Il prossimo 19 febbraio (Yekatit 12, nel calendario etiope) ricorrerà l’84° anniversario del massacro di Addis Abeba, uno dei peggiori crimini mai compiuti dal Regno d’Italia nelle sue colonie. La vicenda, dopo decenni di oblio e sottovalutazione, è ormai abbastanza nota, anche grazie alla traduzione italiana della monografia di Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, pubblicata da Rizzoli nel 2018.
Il 19 febbraio 1937, in seguito a un attentato, purtroppo fallito, contro il Viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, si scatena un’immane rappresaglia, condotta non solo da militari e camicie nere, ma anche da operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri o semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vengono uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati nelle loro case. Dapprima ci si concentra sulla capitale, stretta dall’aviazione in un “cerchio di fuoco”, così che nessuno possa fuggire. Quindi si passa ai villaggi vicini e a quella parte del paese (non più di un terzo) che gli Italiani controllano davvero, nonostante le proclamazioni fasciste sulla “conquista dell’Etiopia” e il ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma. Nel frattempo, centinaia di persone vengono arrestate e muoiono nei campi di detenzione di Danane e Nocra, dove Graziani ordina che abbiano minime quantità d’acqua e di cibo. Circa 400 notabili e membri dell’élite locale vengono deportati in Italia, nella colonia penale dell’Asinara, e da qui smistati in altri luoghi di confino e prigionia (Longobucco, Palermo, Frascati, Ischia…)
A maggio, le indagini sui due attentatori – Abraham Deboch e Moges Asgedom – suggeriscono che il villaggio conventuale di Debre Libanos li abbia ospitati e sostenuti durante i preparativi dell’azione. Le prove non ci sono, ma un telegramma di Graziani ordina al generale Pietro Maletti di passare per le armi tutti i monaci, nessuno escluso. Quando Maletti comunica a Graziani la “liquidazione completa” della comunità monastica, le escuzioni ufficiali ammontano a più di 400. Studi recenti, tra i quali quello del citato Ian Campbell, considerano invece plausibile l’uccisione di circa 2000 persone, compresi centinaia di minorenni, sia laici che religiosi.
Nel 1946, al termine della Seconda guerra mondiale, il governo etiope presentò un memorandum alla Conferenza di Pace di Parigi, per chiedere il riconoscimento dei crimini di guerra italiani durante i cinque anni di occupazione del paese. Alla voce “massacro del febbraio 1937”, sono calcolate 30mila vittime, mentre 760.300 sono i morti ascritti all’aggressione fascista, uccisi in battaglia, per rappresaglia, nei bombardamenti, nei campi di prigionia, nei villaggi incendiati o da un plotone d’esecuzione.
Sessant’anni più tardi, nel 2006, un piccolo gruppo di parlamentari presentò alla Camera una proposta di legge per istituire, il 19 febbraio, un «Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana». Non sappiamo che fine abbia fatto la proposta e quale sia stato il suo iter. D’altra parte, crediamo che una giornata del genere non abbia bisogno di essere istituita per legge. Un anniversario di manifestazioni, approfondimenti e azioni dirette può nascere dal basso, se lo si ritiene utile. Noi pensiamo che possa esserlo, e il 19 febbraio ci sembra una data significativa, senza per questo voler sminuire le atrocità italiane commesse nelle altre colonie e territori occupati.
Con un mese d’anticipio, lanciamo quindi un’invito a tutte quanti le antirazzisti, per Yekatit 12|Febbraio 19.
Un invito a organizzare iniziative per ricordare le nefandezze del colonialismo italiano.
Che genere di iniziative? Beh, si sa che noialtri abbiamo il pallino della guerriglia odonomastica e topografica, cioè gli interventi che coinvolgono statue, targhe stradali, nomi di vie, lapidi e monumenti. Tuttavia, non vogliamo mettere limiti alla fantasia. Che si tratti di letture ad alta voce, rituali simbolici, conferenze a distanza o street art, ci piacerebbe raccogliere testimonianza di tutto quanto verrà fatto in quel giorno, con foto, documenti e resoconti.
Dice: “Ma beati ragazzi, non vi siete accorti che è in corso una pandemia mondiale? Vi sembra questo il momento di pensare ai nomi delle strade?”. Sì, ce ne siamo accorti, ma in più di vent’anni di lavoro culturale ci siamo anche accorti che proprio quando “ben altri problemi incombono”, bisogna stare molto attenti a ciò che viene considerato superfluo e rinunciabile. Proprio quando le vacche sono magre bisogna evitare di pensare soltanto alle vacche. Altrimenti, per certe cose, non è mai il momento, ci sarà sempre benaltro per giustificare un rimando, e alla lunga l’oblio. Se invece una questione rimane all’ordine del giorno, anche quando l’agenda è fitta di scadenze “più importanti”, allora non sarà possibile cancellarla del tutto, e per sempre.
Proprio per questo, il 25 aprile e il 1° maggio 2020, in pieno lockdown, si sono tenute iniziative, anche in strada, per impedire che la paura togliesse ogni sapore a due feste importanti.
In vista di Yekatit 12|Febbraio 19, Il nostro primo contributo consiste in una mappa, in perenne lavorazione, dove abbiamo localizzato vie, lapidi, edifici, monumenti e altri aspetti del paesaggio che sono legati, di nome e di fatto, alla stagione coloniale italiana. Pensiamo che ognuno di essi (e sono migliaia!) offra l’opportunità per approfondire una vicenda, raccontare una storia, mettere in crisi un punto di vista, proporre un’alternativa allo stereotipo e alla censura.
Anche in questo caso, non vogliamo prescrivere come intervenire per cogliere queste occasioni di fare memoria (e di fare giustizia). Negli anni, qui su Giap, abbiamo dato spazio a tanti esempi diversi, e ci siamo convinti che ovunque possibile, sia meglio “mantenere & spiegare”, piuttosto che “cancellare & sostituire”. Ma come detto, non si tratta di una regola generale, e non è certo nostra intenzione dettarne, perché ogni caso è diverso dall’altro, ogni territorio ha il suo genius loci.
Noi stessi, in alcuni casi, abbiamo seguito un terzo principio, che non parte né dal mantenere né dal cancellare, ma addirittura dall’aggiungere. Ad esempio, quando aggiungemmo una dedica al macellaio d’Italia Rodolfo Graziani sugli orinatoi di Bologna, i cosiddetti vespasiani, gemellandoli all’immondo “sacrario al soldato” di Affile.
Proprio in questi giorni, sul n. 35, anno XI, di Roots§Routes – intitolato “Anche le statue muoiono” – compare un doppio articolo di Wu Ming 2 e Luca Cinquemani (del collettivo Fare Ala) che ritorna sugli interventi di guerriglia odonomastica realizzati a Palermo nel 2018, per Manifesta 12, con il progetto Viva Menilicchi!, e su quelli che, da lì in avanti, come un’inarrestabile ondata, hanno travolto la Sicilia.
Entrambi i testi contengono riflessioni e spunti per azioni mirate a modificare o integrare il senso di targhe, statue e altri arredamenti urbani. Il blog di Resistenze in Cirenaica ne contiene moltissimi altri, e tante nuove idee possono nascere dai dettagli e dalle particolarità di ogni luogo.
Non resta che iniziare a pensarci. Il 19 febbraio è vicino.
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