla persona non appena essa rientri nei limiti di ricchezza previsti dalla legge.
La proposta di un reddito massimo si può ricondurre a un principio cardine delle proposte politiche della decrescita: la sufficienza. Molto vicina al discorso di Aristotele, lega la questione sociale alla questione ecologica. L’idea è che in un mondo in cui l’illusione della possibilità di una continua e illimitata crescita economica si è infranta10, la promessa di giustizia sociale non si possa più basare su una ricchezza in continuo aumento ma che la ricchezza che la specie umana può complessivamente detenere è limitata. In un tale contesto, la lotta sociale non può più limitarsi a chiedere un benessere minimo per tutti ma deve rivendicare anche limiti alla ricchezza individuale. Questo non significa vivere peggio; anzi, una migliore equità può aumentare la qualità della vita in generale. George Monbiot, in un discorso alla Conferenza internazionale di economia ecologica e decrescita nel 2021 a Manchester, lo ha riassunto in uno slogan: “sufficienza privata, lusso pubblico”11; se condividiamo la ricchezza della società, e limitiamo quanto individualmente se ne può accumulare, c’è abbastanza per tutte le persone e possiamo pure godere di lussi come una piscina pubblica, cinema, teatri e così via. Oltre al reddito massimo infatti, ci sono molte proposte per un sistema di welfare pensato per un mondo oltre la crescita, dalla proposta di un reddito di base universale a dei servizi di base per tutta la popolazione o specifici sostegni per permettere alle persone di uscire da una tecnologia insostenibile come l’auto individuale e adottarne un’altra12.
La proposta di un reddito massimo per ora è solo una proposta, qualcosa, ma comunque troppo poco. Per sperare che il reddito massimo diventi tema di dibattito pubblico serve molto di più: ricerca, dibattito, lotta. I partiti e i movimenti che propongono modelli di società alternativi a quello attuale dovrebbero seriamente prendere in considerazione il concetto della sufficienza e la proposta dell’introduzione del reddito massimo: non solo perché, a livello culturale, essa riaffermerebbe l’idea del limite, fondamentale per una società veramente alternativa a quella capitalistica, ma anche perché avrebbe la potenzialità di innescare davvero un meccanismo di reale cambiamento sistemico13. Un cambiamento di cui abbiamo immensamente bisogno.