di Gioacchino Toni
Rossella Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 374, € 22,00
Come vorrei che il dormitorio venisse spazzato via, la fabbrica bruciasse, / e il guardiano morisse di colera! (Canto delle operaie del settore tessile, Giappone, fine del XIX sec.)
Dopo aver proposto con il volume Onibaba (Mimesis, 2023) un affascinate viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri, con il suo nuovo libro, Yamanba. Donne ribelli del Giappone (Mimesis 2025), Rossella Marangoni va alla ricerca degli indizi di ribellione e delle istanze di libertà nei comportamenti, nei miti e nella scrittura delle donne giapponesi mostrando come queste abbiano saputo trasformare la mostruosità di cui venivano accusate in un gesto consapevole di rivolta.
La figura della yamanba, a cui fa riferimento il titolo del volume, è la vecchia strega di montagna antropofaga, archetipo del male, demonizzata e percepita come una tremenda alterità minacciosa che, dopo essere stata ridotta per secoli al silenzio, ha saputo ritrovare la voce e sottrarsi al modello di femminilità sottomessa e remissiva che le è stato imposto.
Se l’esotismo occidentale di fine Ottocento ha teso a ridurre la figura della donna giapponese alla silhouette bidimensionale della geisha tra paraventi, ventagli, ombrellini e fiori di ciliegio, non si può dire che la conoscenza più diretta dell’universo nipponico da parte occidentale, che si è data attraverso l’occupazione del Paese al termine del secondo conflitto mondiale, non sia stata da meno nel diffondere una visione della donna giapponese stereotipata, riduttiva e decisamente piegata all’immaginario maschile occidentale: il cinema, soprattutto hollywoodiano, degli anni Cinquanta ha spesso ridotto le figure femminili nipponiche a «delicate bellezze dagli occhi allungati da un trucco sapiente (e sono sempre, o quasi, attrici non asiatiche), a perpetuare il mito della geisha remissiva, sottomessa al volere dell’uomo bianco» (p. 14).
È proprio il constatare il perdurare del fenomeno di esotizzazione occidentale delle donne giapponesi, tanto che lo si ritrova facilmente anche in film ben più recenti rispetto alle produzioni dell’immediato secondo dopoguerra, che spinge Marangoni ad intraprendere la sua ricerca della donna nella società e nella cultura del Giappone guardando ad essa senza piegarla ai desideri dell’immaginario – soprattutto maschile – occidentale con l’intendo di verificare quanto abbia saputo sottrarsi o ribellarsi, nel corso dei secoli, alla remissività ed alla sottomissione imposte dagli uomini.
«Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, pulsioni contraddittorie di orrore e meraviglia, di attrazione e rifiuto, di fascinazione e, al contempo, di respingimento» (p. 18); i mostri sono esseri ambigui, capaci di suscitare repulsione ed attrazione allo stesso tempo, esseri liminali fra mondi diversi, tra noi e l’altro, tra il buono ed il cattivo, tra il bene ed il male, ma anche tra il passato ed il presente, tra la vita e la morte. Esseri destinati a metterci in discussione in quanto sfidano l’idea di normalità e lo stesso concetto di identità. «Tutti questi temi che stanno alla base del nostro modo di essere nel mondo, di concepirci come esseri umani, sono i temi della mostruosità di cui, nel corso dei secoli, sono state investite le donne. Un’irriducibile anomalia che sconvolge un universo altrimenti armonico, perfetto: quello maschile» (19).
La demonizzazione della donna nel Giappone antico ha certamente a che fare con il pensiero confuciano classico, con la sua insistenza sulle Tre Obbedienze (al padre, al marito ed al figlio maggiore) a cui deve sottostare la donna, così come ha a che fare con l’orrore per la contaminazione del sangue, tipico della spiritualità arcaica e che ricompare nei culti e nei riti dello shintō e in alcuni sutra buddhisti tendenti ad emarginare la donna dalla sfera del sacro e dal sistema di potere che ruota attorno ad esso.
Più che alle radici culturali ed alle modalità di estromissione della donna e della sua riduzione al silenzio, Marangoni decide di guardare alle ribellioni delle donne. Se si risale alle origini della civiltà giapponese, ci si imbatte in un’importante divinità femminile, Amaterasu, per nulla remissiva, in lotta con il fratello. Il conflitto tra i due tra i due si risolve attraverso danze orgiastiche che sanciscono «il trionfo del sesso femminile come artefice di gioia e di vitalità» (p. 24), capace di portare pacificazione e sconfiggere il male (maschile).
Proseguendo nel suo percorso, Marangoni si dice convinta che per quanto si tenda a guardare al Taketori monogatari (Racconto del tagliabambù), trasposizione letteraria del X secolo di un racconto popolare giapponese, come ad una parodia dei costumi di corte, pur con qualche forzatura, sia possibile leggerlo, soprattutto nelle riprese più recenti del testo, anche come la narrazione di una ribellione femminile, visto che narra di una principessa da fiaba che osa sottrarsi all’istituzione matrimoniale, affermando la sua volontà.
Nella raccolta di storie del XII secolo Tsutsumi chūnagon monogatari (Racconti del consigliere medio della riva del fiume), si incontra una principessa incline a farsi beffe del sentire comune, delle convenzioni estetiche e dei costumi del tempo. Per quanto si tratti di un racconto parodico attraverso cui l’autore intende farsi beffe dell’eccentricità delle donne poco inclini a conformarsi ai modelli loro imposti, secondo Marangoni, la determinazione con cui la principessa del racconto persegue le sue passioni e le sue convinzioni, il suo anticonformismo ed il suo disinteresse per il modello di femminilità vigente al tempo, la rendono una figura quasi contemporanea, lontana dall’immagine eterea e dimessa della donna convenzionalmente raccontata.
Per secoli la donna dovrà mettere in essere strategie ingegnose di resistenza, dal silenzio alla vendetta psicologica, sottile ma inesorabile. Mai aperta, sempre nascosta dietro una cortina di ritegno, di sommesso sussurro, come un grido soffocato, la rivolta delle donne in Giappone, nei secoli passati, si è fatta strada dilagando come acqua che tracima da un pozzo, il pozzo della prigionia e della rabbia, come acqua che fuoriesce da un canale e allaga i campi, le risaie, impantanando gli uomini nel fango originato dal loro stesso disprezzo (p. 37).
Sono tanti i volti con cui si è manifestata la rabbia femminile, così come sono molteplici le strategie di ribellione a cui hanno fatto ricorso le donne. Ci sono stati periodi e contesti in cui la possessione ha assunto per le donne le forme di un atto di ribellione. In epoca pre-buddhista, in Giappone, le donne sono state regine sciamane, delle sacerdotesse che svolgevano un ruolo di mediazione tra gli esseri umani ed i kami, le entità supreme che, attraverso danze sciamaniche, prendevano possesso del corpo di queste mediatrici.
Le memorie delle nyōbō, dame in servizio alla corte imperiale, rappresentano una prima forma di riflessione su sé stesse di un gruppo di donne, per quanto appartenenti ad un ambito privilegiato vicino al potere. Nelle loro memorie è possibile vedere un’anticipazione della corrente autobiografica che sarà base della letteratura moderna giapponese. «Scrivere di sé per parlare di sé. Per raccontarsi o per sfogarsi? E sfogarsi non è già prendere coscienza della propria situazione? Denunciarla? O addirittura, pur sommessamente, cercare di opporvi resistenza?» (p. 40).
È interessante notare come lo stereotipo maschile secondo cui “la gelosia è donna” derivi da una società, come quella heian, caratterizzata dalla poligamia maschile, che non può che indurre a sentimenti di gelosia tra le donne. Se il tema della possessione femminile, molto presente nella letteratura classica e moderna, nel teatro nō e nel cinema, con il suo trasformare le donne viventi in dèmoni, può essere letto come monito ad accettare passivamente lo stato di subordinazione al fine di evitare di «uscire da sé stesse e di commettere azioni potenzialmente letali» (p. 57), nella possessione della donna da parte di uno spirito si potrebbe scorgere una delle tante strategie poste in essere dalle donne per palesare il proprio malessere.
Marangoni si sofferma sulla figura dell’anziana antropofaga yamanba che abita nelle montagne presente nel folklore giapponese, ripresa e aggiornata più volte ne corso del tempo. In particolare l’autrice prende in esame la riproposizione che ne fa il teatro nō che, con le molteplici rappresentazioni che si sono susseguite nel tempo, ha concorso a definire l’immagine di questo mostro femminile generando, al contempo, un archetipo di femminilità.
Pur essendo il dramma nō imperniato attorno ad una visione della donna propria della sua epoca, fortemente legata al messaggio buddhista ed alla visione maschile della duplicità della donna, seduttiva e minacciosa allo stesso tempo, rappresenta una rilettura capace di ribaltare la narrazione tradizionale e di aprire nuove strade. È infatti al modello della yamanba del nō, ben più che al demone femminile del folclore, che fanno riferimento le scrittrici novecentesche per creare una narrativa di ribellione, in cui la yamanba viene riletta «come ideale di donna che vive, nella società giapponese, oltre lo stereotipo della femminilità» (p. 70). Insomma, la yamanba, nelle mani delle donne, diviene uno strumento «per raccontare la propria versione della storia» (p. 71).
Altro ambito approfondito dall’autrice riguarda lo spettacolo onna kabuki o yujō kabuki (kabuki delle prostitute) nel Giappone di epoca Tokugawa creato dall’attrice e balleria Okuni. Il kabuki delle donne viene proibito nel 1629 con l’accusa di “disturbo della moralità”; spetterà ai ragazzini che le donne avevano introdotto nelle loro compagnie mantenere in vita questa forma di spettacolo, ora chiamato wakashū kabuki, il kabuki dei ragazzi. Nel 1652 anche questi spettacoli vengono vietati lasciando il posto al kabuki di soli uomini adulti che impersonano anche le parti femminili mettendo in scena una donna sublimata. È così che, paradossalmente, il teatro creato da una donna, Okuni, finisce per essere sottratto e negato alle donne.
Se la figura della yamanba è centrale nei drammi cosiddetti yamanba mono, spetta al dramma Komochi yamauba (Yamauba con un bambino) di Chikamatsu Monzaemon imprimere, nel corso del XVIII secolo, una svolta nella rappresentazione della mostruosa creatura femminile: presentata «non più come la donna anziana di spaventoso aspetto del folclore e non solo come una donna giovane e bella, ma anche come una moglie e una madre devota» (p. 102).
Altro approfondimento proposto dall’autrice riguarda le cosiddette daraku jogakusei, le “studentesse degenerate” delle città del Giappone del XIX secolo che si sta aprendo all’Occidente e che intende modernizzarsi velocemente. Si tratta di giovani poco inclini a seguire le regole e desiderose di studiare. La scolarizzazione femminile permetterà l’accesso alla scrittura diretta delle donne, e la figura della jogakusei degenerata inizia a comparire nelle opere letterarie, come nel caso del romanzo Makaze koikaze (Vento di demoni, vento d’amore) del 1903 di Kosugi Tengai sebbene, in questo caso, l’intento dell’autore sia quello di mostrare come «l’istruzione, per le donne, sia pericolosa se non è mirata alla formazione di una persona che incarni il modello di sposa fedele e madre saggia, una donna patriottica al servizio di una nazione moderna» (p. 131). Prese di posizione moralistiche, votate a mettere in guardia le ragazze da un’istruzione non finalizzata al mantenimento dello status quo, le si ritrovano, a cavallo tra i due secoli, anche in diversi scritti di donne.
Se da un lato il governo Meiji guarda alle giovani donne come esempio della modernizzazione auspicata, non appena queste fanno capolino in ambito pubblico, si affretta a condannarle accusandole di perversione. È in questo stesso periodo che si sviluppa una sorta di “culto della verginità” che, almeno fino ad allora, ricorda l’autrice, non apparteneva alle classi popolari giapponesi. Proprio nel momento in cui il Paese intende darsi una veste illuminata sui modelli occidentali, si assiste ad una sostanziale confluenza fra un moralismo di stampo vittoriano e un rigorismo confuciano in direzione di uno Stato-famiglia (kazoku kokka) incentrato sul controllo della castità della donna “in età da marito”.
Se è difficile indicare le daraku jogakusei come vere e proprie ribelli, il fatto stesso che siano demonizzate, mostrificate e disprezzate conferisce loro un potere sovversivo, per quanto più percepito che agito. Se a dare voce alla sofferenza e alla disperazione delle donne di epoca Meiji contribuiscono scrittrici come Higuchi Natsu (Ichiyō), anche nella scelta del silenzio è possibile cogliere una forma di resistenza, come accade nel romanzo Onnazaka (1949) e nel racconto Ossa di uomini (Otoko no hone, 1956), entrambi della scrittrice Fumiko Enchi.
Spazio viene dedicato dall’autrice non solo ad attiviste come Kishida Toshiko, Fukuda Hideko e Kusunose Kita, attive sul finire del XIX secolo nella lotta per i diritti delle donne, ma anche a testimonianze che raccontano di come gli ideali del Movimento per la libertà e i diritti del popolo serpeggiassero persino tra le geisha. A tal proposito Marangoni ricorda la nascita nel 1883 a Kyōto di un’organizzazione di geisha denominata Jiyūkō (Associazione per la libertà) e di una associazione analoga a Kōchi, sull’isola di Shikoku, chiamata Geigi konshinkai (Società di amicizia delle geisha) mentre, nella stessa località, alcune di queste donne non mancano di partecipare attivamente alle assemblee prefettizie, mettendo persino in scena una “danza dei diritti civili” (minken odori).
Al libro Jokō aishi (La miserabile storia delle operaie) scritto dall’operaio tessile Hosoi Wakizō nel 1925, tra i fondatori della corrente della letteratura proletaria, si deve un importante racconto delle condizioni di vita delle giovani operaie di periodo Meiji, per quanto le dipinga come «soggetti passivi, inconsapevoli, incapaci di scegliere e di ribellarsi al proprio destino» (p. 209). Anche la moglie e collega di lavoro Takai Toshio racconterà, sebbene diverso tempo dopo, di quel mondo nel suo Watashi no “jokō aishi” (La mia miserabile storia delle operaie, 1980). Storie di vita di giovani operaie sono raccontate, in forma di diario, anche da Wada Ei nel testo uscito postumo Tomioka nikki.
Le avrebbero volute docili, perché così le hanno create: utilizzando abilmente le leggi che impedivano alle donne la partecipazione alla vita politica e che le relegavano perennemente allo stato di minore, attraverso una gestione paternalistica delle manifatture che esigeva lealtà e obbedienza e prevedeva contratti a breve termine per giovani che di lì a poco si sarebbero sposate e avrebbero abbandonato la fabbrica e che quindi non valeva la pena formare e responsabilizzare, i datori di lavoro idearono un prototipo di lavoro femminile che […] avrebbe costituito il modello per eccellenza di lavoro femminile nelle aziende per tutto o quasi il XX secolo. Un paradigma di successo ancora una volta destinato a limitare, arginare, circoscrivere il cammino delle donne verso una vera indipendenza (p. 214).
In realtà, tutt’altro che docili e remissive, le giovani operaie dei setifici e dei cotonifici (che costituivano l’80% della forza lavoro nel comparto tessile), negli anni Venti e Trenta del Novecento, diedero filo da torcere ai datori di lavoro «con scioperi massicci contro gli abusi sessuali dei sorveglianti, per la riduzione dell’orario di lavoro, per l’apertura dei dormitori. Lo faranno organizzandosi da sé, perché gli uomini – anche i loro compagni di lavoro – alla fine si rivelavano tutti preda di un’unica convinzione: che le donne non possano prendere l’iniziativa, che portano guai, che sono deboli e incapaci» (p. 216).
Secondo l’autrice il 1911 rappresenta per le donne giapponesi il momento di svolta in cui hanno acquisito consapevolezza della possibilità di rifiutare l’ideale di femminilità loro imposto. L’anno si apre con la messa a morte dell’anarchica Kanno Sugako, insieme ad una ventina di complici, per aver ideato un complotto per assassinare l’imperatore Meiji. Il 1911 è anche l’anno in cui a Tōkyō debutta in teatro la prima produzione giapponese di Ningyō no ie (Casa di bambola, Et dukkehjem, 1879) di Henrik Ibsen, diretta da Shimamura Hōgetsu con l’interpretazione di Matsui Sumako, la prima attrice diplomata in una scuola di teatro a salire sul palco in Giappone: «la rappresentazione fece scalpore per i contenuti esplosivi del dramma, che rivelavano l’ipocrisia del matrimonio, denunciavano la sottomissione della donna e mettevano in discussione l’autorità del capofamiglia in una realtà, come quella giapponese di fine Meiji, che non riconosceva alla donna neppure lo status di soggetto giuridico» (p. 223).
Lo spettacolo, scrive Marangoni, ha avuto un ruolo importante nello scuotere le coscienze delle donne giapponesi, nell’invitarle a quell’auto-risveglio che in giapponese, ricorrendo a un termine buddhista, verrà detto jikaku. Termine che verrà utilizzato anche a proposito della Nuova Donna moderna giapponese. Se da una parte le vicende della protagonista Nora, messe in scena sul palco, scuotono le coscienze femminili, queste, sottolinea la studiosa, inducono le donne giapponesi a domandarsi quanto sono disposte a sacrificare per la propria liberazione.
L’anno successivo ad essere messa in scena a Tōkyō è Magda (Heimat, 1893) del drammaturgo tedesco Hermann Sudermann, con la regia di Shimamura Hōgetsu. Si tratta di un dramma incentrato su di una giovane determinata a svincolarsi dalle ingerenze del padre per dedicarsi al canto che si trova a dare alla luce un figlio al di fuori del matrimonio ed a causare, suo malgrado, la morte del padre, colpito da un colpo apoplettico dopo aver tentato di uccidere la figlia in preda all’ira. Per l’attacco portato alla famiglia, lo spettacolo viene proibito subito dopo la prima: agli occhi del potere del tempo, quella della protagonista Magda rappresenta un’intollerabile insubordinazione alla famiglia gerarchica e, con essa, allo Stato stesso. Occorrerà aggiungere le scuse finali della donna affinché lo spettacolo possa essere nuovamente messo in scena, ma ormai «Magda, che rifiuta un matrimonio riparatore per perseguire da sola un’esistenza di madre indipendente che sfida le leggi del patriarcato, diventa per tutte l’eroina prediletta, colei che accompagna ciascuna nella presa di coscienza della propria condizione subalterna» (p. 227).
Il 1911 vede anche l’uscita del primo numero di “Seitō”, la prima rivista letteraria redatta e pubblicata esclusivamente da donne che, nei suoi cinque anni di vita, a cui contribuiscono centosessanta autrici, si trova più volte ad avere a che fare con la censura. Se la prima ondata femminista in Giappone, portata avanti dalle pioniere di epoca Meiji, si era battuta per la libertà di espressione, per l’eguaglianza dei diritti e delle opportunità educative, la seconda ondata, a cui prende parte la rivista, presenta nuovi temi e rivendicazioni «quali il riconoscimento di sé, della sessualità femminile e della libertà sentimentale e sessuale, affrontando nella scrittura argomenti finora inesplorati perché considerati tabù: prostituzione, castità, maternità, aborto, infelicità coniugale, divorzio, relazioni omosessuali» (pp. 232-233). Le ragazze di “Seitō”, scrive Marangoni,
sono cattive ragazze e le idee che propugnano di indipendenza, di libertà sessuale e sentimentale, di rifiuto di nozze combinate e di esistenze consumate nel chiuso delle case, queste idee le vivono, ribellandosi ai modelli, assumendo comportamenti che l’opinione pubblica considerava immorali e inammissibili. Sì, volevano vivere liberamente la propria sessualità e lo dichiaravano e lo scrivevano, senza i legami di costrizione, appunto, del matrimonio (p. 234).
L’autrice ricostruisce le tappe principali dell’esperienza della rivista, soffermandosi anche sull’anarchica femminista di Itō Noe che ne assume la direzione nel 1915 affiancando alle tematiche femministe anche istanze del movimento anarchico internazionale e rivendicazioni del movimento operaio. In seguito al grande terremoto della regione del Kantō (il cosiddetto Kantōdaijishin) che semina morte e distruzione (oltre centodiecimila morti e due milioni e mezzo senzatetto) si scatena in Giappone una furiosa e folle caccia ai coreani (incolpati di aver provocato incendi e di aver avvelenato pozzi), agli anarchici ed ai socialisti (accusati di approfittare della tragedia per fomentare una rivolta contro le autorità politiche). A farne le spese è anche l’anarchica Noe, assassinata in prigione, e l’anarco-nichilista coreana Kaneko Fumiko, che si suicida in carcere.
Di un certo interesse sono le modalità con cui viene raffigurata la figura femminile nel Giappone degli anni Venti del Novecento nelle cartoline satiriche chiamate saikun tenka (“il regno delle spose”): «mogli tiranniche che regnano su mariti deboli e li obbligano a occuparsi delle faccende domestiche e della prole» (p. 256). A parte il sorriso che poteva generare questa inversione di ruoli, tali cartoline, scrive Marangoni, rivelano piuttosto «una visione generalizzata decisamente maschilista e delle ansie che le donne moderne del Giappone ingeneravano» (p. 256).
Ad inquietare maggiormente la società giapponese nei primi decenni del XX secolo è la comparsa della shokugyō fujin, la donna lavoratrice che, uscendo di casa, può prendere coscienza della propria condizione confrontandosi con compagne di lavoro, una donna che può, finalmente, avanzare rivendicazioni, esprimere proprie idee ed esibire il proprio corpo e la propria sessualità. Se le popolane si erano già trovate a lavorare fuori casa, ora il fenomeno riguarda anche le donne dalla classe media.
La Nuova Donna di inizio Novecento è un pericolo perché rappresenta l’antitesi perfetta al modello di donna che era stato stabilito per lei, ossia «funzionale al mantenimento della famiglia patriarcale in uno Stato-famiglia sotto la guida di un imperatore-padre» (p. 258). Alla donna remissiva, obbediente, priva di diritti, voce e visibilità, fa da contraltare una Nuova Donna che, evitando di sottostare a tutto ciò, genera timore in quanto mina la stabilità sociale. Se questa nuova figura femminile è considerata svergognata e immorale dai conservatori, non manca di venire attaccata anche dagli ambienti di sinistra che la giudicano edonista e borghese.
Fatte le debite distinzioni, dettate dai differenti contesti, questo nuovo tipo di donna spavalda, con tutte le inquietudini che genera, fa la sua comparsa tra le due guerre mondiali anche in Occidente: la garçonne, la flapper, la Neue Frau, la maschietta ecc. Donne moderne a cui lo sguardo maschile guarda con ambivalenza: seduttive e utili all’economia (sia in ambito produttivo che di consumo) ma anche minacciose per l’integrità delle istituzioni fondanti della società tradizionale.
La modern girl che si ritrova nei romanzi giapponesi – in Chijin no ai (L’amore di uno sciocco, 1924), di Tanizaki Jun’ichirō, ad esempio, vine descritta come viziata e tirannica – è certamente differente da quella che si può trovare nella realtà ove, non di rado, dietro alle apparenze moderne, soprattutto nei locali, si cela un tragico universo di sfruttamento.
Nei primi anni Venti, le cameriere di Ōsaka danno vita ad un proprio sindacato, l’Ōsaka jokyū dōmei – presto sconfessato dalla sezione di Ōsaka della Nihon rōdō sōdōmei, la Confederazione giapponese del lavoro, che le accusa di “scarsa moralità” – con l’intenzione di rivendicare, tra le altre cose, l’abolizione del sistema delle mance che le obbligava a flirtare con i clienti ed il diritto ad essere rimborsate delle spese di lavanderia, dei pasti e dei materiali di consumo utilizzati durante il lavoro per presentarsi come richiesto dagli uomini che guardavano loro sospesi tra attrazione e timore. Per attenuare l’inquietudine che queste donne generano, gli uomini adottando facilmente rapporti di autorità su di esse. Nel raccontare delle forme di ribellione che si sono date in questo Giappone di inizio Novecento teso alla modernizzazione, Marangoni ricorda anche la lotta delle manekin gāru, ragazze impiegate nei negozi per stare in vetrina come manichini viventi.
Negli anni Cinquanta, complici le riviste patinate e lo stesso cinema, la figura della donna propagandata continua a ridurla a moglie e madre, come non esistesse al di fuori di questi due ruoli in cui è al servizio del marito o dei figli e che ha nella figura della casalinga il modello perfetto. Tale modello, però, viene fortemente messo in discussione negli anni Sessanta, quando prende piede una nuova generazione di attiviste femministe che prende il nome di ūman rību e che, nel decennio successivo non manca di lottare a difesa del diritto di aborto e per la legalizzazione della pillola contraccettiva. Particolarmente attivo è il movimento Chūpiren per l’autodeterminazione della donna nato nei primi anni Settanta.
In tale contesto ecco rifare capolino la yamanba: sono le donne stesse, come avviene del resto in Occidente, ad impossessarsi dell’appellativo di “strega”, tanto che i concerti di autofinanziamento organizzati dal movimento ūman ribu vengono chiamati dalle stesse attiviste witch concert. Nelle arti e nella letteratura si fanno sempre più potenti le voci delle donne che, attraverso tematiche intrise di sessualità e di erotismo, affermano un altro modo di essere donna in Giappone.
E il femminile demoniaco diventa così un motivo femminista. Protagoniste o comprimarie di queste narrazioni saranno le yamanba, le figure archetipiche di cui inseguo le impronte, che tornano sotto spoglie diverse nella letteratura giapponese degli anni Settanta, Ottanta e Novanta del XX secolo quali numi tutelari. O forse no, meglio, riappaiono come frecce scagliate contro un sistema che ancora guarda con sospetto questo Altro che è la donna. Andare verso yamanba, però, vuol dire scavarsi dentro, guardarsi con lucidità, per trovare in sé tutta la forza, tutta l’energia utile a uscire allo scoperto, a imporre le proprie idee, i propri desideri, con determinazione, senza vacillare (p. 295).
Quello proposto dalle storie scritte da donne ribelli è un nuovo modo di raccontare la yamanba. Punto di svolta in tal senso è il racconto Yamanba no bishō (Il sorriso della yamanba, 1976) della scrittrice Ōba Minako. La sua yamanba non è quella del folclore che la vuole isolata, ma una donna che vive in società nello spazio urbano, capace di leggere nella mente altrui. A partire da allora si sono susseguite svariate riletture della yamanba, tra queste Marangoni cita il racconto Yamanba (2009) della scrittrice e monaca buddhista Setouchi Jakuchō. Guardando più in generale alle tante riscritture che hanno fatto rifermento alla yamanba, la studiosa evidenzia che
si tratta per lo più di storie in cui l’elemento fantastico è prevalente o di racconti di fantascienza poiché, per immaginare un nuovo modo di essere donna, occorre immaginare mondi nuovi. E, sempre, queste fantasie di violenza, di morte, di antropofagia o di sadomasochismo liberano la donna dallo status di vittima e la rendono protagonista attiva in un percorso di liberazione doloroso e catartico al tempo stesso (p. 312).
Al termine del viaggio proposto da Rossella Marangoni, ci si accorge di come la donna che rifiutava/rifiuta di adeguarsi al modello femminile imposto, diventava/diventa facilmente un mostro, una minaccia per il patriarcato: una yamanba. Dedicato «Alle “cattive ragazze” del Giappone. E a tutte le yamanba che vagano libere», il viaggio proposto da Rossella Marangoni, impreziosito da un ricco apparato iconografico, è davvero un viaggio che vale la pena di compiere.